venerdì 14 aprile 2023

Funes il memorioso - Jorge Luis Borges

 

Funes il memorioso

 

 

Jorge Luis Borges, La Nación 1942, Ficciones 1944

Traduzione di Marco Vignolo Gargini

   Lo ricordo (io non ho diritto di pronunciare questo verbo sacro, solo un uomo sulla terra ebbe questo diritto e quest’uomo è morto), con una passiflora scura nella mano, vedendola come nessuno l’ha vista, anche se l’avrà guardata dal crepuscolo del giorno a quello della notte, per una vita intera. Lo ricordo, il volto taciturno e da indio e singolarmente remoto dietro la sigaretta. Ricordo (credo) le sue mani affilate d’intrecciatore. Ricordo vicino a quelle mani un servizio da matè, con le armi della Banda Orientale; ricordo nella finestra della casa un telo giallo, con un vago paesaggio lacustre. Ricordo chiaramente la sua voce; la voce lenta, risentita e nasale dell’antico orillero [1], senza le sibilanti italiane di adesso. Non l’ho visto più di tre volte; l’ultima nel 1887… M’è parso molto felice il progetto di tutti quelli che lo conoscevano di scrivere su di lui; la mia testimonianza sarà forse la più breve e di certo la più povera, ma non la meno imparziale del volume che si va preparando. La mia deplorevole condizione di argentino mi impedirà di incorrere nel ditirambo – genere obbligatorio in Uruguay quando il tema è un uruguagio. Letterato, cajetilla [2]porteño [3]; Funes non pronunciò queste parole ingiuriose, ma so quanto basta che io rappresentavo per lui queste sventure.- Pedro Leandro Ipuche ha scritto che Funes fu un precursore dei superuomini, “uno Zarathustra selvaggio e vernacolare”; non lo metto in dubbio, ma non si deve dimenticare che fu anche un cittadino di Fray Bentos, con certe incurabili limitazioni.

   Il mio primo ricordo di Funes è assai chiaro. Lo vedo in una sera di marzo o di febbraio del 1884. Mio padre quell’anno m’aveva portato a passare l’estate a Fray Bentos. Tornavo con mio cugino Bernardo Haedo dalla tenuta San Francisco. Tornavamo cantando, a cavallo, e quella non era la sola condizione della mia felicità. Dopo una giornata afosa, un’enorme tempesta color ardesia aveva oscurato il cielo. L’incitava il vento del sud, gli alberi già impazzivano; io avevo timore (e speranza) che lo scatenarsi dell’acqua ci sorprendesse in aperta campagna. Corremmo una specie di corsa con la tempesta. Entrammo in un vicolo che affondava tra due alti marciapiedi di mattoni. D’un colpo s’era fatto buio; udii in alto passi rapidi e quasi segreti; alzai lo sguardo e vidi un ragazzo che correva lungo lo stretto e rovinato marciapiede come su un muro stretto e rovinato. Ricordo la bombacha [4], le sue scarpe di corda, ricordo la sigaretta in quella faccia dura contro la nuvolaglia già sterminata. Bernardo gli gridò, imprevedibilmente: «Che ore sono, Ireneo?» – Senza consultare il cielo, senza fermarsi, l’altro rispose: «Mancano quattro minuti alle otto, ragazzo Bernardo Juan Francisco» La voce era acuta, beffarda.

   Sono così distratto che il dialogo riferito non avrebbe attirato la mia attenzione se non avesse insistito mio cugino, che incoraggiavano (credo) un certo orgoglio locale e il desiderio di mostrarsi indifferente alla replica tripartita dell’altro.

   Mi disse che il ragazzo del vicolo era un tal Ireneo Funes, celebre per alcune stranezze, come quella di non frequentare nessuno e di saper sempre l’ora come un orologio. Aggiunse che era figlio d’una stiratrice del paese, Maria Clementina Funes, e che alcuni dicevano che suo padre era un medico del saladero [5], un inglese di nome O’ Connor, e altri un domatore o un esploratore del distretto del Salto. Viveva con sua madre in una fattoria dietro la villa dei Lauri.

   Le estati dell’85 e dell’86 le passammo a Montevideo. Nell’87 tornai a Fray Bentos. Chiesi, ovviamente, di tutti quelli che conoscevo e, infine, del “cronometrico Funes”. Mi hanno detto che lo aveva travolto un cavallo selvaggio nella tenuta di San Francisco ed era rimasto paralizzato, senza speranza. Ricordo l’impressione di magia scomoda che la notizia mi fece: l’unica volta che l’avevo visto, noi venivamo a cavallo da San Francisco e lui camminava in alto; il fatto, nel racconto di mio cugino Bernardo, aveva molto di un sogno elaborato con elementi anteriori. Mi dissero che non si moveva dal letto, gli occhi fissi sul fico del fondo o su una tela di ragno. Verso sera, lasciava che l’avvicinassero alla finestra. Era così superbo al punto da simulare che il colpo che l’aveva fulminato fosse stato benefico… Due volte lo vidi dietro l’inferriata, che grossolanamente sottolineava la sua condizione di eterno prigioniero; una volta, immobile, con gli occhi chiusi; un’altra, sempre immobile, assorto nella contemplazione d’un odoroso rametto di santonina.

   Non senza qualche vanagloria io avevo iniziato a quel tempo lo studio metodico del latino. La mia valigia comprendeva il De viribus illustribus di Lhomond, il Thesaurus di Quicherat, i commentari di Giulio Cesare e un volume spaiato della Naturalis Historia di Plinio, che eccedeva (e continua a eccedere) le mie modeste virtù di latinista. Tutto si viene a sapere in un piccolo paese; Ireneo, nella sua fattoria sulla costa, non tardò a sapere dell’arrivo di questi libri anomali. Mi mandò una lettera fiorita e cerimoniosa in cui ricordava il nostro incontro, sfortunatamente fugace, «del giorno sette febbraio dell’anno ottantaquattro», esaltava i gloriosi servizi che don Gregorio Haedo, mio zio, deceduto quello stesso anno, «avevo reso alle nostre due patrie nella gloriosa giornata di Ituzaingó», e mi pregava di prestargli qualcuno di quei volumi, accompagnato da un dizionario «per la buona comprensione del testo originale, poiché ignoro ancora il latino». Prometteva di restituirli in buono stato, quasi immediatamente. La scrittura era perfetta, molto allungata; l’ortografia, del tipo auspicato da Andrès Bello: i per y, j per g. All’inizio, naturalmente, temetti uno scherzo. I miei cugini mi assicurarono che no, che erano cose di Ireneo. Non sapevo se attribuire a impudenza, a ignoranza o a stupidità l’idea che l’arduo latino richiedesse come solo strumento un dizionario; per disingannarlo del tutto gli mandai il Gradus ad Parnassum di Quicherat e il volume di Plinio.

   Il 14 febbraio mi telegrafarono da Buenos Aires che tornassi immediatamente, perché mio padre non stava “niente bene”. Dio mi perdoni; il prestigio di essere il destinatario d’un telegramma urgente, il desiderio di comunicare a tutta Fray Bentos la contraddizione tra la forma negativa della notizia e l’avverbio perentorio, la tentazione di drammatizzare la mia sofferenza fingendo uno stoicismo virile, mi distolsero da ogni possibilità di dolore. Nel fare la valigia notai che mi mancavano il Gradus e la Naturalis Historia. Il Saturno salpava il giorno dopo, di mattina; quella sera, dopo cena, m’incamminai verso la casa di Funes.

   Nella fattoria ben tenuta la madre di Funes mi ricevette. Mi disse che Ireneo era nella stanza sul retro e che non mi meravigliassi di trovarlo al buio, perché Ireneo sapeva passare le ore d’inattività senza accendere la candela. Attraversai il cortile lastricato, il fienile; giunsi al secondo cortile. C’era una pergola; il buio sembrava completo. Udii d’un tratto la voce alta e burlesca di Ireneo. Questa voce parlava in latino; questa voce (che veniva dalla tenebra) articolava con dilettazione morosa un discorso, o preghiera, o incantesimo. Risonavano le sillabe romane nel cortile di terra; il mio timore le credette indecifrabili, interminabili; poi, nell’enorme dialogo di quella notte, seppi che formavano il primo paragrafo del capitolo ventesimoquarto del libro settimo della Naturalis Historia. L’argomento di questo capitolo è la memoria; le ultime parole furono ut nihil non iisdem verbis redereretur auditum.

   Senza il minimo cambio di voce, Ireneo mi disse d’entrare. Stava sul letto, fumando. Mi pare che non vidi la sua faccia fino all’alba; credo di ricordare la brace della sua sigaretta, ravvivata a momenti. La stanza odorava vagamente di umidità. Mi sedetti; ripetei la storia del telegramma e della malattia di mio padre.

   Arrivo, ora, al punto più difficile del mio racconto; il quale (è bene che il lettore lo sappia fin d’ora) non ha altro tema che questo dialogo di mezzo secolo fa. Non tenterò di riprodurre le sue parole, ormai irrecuperabili. Preferisco riassumere con veracità le molte cose che Ireneo mi disse. La forma indiretta è remota e debole; so che sacrifico l’efficacia del mio racconto; che siano i miei lettoria ad immaginare i periodi increspati che m’incantarono quella notte.

   Ireneo cominciò con l’enumerare, in latino e in spagnolo, i casi di memoria prodigiosa registrati dalla Naturalis Historia: Ciro, re dei persiani, che sapeva chiamare per nome tutti i soldati del suo esercito; Mitridate Eupatore, che amministrava la giustizia nelle ventidue lingue del suo impero; Simonide, inventore della mnemotecnica; Metrodoro, che professava l’arte di ripetere con fedeltà ciò che aveva ascoltato una sola volta. Con evidente buona fede si meravigliò che simili casi potessero meravigliare. Mi disse che prima di quella sera piovosa in cui il cavallo lo travolse, era stato ciò che sono tutti i cristiani: un cieco, un sordo, uno stordito, uno smemorato. (Cercai di ricordargli la sua esatta percezione del tempo, la sua memoria dei nomi propri, ma m’ignorò). Aveva vissuto diciannove anni come un sognatore: guardava senza vedere, ascoltava senza udire, si dimenticava di tutto, di quasi tutto. Cadendo, perdette i sensi; quando li riprese, il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così i ricordi più antichi e banali. Poco dopo s’accorse ch’era paralizzato; la cosa appena l’interessò; ragionò (sentì) che l’immobilità era un prezzo minimo; ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili.

   Noi, con un’occhiata, percepiamo tre bicchieri di vino su una tavola. Funes, tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una vite. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882 e poteva confrontarle, nel ricordo, con le venature della copertina d’un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche, ecc. Poteva ricostruire tutti i suoi sogni, tutti i suoi dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva richiesto un’intera giornata. Mi disse: « Ho più ricordi io da solo di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini da che mondo è mondo » E disse anche: « I miei sogni sono come la vostra veglia – E anche, verso l’alba: « La mia memoria, signore, è come un immondezzaio » Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire pienamente; lo stesso capitava a Ireneo con i crini scarmigliati d’un puledro, con il fuoco cangiante e l’innumerevole cenere, con una mandria di bestiame in una cuchilla [6], con i tanti volti d’un morto durante una lunga veglia funebre. Non so quante stelle vedeva nel cielo.

   Mi disse queste cose; ne allora né mai le posi in dubbio. Non c’era a quel tempo cinematografo né fonografo; è, tuttavia, inverosimile e quasi incredibile che nessuno facesse un esperimento con Funes. Il fatto è che viviamo rimandando tutto il rimandabile; forse tutti sappiamo profondamente che siamo immortali e che, prima o poi, ogni uomo farà tutte le cose e saprà tutto.

   La voce di Funes, nell’oscurità, continuava a parlare. Mi disse che nel 1886 aveva scoperto un sistema originale di numerazione e in pochi giorni aveva superato il ventiquattromila. Non l’aveva scritto, perché già il fatto d’averlo pensato una volta sola bastava per non cancellarlo. Il primo stimolo, credo, gli venne dal dispiacere che per il 33 in numeri arabi ci volessero due segni e due parole, al posto d’una sola parola e d’un solo segno. Applicò subito questo pazzo principio agli altri numeri. Al posto di settemilatredici diceva (per esempio) «Maximo Perez»; al posto di settemilaquattordici, «La Ferrovia»; altri numeri erano “Luis Melian Lafinur, Olimar, zolfo, i fiori (delle carte), la balena, il gas, la caldaia, Napoleone, Agustin de Vedia”. Al posto di cinquecento, diceva “nove”. Ogni parola aveva un segno particolare, una specie di marchio; gli ultimi erano molto complicati… Cercai di spiegargli che questa rapsodia di voci sconnesse era precisamente il contrario di un sistema di numerazione. Gli feci osservare che dire 366 è dire tre centinaia, sei decine, cinque unità: analisi che non esiste nei “numeri” come “Il Negro Timoteo” o “Mantello di carne”. Funes non mi sentì o non volle sentirmi.

   Locke, nel XVII° secolo, propose (e respinse) un linguaggio impossibile in cui ogni singola cosa, ogni pietra, ogni uccello e ogni ramo avesse un nome proprio; Funes aveva pensato, una volta, a un linguaggio analogo, ma l’aveva scartato perché gli sembrava troppo generico, troppo ambiguo. In effetti, Funes non solo ricordava ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ogni volta che l’aveva percepita o immaginata. Decise di ridurre ciascuno dei suoi giorni passati a un settantamila ricordi, da definire in seguito con cifre. Lo dissuasero due considerazioni: la consapevolezza che il compito era interminabile e che era inutile. Pensò che all’ora della sua morte non avrebbe ancora finito di classificare tutti i ricordi della sua infanzia.

   I due progetti che ho detto (un vocabolario infinito per la serie naturale dei numeri, un inutile catalogo mentale di tutte le immagini della memoria) sono insensati, ma rivelano una certa grandezza balbuziente grandezza. Ci permettono di intravedere o di dedurre il vertiginoso mondo di Funes. Questo, non dimentichiamolo, era quasi incapace di idee generali, platoniche. Non solo aveva difficoltà a comprendere che il simbolo generico cane potesse designare molti disparati individui di varia dimensione e forma diversa; ma lo infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta. Swift racconta che l’imperatore di Lilliput discerneva il movimento delle lancette d’un orologio; Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido spettatore di un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso. Babilonia, Londra e New York hanno offuscato con il loro feroce splendore l’immaginazione degli uomini; nessuno, nelle loro torri popolose e nelle loro strade frenetiche, ha mai sentito il calore e la pressione d’una realtà così intangibile come quella che giorno e notte convergeva sull’infelice Ireneo, nel suo povero sobborgo sudamericano. Gli era molto difficile dormire. Dormire è distrarsi dal mondo; Funes, sul letto, nell’ombra, si figurava ogni fessura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano. (Ripeto che il meno importante dei suoi ricordi era più minuzioso e più vivo della nostra percezione d’un piacere o d’un tormento fisico). Verso est, in un lotto di terra lontano, c’erano case nuove, sconosciute. Funes le immaginava nere, compatte, fatte di tenebra omogenea; in quella direzione voltava il capo per dormire.

   Era anche solito immaginarsi in fondo al fiume, cullato e annullato dalla corrente.

   Aveva imparato senza fatica l’inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo brulicante di Funes non c’erano che dettagli, quasi immediati.

   Il chiarore sospettoso dell’alba entrò per il patio di terra.

   Allora vidi il volto di quella voce che aveva parlato tutta la notte. Ireneo aveva diciannove anni; era nato nel 1868; mi parve monumentale come il bronzo, più antico dell’Egitto, anteriore alle profezie e alle piramidi. Pensai che ciascuna delle mie parole (ciascuno dei miei gesti) sarebbe durato nella sua implacabile memoria; mi gelò il timore di moltiplicare inutili gesti.

   Ireneo Funes mori nel 1889, d’una congestione polmonare.


[1] Orillero, da orilla (confine), indica i sottoproletari del quartiere Belgrano di Buenos Aires, al confine con Rio de la Plata.

[2] Cajetilla, dal vocabolo che indica il pacchetto di sigarette, si riferisce al dandy di Buenos Aires, ben vestito con atteggiamenti effemminati.

[3] In genere gli abitanti del porto, in questo caso i bonearensi.

[4] I tipici pantaloni corti del gaucho argentino e uruguagio.

[5] Stabilimento dove si produceva carne salata.

[6] Colline ondulate tipiche dell’Uruguay.