giovedì 6 dicembre 2018

...errore, menzogna

Brice Parain



Vivre sa Vie 

Questa è la mia vita

Jean-Luc Godard

Festival di Venezia 1962
- Stralcio -

Capitolo undicesimo
Nanà e lo Sconosciuto signore (filosofo Brice Parain)
Piazza Chatelet
Nanà filosofeggia senza saperlo




Nanà : Vi do fastidio se la guardo ?
Sconosciuto: No.

N : Ha l’aria di annoiarsi ?
S : Niete affatto.

N : Che sta facendo ?
S : Leggo.

N : Mi offre da bere ?
S : Se vuole.

N : Viene spesso qui ?
S : No, qualche volta, oggi è per un caso.

N : Perché legge ?
S : E’ il mio mestiere.

N : Che strano, all’improvviso non so più cosa dire.
      Mi succede molto spesso.
      So quello che voglio dire, rifletto prima di dirlo per essere certa che sia proprio        
      quello che devo dire...
      Ma al momento di dirlo...Beh... Non sono più capace di dirlo!
S : Si! Succede.
      Dica, ha letto i tre moschettieri ?

N : No, ma ho visto il film.
      Perché ?
S :  Perchè... Vede la c’era  Porthos. Però non era nei tre moschettieri, era vent’anni  
       dopo. Portos grande e forte, un po’ stupido. Non ha mai pensato in vita sua...
       Capisce ?
       Così una volta deve mettere una bomba in un sotterraneo, per farlo saltare.
       Lo fa.
       Piazza la bomba, accende la miccia poi scappa naturalmente.
       E correndo, di colpo si mette a pensare e a cosa pensa ?
       Si domanda com’è possibile che egli possa mettere un piede davanti all’altro.
       E’ successo anche a lei probabilmente, vero ?
       Allora smette di correre, di camminare...non può più, non può più andare avanti.
       Quando c’è l’esplosione, il sotterraneo gli crolla adosso, lo sostiene con le spalle,
       è abbastanza forte. Ma alla fine, dopo un giorno, due giorni, non so è sopraffatto
       e muore.
       Insomma, la prima volta che ha pensato è morto.

N : Perché mi sta raccontando delle storie di questo genere ?
S : Così, tanto per parlare.

N : Ma perché bisogna sempre parlare ?
     Io trovo che spesso si dovrebbe tacere.
     Vivere in silenzio.
     Più si parla, più le parole non vogliono dire niente.
S : Può darsi, è possibile.

N : Questo non lo so.
S : Mi ha sempre colpito il fatto che non si possa vivere senza parlare.

N : Eppure sarebbe piacevole vivere senza parlare.
S : Si, sarebbe bello, sarebbe bello, sarebbe come se ci si amasse di più.
      Però non è possibile, non ci si è mai riusciti.

N : Ma perché ?
      Le parole dovrebbero esprimere esattamente quello che vogliamo dire, invece ci
      tradiscono.
S :  Si! Ma le tradiamo anche noi.
      Dovremmo poter riuscire a dire quello che vogliamo dire, visto che riusciamo a
      scriverlo.
      Insomma, è comunque straordinario che un tizio come Platone, si possa comunque 
      ancora capire.
      Ed è vero, lo possiamo capire!
      Eppure ha scritto in greco 2.500 anni fa.
      Insomma, nessuno conosce più la lingua dell’epoca, non è vero ?...non la conosce
      più con esattezza.
      Quindi, se qualcosa viene trasmesso, si deve riuscire a esprimersi bene.
      Ed è necessario.
     
N : E perché bisogna esprimersi ?
     Per capirsi ?
S : Dobbiamo pensare.
     Per pensare, dobbiamo parlare.
     Non si pensa in altro modo.
     E per comunicare, bisogna parlare. E’ la vita umana.
    
N : Si, ma allo stesso tempo, è molto difficile.
      Io penso, al contrario, che la vita dovrebbe essere facile.
      La sua storia dei “I tre moschettieri” forse è molto bella, ma è terribile.
S : E’ terribile, si, ma è un’indicazione.
     Credo...che si riesca a parlare bene, solo quando si rinuncia alla vita per un
     certo tempo.
     E’ quasi...il prezzo.

N : Ma allora parlare è mortale?
S : Si, ma parlare è quasi una resurrezione rispetto alla vita, nel senso che,
     quando si parla, si ha un’altra vita rispetto a quando non si parla.
     E allora, per vivere parlando, bisogna essere passati dalla morte della vita
     senza parlare.
     Vede, non so se mi sto spiegando bene, ma...
      C’è una specie di ascesa che fa si che si può parlare bene, solo quando si
      guarda la vita con distacco.

N : Eppure la vita di tutti i giorni non la si può vivere con...
      Non so, con...
S : Distacco ?
     Si, ma allora si oscilla.
     E’ per questo che si va dal silenzio alla parola.
     Si oscilla tra i due perché, è il movimento della vita che...
     Si è nella vita quotidiana e poi ci si eleva verso una vita, chiamiamola “superiore”,
     non è stupido dirlo, perché è la vita con il pensiero.
     Ma questa vita con il pensiero presuppone che si sia uccisa la vita troppo
     quotidiana, troppo elementare.

N : Si, ma pensare e parlare è uguale ?
S : Credo di si.
     Era detto in Platone, noti bene, è una vecchia idea.
     Ma credo che non si possa distinguere nel pensiero, ciò che sarebbe il pensiero
     e le parole per esprimerlo.
     Analizzi la coscienza: non riuscirà a cogliere, se non con le parole, un momento del
     pensiero.

N : Allora parlare è un po’ rischiare di mentire.
S : Si, perchè credo che la menzogna sia uno dei mezzi della ricerca.
     C’è poca differenza tra l’errore e la menzogna.
     Certo,  non parlo della menzogna nuda e cruda, comune, che fa si che io dica:
     “Verrò domani alle 17.00” e poi non vengo, perché non sono voluto venire domani
     alle 17.00. Capisce ?
     Questi sono trucchi.
     Ma la menzogna sottile, è spesso molto poco distinguibile da un errore.
     Si cerca qualcosa, e poi non si trova la parola giusta.
     Ed è quello che lei diceva prima; perciò le succedeva di non sapere più cosa dire,
     perché temeva di non trovare la parola giusta.
     Io credo che sia così.

N : Si, ma come si fa a essere certi di aver trovato le parole giuste ?
S : Bisogna esercitarsi.
     Dipende solo dalla pratica, insomma.
     Dire ciò che bisogna dire, in modo che sia giusto, ossia che non ferisca, che dica
     ciò che significa, che faccia ciò che deve fare, senza ferire, senza straziare.

N : Si, in fondo bisogna cercare di avere buona fede.
      Una volta una persona mi ha detto: “ La verità è in ogni cosa, e un po’ anche
      nell’errore”.
S : E’ vero.
     E’ ciò che non si è visto subito in Francia nel XVII secolo, quando si è pensato
     che si potesse evitare l’errore, non soltanto la menzogna, ma l’errore; che si
     potesse vivere nella verità così, direttamente.
     Credo che non sia possibile. Perché c’è stato Kant, c’è stato Hegel ?
     La filosofia tedesca serve per riportarci nella vita, saperci far accettare che
     Bisogna passare dall’errore per arrivare alla verità.

N : E che cosa pensa dell’amore ?
S : Si e dovuto ricorrere al corpo questo è molto chiaro.
      Leibniz è ricorso al contingente, le verità contingenti a fiaco delle verità
      necessarie, la vita quotidiana, e così di seguito ecco lo sviluppo della filosofia
      tedesca, nel senso che...Si pensa nella vita, con le servitù della vita, gli errori della
      vita e bisogna saper discernere. E’ chiaro!

N : Ma l’amore non dovrebbe essere la sola cosa vera ?
S : Si! Ma bisognerebbe che l’amore fosse sempre vero.
      Pe esempio, canosce qualcuno lei che sappia subito che  cosa ama ?
      No di certo, quando si hanno vent’anni non si sa quello che si ama. Si sanno delle  
      cose vaghe, ci si fa ad esempio una certa esperienza dicendo: “amo questo”, ma
      sono cose confuse. Per riuscire a capire chiaramente quello che veramente si ama
      ci vuole la maturità , cioè ci vuole la ricerca. Questa è la verità della vita.
      Per questo l’amore è una soluzione ma a condizione che sia vero.


Questa è la mia vita
Anno: 1962
Nazione: Francia
Durata: 85'
Genere: drammatico
Regia: Jean-Luc Godard
Cast:
Guylaine Schlumberger
Sady Rebbot
Brice Parain
Anna Karina
André S. Labarthe
Trama:
Nanà (A. Karina), giovane commessa, diventa una professionista del marciapiede. Ha anche un protettore, Raoul (S. Rebbot) che, oltre a darle istruzioni e porle divieti, la vende. Non essendo l'acquirente d'accordo sul prezzo, ne nasce un alterco, seguito da una sparatoria nella quale Nanà rimane ferita a morte e abbandonata sulla strada. 4 lungometraggio di J.-L. Godard (e il 3 con la svedese Karina, nome d'arte di Ann Karin Bayer), è considerato da alcuni l'opera meno invecchiata e più adulta del suo primo periodo, quella in cui le invenzioni appaiono più congeniali e integrate a un progetto che non è soltanto cinematografico. I 12 quadri nei quali Nanà vive la sua vita, rivelandone casuali frammenti hanno registri diversi (sociologico, documentario, letterario, cinematografico: quello in cui al cinema Nanà piange vedendo la morte della Giovanna d'Arco di Dreyer) con linguaggi diversi, non uniti da una logica narrativa, ma giustapposti, forse ricombinabili in altro modo: "vivere la propria vita", accettarla com'è, mostrarla nella sua mescolanza di realtà e di finzione (rappresentazione), ma anche aiutarne una comprensione, aprire a un possibile giudizio. Affrontato altrove in modi obliqui, allusivi, episodici, qui il tema della prostituzione diventa centrale. Lo spunto è quello di un'inchiesta giornalistica (Où en est avec la prostitution? di Marcel Sacotte), ma "le domande e le risposte vere vengono da ben più lontano, come rivela la citazione da Montaigne che apre il film: 'Bisogna prestarsi agli altri e donarsi a sé stessi'" (Alberto Farassino). Premio speciale della giuria alla Mostra di Venezia.





martedì 4 dicembre 2018

venerdì 30 novembre 2018

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...questo lembo di prato

 Annunciazione - Giovanni da Fiesole detto Beato Angelico
 
Il prato non sorprende. Ma i suoi confini sono di difficile determinazione. Puoi cominciare da un’immagine. Una delle “immagini interne”. Quelle che si presume tu custodisca nella testa. Un buon residuo di tanti ricordi, ad esempio, traversato da sovrapposizioni, angoli o sfondi, che appartengono invece a sogni. (Ma forse hai solo sogni di praterie, o di sabbia, o di rocce con qualche cespuglio spinoso.) (Forse hai pochissimi ricordi, solo quelli che non hai potuto cancellare, e non sedimentano immagini di prato, ma di pavimenti, piastrelle o marmo o legno. Pavimenti con confini precisi, muri intorno e porte, solitamente chiuse.) Servirebbe un’immagine, prima che ad avvicinarlo sia la parola. Oppure una fotografia, di cui sia facile amputare la sagoma o l’ambiente umani, per ritenere una striscia breve, di sola erba, di erba su erba, un cominciamento di prato. A mediare ancora un personaggio, stavolta una donna se l’altro, il precedente, era uomo. Che ti accompagna ancora a fissare la stessa stampa, tenuta contro la parete da due puntine di metallo. È una riproduzione dell’Annunciazione di Beato Angelico. Lei dice che non guarda mai le due figure umane, l’angelo e la vergine. Dice che non le ha ancora mai guardate, e neppure l’interno della loggia. Dice ogni volta, tenendomi per il polso, che solo l’erba la interessa, “questo lembo di prato, vedi? – mi ripete – come s’infila sotto la palizzata, quante specie di fiori ed erbe tu ci vedi?”. E pretende una risposta, che tu non sai darle, che non vuoi darle, e che lei, comunque, non vorrebbe sentire. È del suo stupore che si tratta, non dell’enumerazione precisa ed erudita delle specie.

Andrea Inglese, Prato n° 18 (olio su tela), 2009

giovedì 29 novembre 2018

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« Essi hanno la scienza, ma la scienza si occupa solo di ciò che è percepibile dai sensi. Il mondo spirituale, la metà superiore dell’esistenza umana viene del tutto respinta, ricacciata con una certa aria di trionfo, persino con odio. […] Il mondo ha proclamato la libertà, soprattutto negli ultimi tempi, ma che cosa vediamo nella loro libertà? Solo schiavitù e autodistruzione! Giacché il mondo dice: “Se hai un’esigenza soddisfala, tu hai gli stessi diritti della gente più nobile e ricca. Non temere di soddisfare le tue esigenze, anzi moltiplicale pure”: ecco l’insegnamento che oggi dà il mondo. In questo essi vedono la libertà. Ma che cosa ingenera questo diritto di moltiplicare le esigenze? Per i ricchi, l’isolamento e il suicidio spirituale, per i poveri invece l’invidia e l’omicidio, giacché coloro che hanno dato loro i diritti non hanno ancora mostrato i mezzi per soddisfare le loro esigenze. Essi sostengono che il mondo si stia unendo sempre di più, che si stia organizzando in una comunità fraterna, dal momento che accorcia le distanze e trasmette i pensieri nell’aria. Ahimè, non credete a questa unione fra gli uomini! Concependo la libertà come moltiplicazione e rapido soddisfacimento dei desideri, gli uomini distorcono la propria natura giacché generano in se stessi molti desideri e abitudini insensati e sciocchi, molte sventatissime fantasie. Vivono solo per invidiarsi l’un l’altro, per lussuria e ostentazione. Fare pranzi, viaggi, possedere carrozze, gradi e servi che li accudiscano – si considerano tutte necessità per le quali vale la pena di sacrificare persino la vita, l’onore, l’amore per il prossimo; e gli uomini sono pronti ad ammazzarsi se non riescono a soddisfare queste necessità. […] Sono riusciti ad accumulare una maggiore quantità di beni materiali, ma la gioia è diminuita. »

 Fëdor Michajlovič Dostoevskij  - I fratelli Karamazov

lunedì 5 novembre 2018