martedì 22 gennaio 2019

Martin Heidegger - Intervista - 1966

MARTIN HEIDEGGER
INTERVISTATO DALLO SPIEGEL

Traduzione di Gino Zaccaria
Testo estratto da: M. Heidegger Scritti Politici (1933-1966), a cura di François Fédier, ed. it. a cura di Gino
Zaccaria, Piemme, Casale Monferrato 1998, pp. 263-96 e pp. 365-70 per le Note. Disponibile su
www.eudia.org.
1
<263>
Martin Heidegger intervistato dallo Spiegel (107)
Spiegel: Professor Heidegger, abbiamo sempre constatato che, sulla sua opera filosofica, grava
un’ombra, a causa di avvenimenti della sua vita che non hanno avuto una lunga durata e che non
sono mai stati veramente chiariti, sia perché Lei era troppo orgoglioso per farlo, sia perché non ha
mai ritenuto opportuno esprimersi al riguardo.
Heidegger: Sta parlando del 1933?
Spiegel: Sì, prima e dopo. Vorremmo porre la cosa in un contesto più ampio e da lì giungere ad
alcune questioni che sembrano importanti, per esempio: che possibilità c’è, a partire dalla
filosofia, di agire sulla realtà, anche sulla realtà politica? Esiste ancora una tale possibilità? E, se
sì, qual è?
Heidegger: Sono davvero delle questioni importanti; mi chiedo se riuscirò a rispondere a tutte. Ma,
prima di ogni cosa, devo dire che, negli anni precedenti al mio rettorato, non svolsi mai attività
politica. Durante il semestre invernale 1932/33, ero in congedo, e, per la maggior parte del tempo,
rimasi nella mia baita.
Spiegel: Com’è accaduto allora che Lei sia diventato rettore dell’Università di Friburgo?
Heidegger: Nel dicembre 1932, il mio vicino, von Möllendorff, ordinario di anatomia, era stato
eletto rettore. Nella <264> nostra Università, il nuovo rettore entra in carica il 15 aprile. Durante il
semestre invernale 1932/33, parlammo spesso della situazione, non solo di quella politica, ma in
particolare di quella delle Università e di quella, per certi versi senza speranza, degli studenti. Il mio
parere era questo: per quanto io sia in grado di valutare le cose, resta, come unica possibilità, quella
di tentare, con le forze costruttive ancora veramente vive, di cogliere l’elemento promettente
dell’odierna evoluzione.
Spiegel: Lei dunque vedeva una relazione fra la situazione dell’Università tedesca e la situazione
politica generale in Germania?
Heidegger: Seguii gli avvenimenti politici fra il gennaio e il marzo 1933; in quell’occasione, ne
parlai anche con dei colleghi più giovani. Ma il mio lavoro, allora, era dedicato ad un’ampia
interpretazione del pensiero presocratico. All’inizio del semestre estivo, feci ritorno a Friburgo. Nel
2
frattempo, il 15 aprile, il professor von Möllendorff aveva assunto la carica di rettore. Ma, già due
settimane più tardi, il ministro della cultura del Baden, Wacker, lo aveva sollevato dall’incarico. Il
pretesto per questa decisione, sicuramente benvenuto, fu fornito dal divieto, emanato dal rettore, di
affiggere, in Università, il c.d. “manifesto sugli Ebrei”.(108)
Spiegel: Von Möllendorff era un socialdemocratico. Cosa fece dopo essere stato sollevato
dall’incarico di rettore?
Heidegger: Il giorno stesso della sua destituzione, von Möllendorff venne da me e mi disse:
«Heidegger, ora è Lei che deve assumere il rettorato». Gli feci notare che mi mancava ogni
esperienza in campo amministrativo. L’allora prorettore Sauer (teologo) fece anch’egli pressioni
affinché mi candidassi alle elezioni del nuovo rettore; sembrava infatti vi fosse il pericolo che,
altrimenti, potesse essere nominato rettore un funzionario. Alcuni colleghi più giovani, con i quali,
già da parecchi anni, discutevo di questioni riguardanti <265> l’organizzazione dell’Università,
fecero di tutto per convincermi ad assumere il rettorato. Esitai a lungo. Alla fine, mi dichiarai
disposto ad assumere la carica unicamente nell’interesse dell’Università, qualora avessi potuto
essere certo dell’unanime approvazione del Plenum. Intanto i dubbi riguardo alla mia idoneità al
rettorato restarono, sicché, ancora la mattina del giorno fissato per le elezioni, mi recai in rettorato e
dichiarai a von Möllendorff e al prorettore Sauer che non potevo assumere l’incarico. A ciò i miei
due colleghi risposero che l’elezione era stata preparata in modo che ora non potevo più ritirare la
mia candidatura.
Spiegel: A questo punto, Lei si dichiarò definitivamente disponibile ad accettare l’incarico. Che
forma assunse allora il suo rapporto coi nazionalsocialisti?
Heidegger: Due giorni dopo il mio insediamento, il “capo degli studenti nazionalsocialisti” venne
in rettorato con due compagni pretendendo nuovamente che venisse affisso il “manifesto sugli
ebrei”.(109) Rifiutai. I tre studenti se ne andarono, sottolineando che il mio divieto sarebbe stato
comunicato alla direzione nazionale degli studenti nazionalsocialisti. Qualche giorno dopo fui
chiamato al telefono direttamente dal capogruppo delle SA, dr Baumann, dell’ufficio incaricato
dell’istruzione superiore (che faceva parte della direzione centrale delle SA stesse). Il dr Baumann
pretendeva che venisse affisso il suddetto manifesto come era già stato fatto in altre Università. In
caso di rifiuto, avrei rischiato la deposizione se non addirittura la chiusura dell’Ateneo. Rifiutai e
cercai di fare in modo che il ministro della cultura del Baden appoggiasse il mio divieto. Questi
rispose che non poteva fare nulla contro le SA. Ciò nonostante, non ritirai il mio divieto.
3
Spiegel: Fino ad ora, non si sapeva che le cose fossero andate così.
Heidegger: Il motivo principale che mi spinse ad assumere il rettorato è già enunciato nella mia
lezione inaugurale <266> Che cos’è la metafisica?, pronunciata a Friburgo nel 1929; a pagina 8 si
legge: «Gli ambiti delle scienze giacciono l’uno lontano dall’altro. I modi in cui trattano
rispettivamente i loro oggetti sono fondamentalmente diversi. Questa sconnessa molteplicità di
discipline può oggi ottenere un senso di coerenza e di unità soltanto attraverso l’organizzazione
tecnica delle Università e delle Facoltà e grazie alla finalizzazione pratica delle materie. Il
radicamento dei saperi scientifici nel loro fondamento essenziale è invece cosa morta». Ciò che
tentai di fare, nel periodo di tempo in cui restai in carica, rispetto a questo stato in cui si trovano le
Università – nel frattempo degenerato fino all’estremo – è esposto nel mio Discorso di rettorato.
Spiegel: Cerchiamo di capire in che modo e in che misura questa sua affermazione del 1929
corrisponde a ciò che Lei disse nel 1933 nella Sua prolusione rettorale. Stralciamo qui una frase
dal suo contesto: «La “libertà accademica”, che è stata così tanto cantata, è espulsa
dall’Università tedesca; infatti, tale libertà non era genuina perché era soltanto negativa».
Crediamo di poter supporre che questa frase esprima almeno una parte delle concezioni dalle quali
ancora oggi Lei non si allontana.
Heidegger: Sì. La penso ancora così. Infatti quella “libertà accademica” era in fondo una libertà
puramente negativa; la libertà dalla preoccupazione di aprirsi alla riflessione e alla meditazione
richieste dagli studi scientifici. Del resto la frase da Lei estrapolata non dovrebbe essere letta
isolatamente, ma all’interno del suo contesto; risulterebbe allora chiaro quello che volevo fare
intendere, parlando di “libertà negativa”.
Spiegel: Bene, questo si capisce. Tuttavia crediamo di percepire un tono nuovo nel suo Discorso di
rettorato, là dove Lei, quattro mesi dopo la nomina di Hitler a cancelliere del Reich, parla della
«grandezza e magnificenza di questo scardinamento che è anche il cardine di un avvio».
Heidegger: Sì, e ne ero anche convinto. <267>
Spiegel: Potrebbe illustrarlo un po’ più diffusamente?
Heidegger: Volentieri. A quell’epoca, non vedevo altra alternativa. Data la confusione generale
delle opinioni e delle tendenze politiche rappresentate da trentadue partiti, si trattava di trovare una
posizione nazionale e soprattutto sociale, qualcosa nel senso del tentativo di Friedrich
Naumann.(110) Potrei citare qui, tanto per fare un esempio, un saggio di Eduard Spranger(111) che va
ben oltre il mio Discorso di rettorato.
4
Spiegel: Quando ha cominciato ad occuparsi della situazione politica? I trentadue partiti c’erano
già da parecchio tempo. E nel 1930 i disoccupati erano già milioni.
Heidegger: A quell’epoca, ero ancora interamente assorbito dai problemi sviluppati in “Essere e
tempo” (1927) e negli scritti e conferenze che seguirono: questioni fondamentali del pensiero che
riguardano, mediatamente, anche le questioni nazionali e sociali. Per me, in quanto docente
dell’Università, si poneva immediatamente la questione del senso dei saperi scientifici e, con essa,
quella della determinazione del compito dell’Università. Questa preoccupazione è espressa nel
titolo del mio Discorso di rettorato: «La quadratura in se stessa dell’Università tedesca». Nessuno,
nei discorsi di rettorato dell’epoca, ha mai azzardato un tale titolo. Ma chi, fra coloro che
polemizzano contro questo discorso, l’ha letto attentamente, l’ha meditato e interpretato a partire
dalla situazione dell’epoca?
Spiegel: Selbstbehauptung der deutschen Universität – Quadratura in se stessa dell’Università
tedesca – in un mondo così turbolento, questa formula non dà l’impressione di essere un po’ fuori
luogo?
Heidegger: Perché mai? La “quadratura dell’Università” va contro la cosiddetta “scienza politica”,
che già allora s’invocava nel Partito e nelle organizzazioni studentesche nazionalsocialiste. Questa
espressione, «scienza politica», aveva allora un significato ben diverso da quello odierno; non
<268> indicava la politologia, ma voleva dire questo: la scienza in quanto tale, il suo senso e il suo
valore sono stimati in base all’utilità che hanno, di fatto, per il popolo. La posizione contraria a
questa politicizzazione della scienza(112) viene appunto espressa nel Discorso di rettorato.
Spiegel: Vediamo se abbiamo capito bene. Rendendo partecipe l’Università di quello che Lei
allora sentiva come uno “scardinamento avviante”, Lei voleva far sì che l’Università facesse
quadrato in se stessa contro delle correnti che, altrimenti, avrebbero preso il sopravvento e che
non le avrebbero più lasciato il suo carattere peculiare.
Heidegger: Certo. Ma, di fronte all’organizzazione esclusivamente tecnica dell’Università, la sua
quadratura in se stessa doveva, al tempo stesso, porsi il compito di riguadagnare un senso nuovo a
partire da una meditazione sulla tradizione del pensiero occidentale europeo.
Spiegel: Professore, dobbiamo intendere che Lei allora pensava di poter ottenere un risanamento
dell’Università collaborando con i nazionalsocialisti?
5
Heidegger: Questa formulazione non è esatta. Non parlerei di una “collaborazione con i
nazionalsocialisti”. L’Università doveva rinnovarsi a partire da un inquadramento senziente di sé e
assumere, in tal modo, una posizione salda di fronte al pericolo della politicizzazione del sapere
scientifico – nel senso che ho detto prima.
Spiegel: Proprio per questo, nel suo Discorso di rettorato, ha proclamato questi tre capisaldi:
“Servizio del lavoro”, “Servizio di difesa”, “Servizio del sapere”. In tal modo, secondo quel che
Lei pensava allora, il “servizio del sapere” sarebbe stato elevato allo stesso rango degli altri, cioè
ad una posizione che i nazionalsocialisti non gli avevano concesso?
Heidegger: [Nel discorso] Non si tratta di “capisaldi”. Se Lei legge attentamente, il servizio del
sapere, in questa <269> enumerazione, occupa sì il terzo posto, ma, in base al senso, si colloca al
primo posto. Da meditare resta il fatto che lavoro e difesa, come ogni agire umano, si fondano su un
sapere e da esso vengono illuminati.
Spiegel: Tuttavia – e con ciò mettiamo fine a queste fastidiose citazioni – dobbiamo ancora
riportare una frase che non riusciamo ad immaginare Lei possa sottoscrivere ancora oggi.
Nell’autunno 1933, Lei ha detto: «Che le regole del vostro essere non siano né formule dottrinali
né “idee. Il Führer stesso, e lui solo, è la realtà tedesca di oggi, ma è anche la realtà di domani e
quindi la sua legge.»
Heidegger: Queste frasi non si trovano nel discorso di rettorato, ma solo nella Freiburger
Studentenzeitung e furono scritte all’inizio del semestre invernale 1933-1934. Quando assunsi il
rettorato, avevo ben chiaro che non ce l’avrei fatta senza compromessi. Le frasi citate, oggi non le
scriverei più. Cose del genere non le dicevo già più nel 1934. Ma, ancora oggi, e oggi più che mai,
ripeterei il discorso della «quadratura in se stessa dell’Università tedesca», naturalmente senza
alcun riferimento al nazionalismo. La società ha preso il posto del “popolo”. In ogni caso, il
discorso oggi sarebbe un parlare al vento, esattamente come allora.
Spiegel: Possiamo porle un’altra domanda interlocutoria? In questo nostro colloquio, è risultato
fino ad ora chiaro che il suo comportamento nel 1933 si muoveva fra due poli. Per prima cosa, Lei
dovette dire certe cose ad usum Delphini. E questo era il primo polo. L’altro polo era invece più
positivo; Lei lo esprime così: «Avevo la sensazione che lì vi fosse qualcosa di nuovo, che si
trattasse di uno scardinamento su cui potesse incardinarsi un avvio».
Heidegger: E’ proprio così.
6
Spiegel: Fra questi due poli vi fu – ciò si spiega assolutamente a partire dalla situazione... <270>
Heidegger: Certo. Ma devo sottolineare che l’espressione ad usum Delphini dice troppo poco.
Allora, credevo fermamente che nel dibattito dirimente con il nazionalsocialismo si sarebbe potuto
aprire un nuovo cammino, l’unico cammino ancora possibile verso un rinnovamento.
Spiegel: Lei sa che, a questo proposito, Le sono stati mossi dei rimproveri riguardo alla sua
collaborazione col NSDAP e le sue associazioni, rimproveri che, ancora oggi, per il vasto
pubblico, restano senza risposta. Per esempio, Le è stato rimproverato di aver preso parte a dei
roghi di libri organizzati dagli studenti o dalla Hitler-Jugend.
Heidegger: Io ho vietato il rogo di libri che doveva aver luogo davanti all’Università.
Spiegel: Poi Le è stato rimproverato di aver fatto eliminare libri di autori ebrei dalla biblioteca
dell’Università e da quella del Seminario filosofico.
Heidegger: Come direttore del Seminario, potevo disporre solo di quella biblioteca. Non ho ceduto
alle ripetute pressioni affinché facessi ritirare i libri di autori ebrei. Coloro che parteciparono ai miei
seminari, possono oggi testimoniare che non solo non furono eliminati i libri di autori ebrei, ma che
questi autori, soprattutto Husserl, continuarono ad essere citati, trattati e commentati proprio come
prima del 1933.
Spiegel: Ne prendiamo atto. Ma come spiega Lei il sorgere di simili voci? Si tratta di malignità?
Heidegger: Per quel che so della loro provenienza, sarei incline a crederlo; ma i motivi della
calunnia sono più profondi. L’assunzione dell’incarico di rettore è stato probabilmente solo un
pretesto, non il motivo determinante. Per questa ragione, probabilmente, la polemica si riaccenderà
sempre di nuovo ogni volta che vi sarà un pretesto. <271>
Spiegel: Si dice che i suoi rapporti, senza dubbio non con tutti, ma con alcuni di questi studenti
ebrei siano stati molto cordiali anche dopo il ’33. E’ così vero?
Heidegger: Dopo il 1933, il mio atteggiamento è rimasto immutato. Una delle mie prime e più
dotate allieve, Helene Weiß, più tardi emigrata in Scozia, ha superato il suo esame di dottorato a
Basilea – quando qui a Friburgo non era più possibile sostenerlo – con un lavoro molto importante
su Causalità e casualità nella filosofia di Aristotele, stampato a Basilea nel 1942. Alla fine della
premessa l’autrice scrive: «Il saggio d’interpretazione fenomenologica, che presentiamo qui nella
sua prima parte, è stato possibile grazie alle interpretazioni ancora inedite della filosofia greca di
7
Martin Heidegger.» Ecco qui un esemplare con dedica inviatomi dall’autrice nel 1948. Ho fatto
visita molte volte alla dottoressa Weiß a Basilea, fino a poco prima che morisse.
Spiegel: Lei è stato amico di Jaspers per molto tempo. Tuttavia, dopo il ‘33, il rapporto di amicizia
cominciò a incrinarsi. Molti attribuiscono questa rottura al fatto che la moglie di Jaspers fosse
ebrea. Vuole dire qualcosa in proposito?
Heidegger: Ciò che Lei qui riferisce è una menzogna. Fui in amicizia con Karl Jaspers fin dal 1919.
Ho fatto visita a lui e a sua moglie nel semestre estivo del 1933, in occasione di una conferenza
tenuta ad Heidelberg. Karl Jaspers mi ha spedito tutte le sue pubblicazioni degli anni tra il 1934 e il
1938 «con [i suoi] cordiali saluti». Ecco qui gli scritti.
Spiegel: E’ vero c’è scritto «con cordiali saluti». Certo, i saluti non sarebbero stati affatto
“cordiali” se prima ci fosse stato un urto o un offuscamento dei rapporti. Un’altra domanda dello
stesso genere: Lei è stato allievo del suo predecessore ebreo alla cattedra di filosofia
dell’Università di Friburgo, Edmund Husserl. Fu lui a raccomandarLa alla Facoltà come proprio
successore nell’ordinariato. Il Suo rapporto con lui deve <272> necessariamente essere stato
improntato alla gratitudine e alla riconoscenza.
Heidegger: Lei conosce certamente la dedica di Essere e tempo.
Spiegel: Naturalmente.
Heidegger: Nel 1929, sono stato curatore degli scritti per i suoi settant’anni, e, durante la festa, a
casa sua, ho pronunciato il discorso riprodotto nel bollettino dell’Università dello stesso mese
(maggio 1929).
Spiegel: E ciononostante i vostri rapporti si offuscarono. Lei oggi può e vuole dirci a cosa ciò fu
dovuto?
Heidegger: Le differenze riguardo al fondamento stesso delle questioni si accentuarono. All’inizio
degli anni ’30, Husserl liquidò pubblicamente me e Max Scheler, e in un modo che non poteva
essere più chiaro. Che cosa avesse spinto Husserl a prendere così pubblicamente una posizione
contro il mio pensiero non sono mai riuscito mai a saperlo.
Spiegel: In che occasione accadde?
8
Heidegger: All’Università di Berlino Husserl tenne il suo discorso dinanzi a 1600 ascoltatori. In un
importante giornale berlinese, Heinrich Mühsam, descrivendo questo intervento, parlò di
«atmosfera da Palazzo dello sport».
Spiegel: Il contrasto, di per sé, in questo contesto non ci interessa. L’elemento interessante, qui, è
che non fu un contrasto che avesse a che fare con l’anno 1933.
Heidegger: Assolutamente no.
Spiegel: E’ quello che abbiamo constatato anche noi. Che Lei abbia espunto da Essere e tempo la
dedica a Husserl non è dunque esatto?
Heidegger: No, no – è esatto. Ho spiegato la questione nel mio libro Unterwegs zur Sprache (1959,
p. 269; ed. it. In cammino verso il linguaggio, Milano, p. 215). Il testo diceva: <273> «Per
rispondere a false affermazioni variamente diffuse, sia qui detto espressamente che la dedica di
Essere e tempo, di cui si parla in questo testo a pagina 92, rimase anche nella IV edizione del libro,
quella del 1935. Quando l’editore vide che la stampa della V edizione, nel 1941, poteva essere
compromessa o il libro addirittura vietato, su proposta e per desiderio di Niemeyer(113) si decise che
la dedica, in quell’edizione, sarebbe stata espunta alle condizioni da me poste, e cioè che rimanesse
la nota a pagina 38, la quale, di fatto, motivava quella dedica; la nota dice: “Se le ricerca che segue
fa qualche passo in avanti nello schiudimento delle ‘cose stesse’, l’autore lo deve, in primo luogo, a
Edmund Husserl; questi, infatti, durante gli anni di studio trascorsi dall’autore a Friburgo, lo ha
diretto da vicino costantemente e gli ha consentito il libero accesso alle proprie ricerche inedite,
rendendolo così familiare con i campi più vari della ricerca fenomenologica.”».
Spiegel: A questo punto non c’è quasi più bisogno di porre la domanda se sia vero che Lei, in
qualità di rettore dell’Università di Friburgo, avesse proibito all’emerito prof. Husserl l’ingresso o
l’utilizzo della biblioteca universitaria o di quella del Seminario filosofico.
Heidegger: E’ una calunnia.
Spiegel: E non esiste nessuna lettera in cui sia stata espressa questa proibizione contro Husserl?
Com’è nata, dunque, questa voce?
Heidegger: Non lo so neanch’io. Non trovo alcuna spiegazione. Le posso dimostrare l’impossibilità
di tutta questa vicenda con un fatto non ancora conosciuto: durante il mio rettorato, con un
colloquio privato dal Ministro, riuscii a mantenere in carica sia il direttore della Clinica medica,
prof. Tannhauser, sia il futuro premio Nobel von Hevesy, professore di fisica chimica, entrambi
9
Ebrei, che il Ministro stesso voleva destituire. Ora che io mi fossi adoperato, riuscendoci, per
mantenere in servizio questi due scienziati e, simultaneamente, avessi agito, secondo quanto
divulgato, contro <274> Husserl, professore allora già in pensione e mio maestro – è affatto
assurdo. Impedii anche che studenti e docenti inscenassero una manifestazione contro il professor
Tannhauser davanti alla sua clinica. Nell’annuncio mortuario, fatto pubblicare dalla famiglia
Tannhauser sul giornale locale, c’era scritto: «Fino al 1934 fu onorato direttore della clinica
universitaria di Friburgo i. Br., Brockline, Mass., 18.12.1962». Sul prof. von Hevesy, nel n. 11 del
febbraio 1966 dei Freiburger Universitätsblätter, si riporta questa notizia: «Dal 1926 al 1934 von
Hevesy diresse l’Istituto di fisica e chimica dell’Università di Friburgo i. Br.» Dopo le mie
dimissioni dal rettorato, i due direttori furono sollevati dai loro incarichi. A quell’epoca vi erano dei
liberi docenti(114) che non avevano fatto carriera e che pensavano: ecco, ora è il momento di
avanzare [prendendo il posto dei professori destituiti]. Quando queste persone mi si presentarono, le
respinsi tutte.
Spiegel: Nel 1938, Lei non partecipò ai funerali di Husserl. Come mai?
Heidegger: Al riguardo vorrei dire solo quanto segue: il rimprovero, che mi si muove, di avere
interrotto i rapporti con Husserl è privo di fondamento. Nel maggio del 1933, mia moglie scrisse
alla signora Husserl una lettera, a nome di entrambi, nella quale attestavamo la nostra «immutata
riconoscenza», e la inviò a casa Husserl con un mazzo di fiori. La signora Husserl rispose
brevemente con un ringraziamento formale, aggiungendo che i rapporti fra le nostre due famiglie
erano interrotti. Che poi, durante la malattia di Husserl e alla sua morte, non avessi ancora una volta
espresso la mia gratitudine e la mia venerazione, fu un errore umano, del quale mi scusai più tardi in
una lettera alla signora Husserl.
Spiegel: Husserl morì nel 1938. Già nel febbraio del ’34, Lei aveva dato le dimissioni dalla carica
di rettore. Come giunse a questa decisione?
Heidegger: Devo qui dilungarmi un po’ sui dettagli. Guidato dall’intenzione di superare
l’organizzazione tecnica <275> dell’Università, cioè di rinnovare le Facoltà dall’interno, a partire
dai loro compiti in rapporto alle “cose stesse”, proposi, per il semestre invernale 1933/34, di
nominare, come presidi delle varie Facoltà, dei colleghi più giovani, e soprattutto molto competenti,
senza tener conto della loro posizione rispetto al Partito. Così furono nominati presidi il professor
Erik Wolf per la Facoltà di giurisprudenza, il professor Schadewaldt per la Facoltà di lettere e
filosofia, il professor Soergel per la Facoltà di scienze naturali e, per la Facoltà di medicina, il prof.
von Möllendorff, che era stato deposto dalla carica di rettore in primavera. Ma già verso il Natale
10
del 1933, mi fu chiaro che il rinnovamento dell’Università, cui pensavo, non avrebbe potuto vincere
né le resistenze all’interno del corpo accademico, né quelle del Partito. Ad esempio, i colleghi se la
presero molto con me perché avevo accolto gli studenti nell’amministrazione responsabile
dell’Università – esattamente come avviene oggi, del resto. Un giorno fui chiamato a Karlsruhe
dove il ministro, tramite il suo consigliere e in presenza del Gaustudentenführer(115), pretese da me
la sostituzione dei decani delle Facoltà di diritto e medicina con altri colleghi graditi al partito.
Respinsi questa richiesta e annunciai le mie dimissioni dal rettorato qualora il ministro avesse
insistito nella sua richiesta. E così avvenne. Era il febbraio del 1934; dopo dieci mesi di servizio, mi
ritiravo, mentre i rettori, in quell’epoca, restavano in carica per due o più anni. Mentre la stampa
interna ed estera aveva commentato nei modi più svariati la mia assunzione del rettorato, le mie
dimissioni passarono completamente sotto silenzio.
Spiegel: A quell’epoca, ha mai trattato o discusso con Rust?
Heidegger: A quell’epoca, quando?
Spiegel: Lei sa che si parla sempre ancora di un viaggio che Rust avrebbe fatto a Friburgo nel
1933.
Heidegger: Si tratta di due diversi episodi: in occasione di una celebrazione in memoria di
Schlageter(116) nella sua <276> città natale – Schönau im Wiesental –, pronunciai un breve saluto
formale rivolto al Ministro. In seguito, il Ministro non mi tenne in alcuna considerazione. D’altro
canto, io non cercai affatto di parlare con lui. Schlageter era uno studente di Friburgo, membro di
una corporazione di studenti cattolici. Il colloquio con il Ministro ebbe luogo nel novembre del
1933, a Berlino, in occasione di una conferenza dei rettori. Esposi al Ministro la mia idea della
scienza e della forma che si sarebbe potuta conferire alle Facoltà. Egli ascoltò tutto con attenzione,
tanto che coltivai la speranza che la mia relazione potesse sortire qualche effetto. Ma non accadde
nulla. Non capisco perché mi si deve rimproverare questo colloquio con l’allora Ministro
dell’educazione del Reich, mentre, nello stesso periodo, tutti i governi stranieri si affrettavano a
riconoscere Hitler e a manifestargli l’ossequio consueto nelle relazioni internazionali.
Spiegel: Quale fu l’evoluzione dei suoi rapporti con la NSDAP, dopo le dimissioni dalla carica di
rettore?
Heidegger: Dopo le dimissioni dal rettorato, mi dedicai unicamente ai miei compiti didattici. Nel
semestre estivo del 1934, tenni un corso sulla Logica. Il semestre seguente (1934/1935), tenni il mio
primo corso su Hölderlin. Nel 1936, ebbe inizio la serie di corsi su Nietzsche. Tutti coloro che
11
avevano orecchie per intendere intesero che questo era un dibattito dirimente con il
nazionalsocialismo.
Spiegel: Come avvenne il passaggio delle consegne? Non partecipò alla cerimonia?
Heidegger: Proprio così! Mi rifiutai di prendere parte alla cerimonia ufficiale per il passaggio delle
consegne.
Spiegel: Il Suo successore era un militante del Partito?
Heidegger: Era un giurista; il giornale di Partito, «Der Alemanne», annunciò la sua nomina a
rettore con un titolo <277> a caratteri cubitali: «Il primo rettore nazionalsocialista dell’Università».
Spiegel: In seguito, ebbe delle difficoltà con il Partito?
Heidegger: Venivo costantemente tenuto sotto sorveglianza.
Spiegel: Può fare un esempio?
Heidegger: Sì, il caso del dott. Hancke.
Spiegel: Come se n’è accorto?
Heidegger: Perché fu lui stesso a venire da me. Aveva già ottenuto il dottorato e, nel semestre
invernale 1936/1937, e nel semestre estivo del 1937, prese parte al mio seminario ristretto. Era stato
mandato dal servizio di sicurezza (SD) per sorvegliarmi.
Spiegel: E per quale ragione venne improvvisamente da Lei?
Heidegger: Avendo seguito il mio seminario su Nietzsche nel semestre estivo 1937, e visto il modo
in cui procedeva il lavoro, mi confidò di non poter più reggere il suo incarico di sorveglianza; disse
che voleva mettermi al corrente della situazione in vista della mia futura attività didattica.
Spiegel: Ha avuto altri problemi con il Partito?
Heidegger: Sapevo semplicemente che i miei scritti non potevano essere recensiti, per esempio il
saggio Platons lehre von der Wahreit. La conferenza su Hölderlin, tenuta all’Istituto germanico di
Roma nella primavera del 1936, venne attaccata in modo ripugnante dalla rivista della gioventù
hitleriana Wille und Macht. Quanti hanno interesse dovrebbero leggere la polemica iniziata contro
di me a partire dall’estate del 1934 sulla rivista di E. Krieck Volk im Werden. Al Congresso
internazionale di filosofia tenutosi a Praga nel 1935, non fui incluso nella delegazione tedesca, né
12
fui invitato <278> a partecipare. Ugualmente, dovevo rimanere escluso dal congresso internazionale
su Cartesio, che ebbe luogo a Parigi nel 1937. Questo fatto produsse un tale sconcerto a Parigi che
la direzione del congresso, nella persona del professor Bréhier della Sorbona, prese l’iniziativa di
chiedere a me direttamente come mai non facessi parte della delegazione tedesca. Risposi che la
direzione del congresso doveva informarsi del caso presso il Ministero dell’educazione del Reich.
Dopo qualche tempo giunse da Berlino l’invito ad aggiungermi alla già costituita delegazione, ma
lo declinai. Le conferenze Was ist Metaphysik? e Vom Wesen der Wahreit venivano vendute
sottobanco con una copertina senza titolo. Il Discorso di rettorato fu ben presto ritirato dal
commercio, dopo il 1934, per ordine del Partito. Se ne poteva discutere solo nelle riunioni di
docenti nazisti come oggetto di polemica nel quadro della politica del Partito.
Spiegel: E quando la guerra, nel 1939...
Heidegger: Nell’ultimo anno di guerra, cinquecento tra i più importanti studiosi e artisti furono
esentati da ogni sorta di servizio militare. Io non facevo parte degli esonerati; al contrario,
nell’estate del 1944 fui reclutato per i lavori di scavo e di fortificazione sul Reno, ai piedi del
Kaiserstuhl.
Spiegel: Sull’altra riva, dalla parte della Svizzera, c’era Kerl Barth a scavare.
Heidegger: Interessante è il modo in cui andarono le cose. Il rettore aveva invitato tutto il corpo
docente nell’aula 5. Tenne un breve discorso il cui contenuto era il seguente: Ciò che stava dicendo
era stato concordato col Capo-distretto e col Capo-provincia del Partito nazionalsocialista. Su tale
base, avrebbe suddiviso l’intero copro docente in tre gruppi: innanzitutto, il gruppo di coloro di cui
si poteva completamente fare a meno; poi era la volta di coloro di cui si poteva fare a meno per
metà; e infine, in un ultimo gruppo, sarebbero stati accolti coloro di cui non si poteva <279>
assolutamente fare a meno. Al primo posto, fra i docenti del tutto superflui, furono nominati
Heidegger e, di seguito, Gerhard Ritter.(117) Nel semestre invernale 1944/45, terminati i lavori di
fortificazione sul Reno, tenni un corso dal titolo Dichten und Denken, in un certo senso una
prosecuzione del mio corso su Nietzsche, vale a dire un dibattito dirimente con il
nazionalsocialismo. Dopo la seconda ora, fui arruolato nella milizia popolare; ero il più vecchio fra
i membri del corpo insegnante che erano stati convocati.
Spiegel: Credo che non abbiamo bisogno di sentire il professor Heidegger in merito agli
avvenimenti fino al suo effettivo ritiro in pensione o, diciamo, fino al suo pensionamento di diritto.
Queste cose sono note.
13
Heidegger: Gli avvenimenti non sono affatto noti. E non si è trattato di cose molto belle.
Spiegel: A meno che Lei non voglia aggiungere ancora qualcosa.
Heidegger: No.
Spiegel: Forse possiamo riassumere tutto in questo modo: nel 1933, in qualità di non politico in
senso stretto e non in senso lato, Lei è entrato nella politica di questo movimento percepito come
uno “scardinamento avviante”...
Heidegger: ... sul cammino dell’Università...
Spiegel: ... sul camino dell’Università Lei è venuto a trovarsi in questo presunto scardinamento
avviante. Dopo circa un anno, Lei rinunciò alla carica che aveva assunto. Ma in un Corso del
1935, pubblicato nel 1953, intitolato Einführung in die Metaphysik, Lei ha detto: «Ciò che oggi –
si era nel 1935 – viene spacciato per filosofia del nazionalsocialismo, ma che non ha minimamente
da fare con l’intima verità e con la grandezza di questo movimento (e cioè con l’incontro della
tecnica planetaria con l’uomo moderno), tutto ciò pesca nelle <280> acque torbide dei “valori” e
delle “totalità”.» Le parole tra parentesi sono state aggiunte solo nel 1953, in occasione della
stampa – quasi per spiegare al lettore del 1953 in che cosa Lei vedesse, nel 1935, l’«intima verità e
la grandezza di questo movimento», vale a dire il nazionalsocialismo – o invece queste parentesi
esplicative c’erano già nel 1935?
Heidegger: Erano anche nel mio manoscritto; esse corrispondevano esattamente alla concezione
della tecnica che avevo a quell’epoca, e non alla più tarda interpretazione dell’essenza della tecnica
in quanto Ge-stell. Non lessi a lezione questo passo perché ero convinto che i miei ascoltatori mi
intendessero; poco mi importava che gli sciocchi, le spie e gli spioni la intendessero in un’altra
maniera.
Spiegel: Anche il movimento comunista appartiene, secondo Lei, allo stesso ordine?
Heidegger: Assolutamente sì; anche il comunismo è totalmente determinato dalla tecnica
planetaria.
Spiegel: Probabilmente Lei mette sullo stesso piano anche l’insieme di tutti gli sforzi fatti da parte
americana?
Heidegger: Anch’essi, direi. Negli ultimi trent’anni, dovrebbe essere risultato chiaro che il
movimento planetario della tecnica moderna è una potenza che determina la storia e la cui
14
grandezza non può essere assolutamente sopravvalutata. Per me, oggi, è una questione decisiva
stabilire come si possa far corrispondere, in generale, un sistema politico all’epoca tecnica e di
quale sistema potrebbe trattarsi. A questa domanda, non so dare risposta. Non sono convinto che
sia la democrazia.
Spiegel: Ma “la” democrazia non è che un concetto globale sotto il quale si possono assumere
concezioni molto diverse fra loro. Il problema è se sia ancora possibile una trasformazione di
questa forma politica. Dopo il 1945, Lei ha parlato delle aspirazioni politiche del mondo
occidentale e anche <281> della democrazia, della visione cristiana del mondo espressa in forma
politica e dello Stato fondato sul diritto – e tutte queste aspirazioni le ha chiamate delle “cose a
metà”.
Heidegger: In primo luogo, La pregherei di dirmi dove io abbia parlato di democrazia e delle cose
che ha appena citato. In effetti, le chiamerei delle cose a metà, poiché, tra l’altro, in esse non
riscontro alcun dibattito dirimente col mondo tecnico; infatti, ciò che anima tutto questo, a mio
parere, è sempre la concezione secondo cui la tecnica, nella sua essenza, sia qualcosa che l’uomo
abbia in mano. Credo che ciò non sia possibile. La tecnica, nella sua essenza, è qualcosa che
l’uomo, di per sé, non è in grado di dominare.
Spiegel: Quale delle correnti appena indicate sarebbe, secondo Lei, la più adatta ai tempi?
Heidegger: Non saprei. Tuttavia vedo qui una questione decisiva. Innanzitutto, bisognerebbe
chiarire che cosa intende Lei quando dice «adatta ai tempi», e quindi quello che qui significa
«tempo». Ancora ci si dovrebbe chiedere se l’adeguatezza ai tempi sia la misura dell’«intima
verità» dell’agire umano e se poi l’agire capace di assegnare la misura non sia il «pensare e
poetare», nonostante il discredito in cui è caduta questa espressione.
Spiegel: Tuttavia è evidente che l’uomo, in ogni epoca della sua storia, non sia mai stato in grado
di dominare il proprio strumento; si veda l’apprendista stregone. Non è forse un po’ troppo
pessimista dire: non riusciremo mai a dominare questo strumento – certamente molto più grande
dei precedenti – che è, appunto, la tecnica moderna?
Heidegger: Pessimismo? No. Il pessimismo e l’ottimismo, nell’ambito della riflessione che
tentiamo di fare, sono delle posizioni di portata troppo scarsa. Ma soprattutto – la tecnica moderna
non è uno “strumento” e non ha più nulla da fare con gli strumenti. <282>
Spiegel: Perché dovremmo essere a tal punto sopraffatti dalla tecnica...?
15
Heidegger: Non dico “sopraffatti”. Dico che non disponiamo ancora di un cammino che
corrisponda all’essenza della tecnica.
Spiegel: Le si potrebbe però, del tutto ingenuamente, obiettare: che cosa si tratta di dominare qui?
In fin dei conti, tutto funziona. Si costruiscono sempre più centrali elettriche. La produzione
aumenta. Gli uomini che abitano nella parte del globo dove la tecnica ha un elevato sviluppo,
vengono ben soddisfatti nei loro bisogni. Viviamo nel benessere. Che cosa manca dunque qui?
Heidegger: Tutto funziona. Ma proprio questo è l’elemento inquietante: che tutto funzioni e che il
funzionare spinga sempre avanti verso un ulteriore funzionare, e che la tecnica strappi e sradichi
sempre di più l’uomo dalla terra. Non so se Lei sia spaventato; in ogni caso io lo sono stato alla
vista delle fotografie della terra scattate dalla luna. Non c’è bisogno della bomba atomica. Lo
sradicamento dell’uomo è già in atto. Ormai abbiamo solo rapporti puramente tecnici. Non è più la
Terra quella su cui oggi vive l’uomo. Recentemente, in Provenza, ho avuto un lungo colloquio con
René Char, il poeta e combattente della Resistenza, come Lei sa. In Provenza, in questo momento,
s’installano delle basi missilistiche, e si devasta la campagna in maniera inimmaginabile. Il poeta,
che certamente non è sospetto di sentimentalismi o di celebrazioni idilliche, mi diceva che lo
sradicamento dell’uomo qui in atto significa la fine, a meno che, ancora una volta, il pensiero e la
poesia non prendano il potere – quel potere privo di violenza che è loro proprio.
Spiegel: Diciamo allora che noi preferiamo stare qui e che, in quest’epoca almeno, non saremo
certo costretti ad andarcene; ma chi lo sa se la destinazione dell’uomo sia di stare su questa terra?
Si potrebbe pensare che l’uomo non abbia alcuna <283> destinazione. Comunque si potrebbe
considerare come una possibilità dell’uomo quella di emigrare da questa terra su altri pianeti.
Certo, ce ne vorrà di tempo. Ma dove sta scritto che sia proprio questo il posto dell’uomo?
Heidegger: Secondo la storia e l’esperienza di noi uomini, almeno per quel che ne so io, tutto ciò
che è essenziale e grande è scaturito unicamente dal fatto che l’uomo avesse una patria e fosse
radicato in una tradizione. La letteratura di oggi, per esempio, è ampiamente distruttiva.
Spiegel: La parola “distruttivo” qui ci disturba, anche perché la parola “nichilista” ha subìto,
grazie a Lei e alla sua filosofia, una profonda ricontestualizzazione. Ci sorprende il termine
“distruttivo” applicato alla letteratura, che Lei potrebbe o dovrebbe considerare come facente
parte di questo nichilismo.
Heidegger: Vorrei dire che la letteratura di cui parlo non è nichilista nel senso da me pensato
(Nietzsche II, p. 335 ss; ed. it. Milano, p. 809).
16
Spiegel: Lei vede evidentemente - così si è espresso - un movimento mondiale che conduce, o ha
addirittura già condotto, allo Stato tecnico assoluto.
Heidegger: Sì! Ma lo Stato tecnico è proprio quello che meno corrisponde al mondo e alla società
determinati dall’essenza della tecnica. Lo Stato tecnico sarebbe il servo più servile e più cieco di
fronte alla potenza della tecnica.
Spiegel: Bene. A questo punto si pone naturalmente la questione: l’uomo singolo può ancora avere
un’influenza su questo intreccio e concatenamento di necessità, o è la filosofia che può
influenzarlo, oppure possono influenzarlo entrambi nella misura in cui la filosofia induca
l’individuo o più individui a compiere una determinata azione?
Heidegger: Con queste domande, Lei ci riporta all’inizio del nostro colloquio. Se posso rispondere
brevemente, e forse <284> un po’ grossolanamente, ma sulla base di una lunga riflessione, direi
così: la filosofia non potrà produrre nessuna modificazione immediata dello stato attuale del mondo.
E questo non vale solo per la filosofia, ma per ogni riflessione e per ogni aspirazione degli uomini.
Solo un Dio, ormai, può aiutarci a trovare una via di scampo. Vedo, come unica possibilità di via di
scampo, questo: preparare, nel pensiero e nella poesia, una disponibilità e una prontezza per
l’apparizione del Dio oppure per l’assenza, il dis-stanziarsi, del Dio nel tramonto; in modo che il
nostro destino non sia quello, per dirla brutalmente, di “crepare”, ma che sia, se dobbiamo
tramontare, quello di tramontare al cospetto del Dio assente.
Spiegel: C’è una connessione tra il suo pensiero e l’avvento di questo Dio? Vi è qui, a suo modo di
vedere, una relazione causale? Crede che possiamo provocare l’avvento di questo Dio con il
lavoro del pensiero?
Heidegger: Noi non possiamo avvicinarlo col pensiero, siamo tutt’al più in grado di risvegliare la
disponibilità dell’attesa.
Spiegel: Ma c’è qualcosa che possiamo fare?
Heidegger: La preparazione della disponibilità e della prontezza potrebbe essere il primo aiuto. Il
mondo non può essere ciò che è e come è grazie all’uomo, ma neppure senza l’uomo. Secondo ciò
che posso vedere, il punto è questo: quello che indico con la dizione «essere» - dizione di
lunghissima tradizione e dai molteplici significati, ed ora logorata dall’uso –, ebbene, l’«essere» ha
bisogno dell’uomo; infatti l’essere non è essere senza che l’uomo sia usato, impiegato per la sua
(dell’essere) aperta manifestazione, per la sua custodia e per la sua configurazione. L’essenza della
17
tecnica la vedo in quello che chiamo Ge-stell, espressione che a prima vista può essere facilmente
fraintesa, ma che, se soppesata rettamente, rimanda al cuore della storia della metafisica – ossia di
ciò che oggi intona e determina ancora il nostro <285> Dasein. Il vigere del Ge-stell significa
questo: l’uomo è posto, preteso e reso oggetto di una ingiunzione da una potenza che diviene
apertamente manifesta nell’essenza della tecnica. Ora, esattamente nell’esperienza – che l’essere
umano fa – di questo essere posto, preteso e reso oggetto di un’ingiunzione da parte di qualcosa che
egli stesso non è e di cui non è affatto padrone, ebbene in tale esperienza gli è offerta la possibilità
di gettare uno sguardo nel fatto che l’uomo è usato, impiegato, adoperato dall’essere. Qui,
nell’elemento più proprio della tecnica moderna, si nasconde la possibilità dell’esperienza
dell’essere usato e impiegato e dell’essere pronto per queste nuove possibilità. Condurci a questo
sguardo, a questa “visuale”: il pensiero non pretende più di questo, e la filosofia è finita.
Spiegel: In passato – e non solo in passato – si è tuttavia pensato che la filosofia avesse molti
effetti indiretti, raramente degli effetti diretti… insomma, che potesse avere molti effetti indiretti e
che avesse aperto la via a nuove correnti. Se ci si limita ai tedeschi e si pensa ai grandi nomi:
Kant, Hegel, fino a Nietzsche, per non parlare poi di Marx, possiamo provare che, sia pure per vie
traverse, la filosofia ha avuto una grandissima influenza. Lei intende allora dire che questa
influenza della filosofia sia finita? E quando dice che la filosofia è morta, che non esiste più,
intende con ciò che anche quell’efficacia della filosofia (se pure mai vi sia stata) oggi per lo meno
non vi sia più?
Heidegger: Ho appena detto: attraverso un altro pensiero, è possibile un’influenza mediata, ma mai
un’influenza diretta che possa far asserire: il pensiero cambia lo stato del mondo in modo causale
<cioè: il pensiero come possibile causa di un mutamento del mondo>.
Spiegel: Ci scusi, noi non vogliamo filosofare, non ne siamo all’altezza, ma qui abbiamo il punto di
congiunzione fra politica e filosofia, perciò ci perdoni se la trasciniamo in un <286> discorso di
questo genere. Ha appena detto che la filosofia e l’individuo non possono fare altro che...
Heidegger: ...preparare la disponibilità e la prontezza a tenersi aperti per l’avvento o per il rimaner
lontano del Dio. Anche l’esperienza di questo «rimanere lontano» non è mai un nulla, bensì la
liberazione dell’uomo da ciò che, in Sein und Zeit, ho chiamato la Verfallenheit verso l’ente. La
meditazione su ciò che è oggi, appartiene alla preparazione della suddetta disponibilità.
Spiegel: Ma allora qui sarebbe effettivamente necessaria anche la famosa spinta che viene
dall’esterno, da un Dio o da qualcun altro. Dunque, partendo da se stesso e contando sulle proprie
18
forze il pensiero non potrebbe più avere alcun effetto oggi? Una volta ciò fu possibile, questa
almeno era l’opinione dei contemporanei e, credo, anche la nostra.
Heidegger: Ma non in modo immediato.
Spiegel: Abbiamo già indicato Kant, Hegel e Marx come dei grandi “incamminanti”, dei grandi
datori di indirizzo. Ma anche da Leibniz provengono degli spunti – per lo sviluppo della fisica
moderna e per la nascita del mondo moderno in generale. Se abbiamo capito bene, Lei prima ha
detto di non contare più, oggi, su un effetto di tal genere?
Heidegger: Non più nel senso della filosofia. Il ruolo della filosofia è stato oggi assunto dalle
scienze. Per chiarire esaurientemente l’”effetto” e l’efficacia del pensiero, dovremmo puntualizzare
più a fondo cosa possa significare qui “effetto”, “avere degli effetti”. “effettuare”. Dovremmo fare
delle distinzioni molto precise fra Anlaß (occasione), Anstoß (urto, impulso), Förderung
(promozione), Nachhilfe (aiuto), Behinderung (impedimento), Mithilfe (assistenza). Ma otterremo la
dimensione adeguata per queste distinzioni solo quando avremo puntualizzato in modo
sufficientemente esauriente <la struttura del> principio di ragione. La filosofia si dissolve in scienze
particolari: la psicologia, la logica, la politologia. <287>
Spiegel: E chi prende ora il posto delle filosofia?
Heidegger: La cibernetica.
Spiegel: O l’uomo pio che si mantiene aperto?
Heidegger: Ma questa non è più filosofia.
Spiegel: E che cos’è allora?
Heidegger: Io lo chiamo l’altro pensiero.
Spiegel: Lei lo chiama l’altro pensiero. Potrebbe formularlo un po’ più chiaramente?
Heidegger: Sta pensando alla frase che conclude la mia conferenza Die Frage nach der Technik:
«infatti il domandare e l’interrogare sono la pietas del pensiero»?
Spiegel: Nel Suo corso su Nietzsche abbiamo trovato una frase che ci sembra convincente: «Nel
pensiero filosofico il legame [l’”amore”] tocca il suo culmine; per questo tutti i grandi pensatori
pensano il medesimo. Ma questo medesimo è così essenziale e ricco da non poter essere esaurito
da nessun singolo pensatore; anzi: ciascuno lega più rigorosamente tutti gli altri <al medesimo>».
19
Ma allora è proprio questa costruzione filosofica che, a suo parere, è giunta ad una certa
conclusione, a un certo esito.
Heidegger: Si è conclusa, ma, per noi, non si è annullata, bensì è presente in modo nuovo proprio
nel colloquio. Tutto il lavoro che ho svolto nei miei corsi e nei miei seminari, negli ultimi
trent’anni, è stato principalmente un’interpretazione della filosofia occidentale. Il ritorno alle
posizioni storiche fondamentali del pensiero, la ponderazione fondamentale delle questioni che, a
partire dalla filosofia greca, non erano ancora state poste come questioni – tutto ciò non è uno
svincolarsi dalla tradizione. Ma io dico: quella modalità del pensiero, caratteristica della tradizione
metafisica conclusasi con Nietzsche, non offre più alcuna possibilità al pensiero di esperire i tratti
fondamentali dell’età della tecnica che è solo all’inizio. <288>
Spiegel: Circa due anni or sono, in un colloquio con un monaco buddista, Lei ha parlato di «un
metodo interamente nuovo del pensiero», e ha aggiunto che tale nuovo metodo del pensiero «per
ora, è alla portata solo di pochi uomini». Voleva forse dire che solo un piccolissimo numero di
persone può avere le intuizioni che, a suo parere, sarebbero possibili e necessarie?
Heidegger: «Avere» in senso assolutamente originario: che essi possono in un certo qual modo
dirle.
Spiegel: Sì, ma anche nel colloquio con il buddista, Lei non ha fatto vedere chiaramente la
trasmissione che porti ad un effetto, ad una realizzazione.
Heidegger: E non posso neppure far sì che si renda visibile. Non so nulla del modo in cui questo
pensiero “effettui”, “abbia effetti”, “realizzi”. Forse il cammino di un pensare conduce oggi a tacere
per impedire che il pensiero sia svenduto nel giro di un anno. Può anche darsi che esso abbia
bisogno di trecento anni per “avere effetti” e “realizzare qualcosa”.
Spiegel: Comprendiamo molto bene. Ma dato che non vivremo fra trecento anni, ma viviamo qui ed
ora, ci è vietato tacere. Noi, politici, semi-politici, cittadini, giornalisti ecc., noi dobbiamo
continuamente prendere una qualche decisione. Dobbiamo adattarci al sistema in cui viviamo,
dobbiamo cercare di modificarlo, dobbiamo ricercare la porta stretta verso una riforma, oppure
quella ancora più stretta verso una rivoluzione. Ci aspettiamo un aiuto dai filosofi, un aiuto
indiretto naturalmente, un aiuto per vie traverse. E qui ci sentiamo rispondere: io non vi posso
aiutare.
Heidegger: Infatti non posso.
20
Spiegel: E questo non può che scoraggiare il non filosofo.
Heidegger: Non posso farlo perché le questioni sono così difficili che sarebbe contro il senso di
questo compito del <289> pensiero presentarsi, per così dire, in pubblico, predicare e distribuire
censure morali. Forse possiamo azzardarci a dire: al segreto dell’ultrapotenza planetaria
dell’essenza impensata della tecnica corrisponde il carattere provvisorio e inapparente di quel
pensiero che tenta di pensare in modo consono a tale impensato.
Spiegel: Lei non si colloca fra coloro che, se solo venissero ascoltati, potrebbero mostrare un
cammino?
Heidegger: Assolutamente no! Non conosco alcun cammino che conduca al cambiamento
immediato del presente stato del mondo, posto che un tale cambiamento sia possibile all’uomo. Ma
mi sembra che il pensiero tentato potrebbe risvegliare la disponibilità e la prontezza di cui ho
parlato prima, chiarirla e rafforzarla.
Spiegel: Una risposta chiara – ma un pensatore può e ha il diritto di dire: abbiate pazienza, entro
trecento anni qualcosa ci verrà in mente?
Heidegger: Non si tratta semplicemente di aspettare che l’uomo, passati trecento anni, abbia
un’idea, bensì, a partire dai tratti di fondo appena pensati dell’età attuale, di pensare in avanti nel
tempo veniente senza pretese profetiche. Il pensare non è inattività, ma, in sé, l’agire che insiste nel
diloquio con il destino del mondo. Mi sembra che la distinzione di teoria e prassi derivante dalla
metafisica, e la rappresentazione di una trasmissione tra l’una e l’altra, sbarri la strada alla
possibilità di gettare uno sguardo in ciò che intendo con la parola «pensiero». Forse posso rinviarvi
qui alle lezioni apparse nel 1954 con il titolo Was heißt Denken? Forse anche questo è un segno dei
nostri tempi, e cioè che tale scritto sia proprio il meno letto di tutti quelli che ho pubblicato.
Spiegel: E’ naturalmente sempre stato un fraintendere della filosofia ritenere che il filosofo debba,
con la propria filosofia, avere un qualche effetto diretto, un’efficacia. <290> Ritorniamo al nostro
punto di partenza. Non sarebbe pensabile vedere il nazionalsocialismo, da un lato, come la
realizzazione di quell’«incontro planetario», e, dall’altro come l’ultima, la peggiore, la più forte e,
al contempo, la più impotente protesta contro questo incontro della «tecnica determinata in modo
planetario» con l’uomo dei Tempi moderni? E’ evidente che nella sua stessa persona, Lei reca una
contraddizione o un’opposizione tale che molti prodotti secondari della sua attività si possono
spiegare solo in questo modo: per molti lati del suo essere, che non riguardano il nucleo filosofico,
Lei è abbarbicato a molte cose delle quali sa, in quanto filosofo, che non hanno alcuna consistenza
21
– per esempio concetti come “patria”, “radicamento” o cose del genere. Come si accordano tra di
loro delle cose come tecnica planetaria e patria?
Heidegger: Io non direi questo. Mi sembra che Lei prenda la tecnica in modo un po’ troppo
assoluto. Non vedo la situazione dell’uomo, nel mondo della tecnica planetaria, come una sventura
inestricabile ed inevitabile, anzi vedo che il compito del pensiero consiste proprio nell’aiutare, entro
i propri limiti, l’uomo a entrare innanzitutto in un rapporto equilibrato con l’essenza della tecnica. Il
nazionalsocialismo si era mosso in questa direzione; quella gente era però troppo sprovveduta dal
punto di vista del pensiero per guadagnare un rapporto veramente esplicito con ciò che oggi accade
e che è in cammino da tre secoli.
Spiegel: Questo rapporto esplicito, forse, lo hanno oggi gli Americani?
Heidegger: Neppure loro che l’hanno, sono ancora impigliati in un pensiero che, in quanto
pragmatismo, favorisce l’avanzamento delle operazioni e delle manipolazioni tecniche, ma al
contempo sbarra il cammino verso la meditazione delle peculiarità [del “proprio”] della tecnica
moderna. E, d’altra parte, negli USA si notano qua e là tentativi di svincolarsi dal pensiero
pragmatico-positivista. E chi di noi potrebbe affermare che un giorno, in Russia o in Cina, non
<291> si sveglino tradizioni molto antiche di un “pensiero”, che contribuiscano a rendere possibile
all’uomo un libero rapporto con il mondo tecnico?
Spiegel: Se dunque nessuno l’ha trovato ancora, mentre il filosofo, per quanto stia in lui, non lo
può indicare...
Heidegger: Non sta a me decidere fino a dove giungerà il mio tentativo di pensiero, in che modo
verrà accolto in avvenire e modificato in maniera feconda. Nel 1957, in una conferenza scritta per il
giubileo dell’Università di Friburgo intitolata Der Satz der Identität, ho osato mostrare, in pochi
tratti, in che misura, ad un’esperienza pensante di ciò su cui riposa la peculiarità della tecnica
moderna, si apra la possibilità che l’uomo dell’età tecnica esperisca il rapporto con un richiamo che
non solo egli è in grado di ascoltare, ma al quale, più ancora, egli appartiene. Il mio pensiero insiste
in un rapporto inaggirabile con la poesia di Hölderlin. Ma non considero Hölderlin un poeta
qualsiasi –un poeta la cui opera possa essere presa in considerazione dagli storici della letteratura
accanto a quella di molti altri. Hölderlin è per me il poeta che indica verso l’avvenire, è il poeta che
attende il Dio e che quindi non può restare il semplice oggetto degli studi hölderliniani all’interno
delle rappresentazioni di storia della letteratura.
22
Spiegel: A proposito di Hölderlin – ci scusiamo di dover di nuovo fare una citazione: nei suoi corsi
su Nietzsche, Lei scrive: «La lotta, variamente nota, fra il dionisiaco e l’apollineo, fra la passione
salubre e la rappresentazione sobria, costituisce una nascosta legge stilistica dell’intonatura
storica dei Tedeschi; un giorno, essa dovrà trovarci pronti e preparati alla ricerca di una sua
configurazione. Questo contrasto non è solo una formula con l’aiuto della quale possiamo
descrivere dei fatti “culturali”. Con questa lotta, Hölderlin e Nietzsche hanno posto un punto
interrogativo dinanzi al compito dei Tedeschi, consistente nel dover trovare storicamente la loro
essenza storica. Riusciremo a comprendere questi segni? Una cosa è certa: la storia si vendicherà
di noi se non li comprenderemo.» Non sappiamo in che anno Lei scrivesse queste righe,
presumibilmente intorno al 1935.
Heidegger: Probabilmente la citazione fa parte del corso su Nietzsche Der Wille zur Macht als
Kunst del 1936/37. Ma potrebbe anche essere stata detta negli anni seguenti.
Spiegel: Non vorrebbe chiarircela un po’ meglio? Essa infatti sembra condurci dal percorso
generale a una concreta “intonatura” – come Lei dice - dei Tedeschi.
Heidegger: Potrei riformulare la citazione in questo modo: la mia convinzione è che solo a partire
dallo stesso “punto ortivo” del mondo nel quale è sorto il moderno mondo tecnico possa prepararsi
una conversione, e che essa non possa prodursi attraverso l’adozione del buddismo zen o di altre
esperienze del mondo orientali. La conversione del pensiero ha bisogno dell’aiuto della tradizione
europea e di una nuova appropriazione di quest’ultima. Il pensiero può essere trasformato solo da
quel pensiero che ha la stessa origine e la stessa intonatura.
Spiegel: Proprio in questo posto dove il mondo tecnico è nato, proprio qui, secondo Lei, esso deve
anche...
Heidegger: ... essere “tolto” (aufgehoben), nel senso hegeliano del termine – non “messo da parte”,
bensì tolto e superato, ma non attraverso l’uomo soltanto.
Spiegel: Lei attribuisce in modo specifico ai Tedeschi un compito particolare ?
Heidegger: Sì, nel senso del colloquio con Hölderlin.
Spiegel: Crede che i Tedeschi abbiano una qualificazione specifica per questa conversione?
Heidegger: Penso alla particolare intima affinità della lingua tedesca con la lingua dei Greci e con il
loro pensiero. E questa è una cosa che oggi i Francesi mi confermano <293> continuamente.
Quando prendono a pensare parlano tedesco; assicurano che, nella loro lingua non ce la fanno.
23
Spiegel: Spiega dunque in questo modo l’influenza così forte che Lei ha avuto nei paesi romanzi,
soprattutto sui francesi?
Heidegger: Poiché vedono che con tutta la loro grande razionalità non arrivano a nulla, nel mondo
odierno, quando si tratti di comprenderlo nella provenienza della sua essenza. Così come non si
possono tradurre le poesie, non si può tradurre un pensiero. Si può tutt’al più parafrasarlo. Appena
si tenti una traduzione parola per parola, tutto viene trasformato.
Spiegel: Un pensiero non molto agevole, scomodo.
Heidegger: Sarebbe bene prendere questa “scomodità” molto seriamente su vasta scala, e soppesare
una buona volta la natura di quella trasformazione, ricca di conseguenze, subita dal pensiero greco
attraverso la traduzione nel latino di Roma; si tratta infatti di un accadimento che ancora oggi ci
impedisce di pensare correttamente le dizioni fondamentali del pensiero greco.
Spiegel: Professore, noi in realtà vorremmo partire sempre dalla visione ottimistica che qualcosa
si possa comunicare ed anche tradurre, poiché se cessa la speranza che i contenuti di pensiero
possano essere comunicati anche al di là dei confini linguistici, nasce il rischio della
provincializzazione.
Heidegger: Lei definirebbe il pensiero greco, nella sua differenza rispetto al modo di
rappresentazione dell’Impero romano, come “provinciale”? Le lettere commerciali si possono
tradurre in tutte le lingue. Le scienze, vale a dire anche per noi oggi le scienze naturali, con la fisica
matematica in quanto scienza fondamentale, sono traducibili in tutte le lingue del mondo, o meglio:
non si traduce nulla, poiché si parla la stessa lingua matematica. Qui sfioriamo un campo molto
vasto e difficile da misurare. <294>
Spiegel: Può darsi che anche questo faccia parte del tema: al momento, lo possiamo dire senza
esagerare, abbiamo una crisi del sistema democratico parlamentare. E’ una crisi di lunga data.
Essa è presente soprattutto in Germania, ma non soltanto in Germania. Esiste anche nei paesi
classici della democrazia, In Inghilterra e in America. In Francia, non la possiamo già più definire
una crisi. La domanda allora è: dai pensatori non possono giungere, sia pure come sottoprodotto,
delle indicazioni circa la sostituibilità di questo sistema con uno nuovo e su come esso debba
essere, oppure circa la possibilità e il modo di una sua riforma? Se no resta al fatto che l’uomo
filosoficamente non educato – e cioè, per lo più, proprio quello nelle cui mani stanno le cose
(benché non sia lui a determinarle) e che a sua volta è nelle mani delle cose – che quest’uomo,
24
appunto, arrivi a conclusioni sbagliate, anzi forse a terribili cortocircuiti. Perciò: il filosofo non
dovrebbe essere pronto a farsi un’idea su come gli uomini possano organizzare la loro vita in
comune in questo mondo che loro stessi hanno reso tecnico e che, forse, già li sta dominando? Non
si è in diritto di aspettarsi dal filosofo delle indicazioni sul modo in cui si rappresenta una
possibilità di vita, e non viene meno il filosofo ad una parte – seppur piccola – della sua
professione e della sua vocazione se non trasmette nulla al proposito?
Heidegger: Per quel che posso vedere, un individuo non è in grado, a partire dal pensiero, di avere
una visione così penetrante del mondo nella sua interezza da poter dare indicazioni pratiche, e ciò a
maggior ragione dove il compito da assumersi sia quello di trovare una nuova base per il pensiero
stesso. Il pensiero, nella misura in cui si prenda sul serio rispetto al proprio rapporto con la grande
tradizione, è posto dinanzi ad una pretesa eccessiva, se deve mettersi a fornire indicazioni concrete.
In base a quale competenza potrebbe accadere qualcosa di simile? Nell’ambito del pensiero, non vi
sono enunciazioni autoritative. La sola misura adeguata per il pensiero proviene dalla cosa stessa
che deve essere pensata. Ma è proprio questa cosa ciò che, prima di ogni altra, è <295> degna
d’essere soppesata, è degna cioè di divenire il pensum stesso del pensiero. Per rendere
comprensibile questo stato di cose bisognerebbe innanzitutto puntualizzare il rapporto tra la
filosofia e i saperi delle scienze, i cui successi tecnico-pratici fanno apparire oggi sempre più
superfluo un pensiero nel senso filosofico della parola. A questa difficile, presente posizione, nella
quale il pensiero stesso viene a trovasi al suo precipuo compito, corrisponde un’estraneazione,
alimentata proprio dalla posizione di forza dei saperi scientifici, nei confronti del pensiero, il quale
deve rinunciare a fornire risposte, richieste dal momento, alle questioni di ordine pratico e ai
problemi tipici delle varie visioni del mondo.
Spiegel: Professore, nell’ambito del pensiero, non vi sono enunciazioni autoritative. Perciò non ci
si deve affatto sorprendere che anche l’arte moderna trovi difficile pronunciare enunciati
autoritativi. Tuttavia, Lei la chiama “distruttiva”. L’arte moderna intende spesso se stessa come
arte sperimentale. Le sue opere sono dei tentativi...
Heidegger: Mi lascio volentieri istruire.
Spiegel: ... dei tentativi di uscire da una situazione d’isolamento dell’uomo e dell’artista e, tra
mille tentativi, ogni tanto capita che uno faccia centro.
Heidegger: E’ questo il grande problema: Dove sta l’arte? Qual è il suo luogo?
Spiegel: D’accordo, ma qui Lei pretende dall’arte qualcosa che non pretende più dal pensiero.
25
Heidegger: Dall’arte non pretendo nulla. Dico solo – ed è una domanda – che bisogna vedere quale
luogo occupi l’arte.
Spiegel: Se l’arte non conosce il proprio luogo deve per questo essere distruttiva?
Heidegger: Va bene, cancelli questa parola. Vorrei però constatare che non vedo quale cammino
indichi l’arte <296> moderna; soprattutto, perché rimane oscuro in che cosa l’arte veda, o per lo
meno cerchi, il suo elemento più proprio.
Spiegel: Anche all’artista manca un legame vincolante verso ciò che è stato tramandato: egli può
trovarlo bello e dire: ecco, così si sarebbe potuto dipingere seicento anni fa, o trecento anni fa o
ancora trent’anni fa. Ma sta di fatto che egli non può più dipingere così. Anche se volesse, non
potrebbe farlo. Altrimenti il più grande artista sarebbe il geniale falsario Hans van Meegeren che
allora saprebbe dipingere “meglio” do chiunque altro. Ma, appunto, non è più possibile. Sicché
l’artista, lo scrittore, il poeta sono in una situazione simile a quella del pensatore. Quante volte
dobbiamo dire a noi stessi: chiudi gli occhi!
Heidegger: Se il quadro scelto per collocare al loro posto l’arte, la poesia e la filosofia è l’“attività
culturale”, allora l’equiparazione è giusta. Ma se rendiamo degna di domanda non solo l’attività
culturale, ma anche il senso della “cultura”, allora anche la meditazione su questo elemento degno
di domanda rientra nei compiti del pensiero, il cui stato di necessità e di urgenza non è neppure
immaginabile. Ma la sua più grande urgenza consiste nel fatto che oggi, per quanto io veda, non
esiste ancora un pensatore così “grande” la cui parola possa condurre il pensiero, immediatamente e
in una forma chiaramente squadrata, dinanzi al suo pensum per porlo così sul suo cammino. Per noi
uomini odierni, la grandezza di ciò che deve essere pensato è troppo grande. Possiamo forse
concentrare le nostre fatiche (fino all’esaurimento delle forze) nella costruzione di stretti e brevi
ponticelli e sentieri di un trapasso, di un trapasso-oltre.
Spiegel: Professor Heidegger, la ringraziamo per questo colloquio.
* * *
26
NOTE*
107. (Nota del dr Hermann Heidegger.)
L’antefatto di questo colloquio, in merito al quale il settimanale «Der Spiegel», nel numero del 31
maggio 1976, non ha fornito informazioni soddisfacenti, è il seguente. In una lettera al giornale,
pubblicata nel numero 7 del 1966 dello Spiegel, Martin Heidegger aveva replicato ad affermazioni
non vere sul suo conto contenute in un articolo, apparso sul settimanale, intitolato «Heidegger,
Mitternacht einer Weltnacht» [Heidegger, mezzanotte di una notte del mondo]. Alla fine di febbraio
del 1966, Erhart Kästner, che era in contatto con i redattori dello Spiegel, suggerì loro di
organizzare un’intervista con Martin Heidegger. Questa sua proposta incontrò, in un primo tempo,
un netto rifiuto da parte di Heidegger: «In nessun caso mi presterò a una “intervista con lo Spiegel”,
in qualsiasi forma venga organizzata.» (Lettera di Heidegger a Kästner dell’11 marzo 1966, in
Heidegger/Kästner Briefwechsel, Insel, 1986, p. 82). Solo l’insistenza di Kästner e di altri amici del
filosofo, ma soprattutto una lettera molto amichevole che Rudolf Augstein, su consiglio di Kästner,
indirizzò a Martin Heidegger il 23 marzo 1966, fecero sì che Heidegger acconsentisse infine
all’intervista.
Il colloquio ebbe luogo nella casa di Martin Heidegger a Friburgo-Zähringen sul Rötebuck il 23
settembre 1966. Vi parteciparono: Martin Heidegger, Rudolf Augstein, Georg Wolff, Heinrich
Wiegand Petzet e il redattore del protocollo Steinbrecher, un tecnico e la fotografa Digne Meller
Marcovitz.
La trascrizione del nastro magnetico venne rivista e integrata sia da Martin Heidegger che dalla
redazione dello Spiegel, e ciò in base ad un loro accordo preliminare. Alcune frasi dell’intervista,
che Heidegger aveva lasciato invariate al momento di questa revisione, furono poi corrette e
modificate dallo Spiegel in un secondo momento, dando così luogo a una seconda versione del testo
– la “seconda versione dello Spiegel” – in seguito accettata dallo stesso Heidegger.
Lo Spiegel in parte riformulò le domande poste nel corso dell’intervista, in parte le pose in modo
diverso e le completò con nuove domande – e tutto ciò dopo che Heidegger ebbe ritoccato e
migliorato per iscritto le sue risposte orali. Heidegger venne a conoscenza di questi cambiamenti
solo nella “seconda versione dello Spiegel”. Ma lo Spiegel era intervenuto anche sul testo
rielaborato da Heidegger, senza però segnalare al filosofo gli interventi quando gli fu sottoposta la
“seconda versione dello Spiegel”. Non sappiamo – e a questo punto non è più possibile scoprirlo –
se Heidegger abbia riconosciuto, nella “seconda versione dello Spiegel”, i punti del suo testo
modificati dalla redazione del settimanale. Perciò, nella seconda versione, troviamo risposte di
Heidegger a domande che in origine erano state formulate in modo diverso. Ho lasciato qui i
ritocchi linguistici introdotti dallo Spiegel nel testo di Heidegger per la seconda versione; si tratta
infatti di miglioramenti formali che Heidegger ha accolto ponendo la sua firma in calce al
manoscritto. Sono state inoltre reintrodotte le correzioni apportate da Heidegger al suo testo e di cui
lo Spiegel non ha tenuto conto nella sua “seconda versione”. Un confronto fra la prima revisione
fatta da Georg Wolff e la prima revisione fatta da Martin Heidegger mostra che tutti e due hanno
spesso cercato nuove formulazioni negli stessi punti o cancellato le stesse frasi, che Martin
Heidegger ha accettato certi suggerimenti di Wolff e che altri li ha respinti.
A più riprese, dunque, le frasi e le domande dello Spiegel sono state riformulate diversamente dopo
la revisione di Martin Heidegger; a volte le domande sono state persino poste in modo diverso. Ma
le risposte di Heidegger sono rimaste quelle date alle domande originarie, sicché, anche nella
*Le note siglate N.d.C. sono del Curatore dell’edizione italiana; le altre sono di François Fédier (traduzione di Maurizio
Borghi).
27
versione da lui sottoscritta, sono riprodotte sue risposte a domande che non appaiono più. Ciò
dipende evidentemente dal fatto che Heidegger si è concentrato sulla rilettura finale del suo testo,
senza immaginare che lo Spiegel, nonostante la redazione si fosse conclusa, avesse modificato le
domande e ne avesse aggiunte di nuove.
La “seconda versione dello Spiegel”, che, come già ricordato, non comprendeva tutte le integrazioni
fatte da Heidegger, fu consegnata al filosofo come versione definitiva, evidentemente senza il testo
della registrazione magnetica da lui corretto. Heidegger non aveva riportato le sue integrazioni e
correzioni sul dattiloscritto del nastro magnetico trovato fra le sue carte. La “seconda versione dello
Spiegel” fu approvata da Martin Heidegger, dopo alcune altre correzioni, il 28 marzo 1967.
Un confronto minuzioso con la versione stampata nel 1976 rivela che lo Spiegel, all’insaputa di
Heidegger, ha inserito in un secondo momento i titoletti, ha introdotto altre domande, ha modificato
linguisticamente il testo consegnato allo Spiegel ed ha infine tralasciato alcune frasi. D’altro canto,
sempre all’insaputa di Heidegger, la redazione dello Spiegel ha cancellato, modificato e in due casi
lievemente corretto dal punto di vista linguistico alcune frasi del filosofo.
Il testo qui proposto è quello sottoscritto da Heidegger per la stampa. I cambiamenti e le
integrazioni apportati in seconda battuta dalla redazione dello Spiegel sono stati eliminati. Sono stati
rimessi al loro posto tutti i passi di Heidegger che lo Spiegel aveva cancellato all’insaputa del
filosofo dopo la sua approvazione della versione definitiva. I passi aggiunti da Heidegger nella
prima revisione, e tralasciati dallo Spiegel nella seconda revisione, sono stati reintegrati. I titoletti
introdotti in seconda battuta dalla redazione dello Spiegel, e di cui Martin Heidegger non venne a
conoscenza, sono stati eliminati.
Gli errori di ortografia non notati da Heidegger nella redazione definitiva sono stati corretti. A
proposito della conferenza di Husserl a Berlino (cfr. p. 272), Martin Heidegger, basandosi su un
articolo della Voss’sche Zeitung che parlava di una «specie di atmosfera da Palazzo dello sport», si
è sbagliato sul luogo della conferenza e sul nome del giornalista Mühsam. Le due frasi riferite alla
conferenza sono state da me corrette in accordo coi fatti. [Il testo originale dello Spiegel era il
seguente: «Husserl ha parlato davanti agli studenti al Palazzo dello sport di Berlino. Eric Mühsam
ha reso conto di questo intervento su un grande giornale di Berlino.»].
La versione definitiva, stabilita a posteriori dallo Spiegel, non fu mai sottoposta a Heidegger, sicché
egli non ha mai saputo quali cambiamenti fossero stati apportati, quali titoletti fossero stati inseriti,
né quali foto e quali didascalie fossero state scelte.
Talune modifiche formali del testo apportate dallo Spiegel, e che non toccano il contenuto, sono
state lasciate. Per tutte le altre modifiche operate dopo la redazione definitiva di Heidegger –
integrazioni, cancellazioni, nuove frasi – si è ristabilito il testo che egli aveva sotto gli occhi quando
lo licenziò esprimendo il suo benestare.
108. Questo manifesto «sugli Ebrei», che invocava l’interdizione dell’Università a studenti e
professori ebrei, è un’iniziativa dell’Associazione degli studenti tedeschi (Deutscher
Studentenbund). Durante i mesi precedenti alla presa del potere da parte di Hitler (30 gennaio
1933), e soprattutto in quelli successivi, si registrano iniziative analoghe in tutte le Università del
Reich. Si trattava di iniziative illegali, tanto più che la maggior parte dei governi dei Länder
avevano tolto ogni rappresentanza ufficiale al Deutscher Studentenbund (in cui i nazionalsocialisti
avevano la maggioranza assoluta dopo il congresso nazionale dell’Associazione tenuto nell’estate
del 1931 a Graz... in Austria) proprio perché, rifiutando di ammettere tra i suoi membri gli studenti
tedeschi di confessione ebraica ed ammettendo invece gli studenti austriaci, violava una legge dello
Stato.
La situazione giuridica cambia il 25 aprile 1933 con la legge «contro l’eccedenza di effettivi nelle
scuole e nelle Università tedesche». Da una parte, il Deutscher Studentenbund viene dichiarato
28
rappresentante esclusivo degli studenti tedeschi ad esclusione di tutte le altre associazioni.
Dall’altra, la legge limita la percentuale di studenti ebrei ammessi all’Università al livello della
popolazione ebraica in Germania: 1,5%, con una deroga per gli studenti i cui genitori abbiano
prestato servizio nell’esercito tedesco durante la guerra.
Questa legge fu seguita da un’altra, il 4 luglio 1933, che regolava la sorte dei professori: la legge
«per la ristrutturazione del corpo dei funzionari», che venne successivamente estesa a tutti i membri
del corpo docente dell’Università, funzionari e non. La legge escludeva gli Ebrei e gli elementi
«politicamente sospetti» dal diritto di insegnare, facendo eccezione per i professori già in carica
prima del 1918; se si trattava di Ebrei, questi ultimi dovevano essere messi immediatamente in
prepensionamento. Ricordiamo che la data del Discorso di rettorato, che segue di poco l’entrata in
carica di Heidegger, è il 27 maggio 1933. I suoi interlocutori studenti dello Sudentenbund, di cui si
parla più avanti, sono a quella data i rappresentanti legali dell’insieme degli studenti del Reich.
109. Nel congresso del 1932, tenuto in una caserma di Königsberg, il Deutscher Studentenbund
adottò per la sua organizzazione il Führerprinzip, ossia il principio di nomina dei capi da parte
dell’istanza immediatamente superiore. Tale principio si estenderà ufficialmente a tutta l’Università
a partire dall’ottobre del 1933. Esso pone fine alla libera elezione da parte del corpo insegnante
della propria amministrazione. Il senato accademico, o assemblea dei professori, ha ormai soltanto
un ruolo consultivo. Il rettore è nominato (e revocato) direttamente dal ministro dell’Educazione del
Reich, e i presidi di facoltà sono nominati dal rettore.
Questa gerarchia è d’altra parte dipendente, nel suo funzionamento, dalle pressioni esercitate
localmente dall’onnipotente SA, come dimostra poco più avanti il caso dell’intervento del
capogruppo della SA, il dottor Baumann. Il controllo dell’Università da parte della SA viene
esercitato attraverso il suo Ufficio dell’insegnamento superiore, che nel febbraio del 1934 diventa
l’istanza ufficiale incaricata dell’istruzione militare degli studenti divenuta, nel frattempo,
obbligatoria.
110. Friedrich Naumann, 1860-1919, pastore protestante, deputato della Costituente di Weimar
dopo essere stato deputato del Reichstag nel 1907, è l’autore di due libri importanti: Demokratie
und Kaisertum e Mitteleuropa. La sua questione politica riguardava il modo di realizzare l’unione,
in un’unica Germania, tra una borghesia nazionale e un proletariato socialista per mezzo di un
«socialismo nazionale».
111. Eduard Spranger, 1882-1963, allievo di Wilhelm Dilthey, autore di studi su Humboldt e
Goethe e, nel 1924, di un libro stampato in più di centomila copie in uno solo anno: Psychologie
des Jugendalters. Nel 1933 aveva presentato le dimissioni dalla cattedra di professore a Berlino, ma
furono respinte. Sarà arrestato dopo l’attentato contro Hitler del 20 luglio 1944. Il saggio di cui
parla Heidegger è apparso nella rivista Die Erziehung (1933, p. 401) edita da A. Fischer, W. Flitner,
Th. Litt, H. Nohl e E. Spranger.
112. Questa politicizzazione della scienza è reclamata in particolare dal pedagogo Ernst Krieck,
eletto rettore dell’Università di Francoforte in questo stesso anno 1933 mentre è già direttore del
giornale nazionalsocialista Volk im Werden, dove Heidegger è attaccato con violenza a partire
dall’anno successivo. Nel suo libro Nationalpolitische Erziehung, apparso nel 1933, Krieck
suggerisce lo smembramento dell’Università in istituti di formazione professionale aventi ognuno la
sua specializzazione.
29
113. L’editore di Heidegger a quell’epoca
114. Privatdozent è il titolo che corrisponde al professore che ha ottenuto l’abilitazione (habilitiert),
ma che non è ancora stato chiamato (gerufen) da un’Università a occupare una cattedra (prima a
titolo «straordinario», poi «ordinario»).
115. Gaustudentenführer: capo degli studenti del distretto [N.d.C.]
116. Albert Leo Schlageter, nato nel 1894, fucilato il 26 maggio del 1923 per atti di sabotaggio
dall’esercito francese che stava occupando la Ruhr. I nazionalsocialisti si impadronirono del suo
ricordo senza che egli stesso abbia mai fatto parte, in qualunque forma, al «movimento».
117. Il professor Gerhard Ritter (Carl Goerdeler und die Deutsche Widerstandsbewegung),
all’epoca titolare della cattedra di storia moderna all’Università di Friburgo, fu arrestato il I
novembre del 1944 in seguito all’attentato contro Hitler del 20 luglio 1944 e liberato solamente il
25 aprile dalle truppe alleate. Lo storico divenne professore emerito nel 1956 e morì nel 1967.
30