venerdì 14 giugno 2019

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la formica argentina


La formica argentina
(1952)
Italo Calvino

Noi non lo sapevamo, delle
formiche, quando venimmo a
stabilirci qui. Ci sembrava che
saremmo stati bene, il cielo e il
verde erano allegri, forse
esageratamente allegri per i
pensieri che avevamo, io e mia
moglie; come potevamo supporre la
storia delle formiche?
A pensarci bene, zio Augusto
forse ce ne aveva una volta
accennato:
- Laggiù, dovreste vedere, le
formiche... non come qui, le
formiche... - ma era una divagazione
d'un altro discorso, una cosa detta
senza dar importanza, forse a
proposito di formiche viste mentre
stavamo discorrendo, che dico:
formiche? una formica, avremmo
visto, sperduta, una di quelle nostre
formiche grasse (mi sembrano
grasse, ora, le formiche dei miei
paesi), e comunque l'accenno di zio
Augusto non modificava per niente
la descrizione che ci veniva facendo
di questa regione, dove la vita, per
qualche circostanza che lui non
sapeva ben spiegare, era più facile, e
il guadagno, se non assicurato,
almeno probabile, a giudicare dai
tanti, non lui, zio Augusto, che ci
s'erano sistemati.
Perché si fosse trovato bene, qui,
nostro zio, cominciammo a intuirlo
dalla prima sera, vedendo il
chiarore dell'aria dopocena e
comprendendo il piacere di girare
per quelle vie verso la campagna,
sedersi sui muriccioli d'un ponte
come vedemmo fare a certuni, e poi
sempre di più quando trovammo
un'osteria che lui aveva
frequentato, con un orto dietro, e
certi tipi bassotti e anziani come lui,
ma gradassi e urloni, che dicevano
d'essere stati suoi amici, gente
senza mestiere anche loro, io credo,
uomini di fatica ad ore, sebbene
uno dicesse, forse per vanteria,
d'essere orologiaio; e sentimmo che
ricordavano zio Augusto con un
soprannome, ripetuto da tutti e
seguito da lazzi generali, e
notammo il ridere pallido in cui
uscì una donna non più giovane
anche lei, e un po'"pingue, che era
al banco, con una camicetta bianca
traforata. E io e mia moglie
capimmo quanto doveva contare
tutto questo per zio Augusto, avere
un soprannome, delle sere chiare a
canzonarsi per quei ponti, e il
vedere quella camicetta traforata
venirsene d'in cucina, uscirsene
nell'orto, e l'indomani qualche ora a
scaricare sacchi per quel pastificio,
e come là da noi avrebbe sempre
rimpianto questo paese.
Tutte cose che anch'io avrei
potuto apprezzare, fossi stato
giovinetto e senza pensieri, oppure
ben sistemato con tutta la famiglia.
Ma così com'eravamo, col
bambino appena guarito, il lavoro
ancora da trovare, appena potevamo
accorgercene, di queste cose che
erano bastate, a zio Augusto, per
dirsi contento, e forse accorgercene
era già una tristezza, perché in un
paese contento ci sembravamo più
disgraziati ancora. Certe cose
magari da nulla ci preoccupavano
come venissero ad accrescere
d'improvviso le nostre angustie (e
non sapevamo niente delle
formiche, allora) e la signora Mauro
con tutte le raccomandazioni che ci
faceva mostrandoci la casa
aumentava questo nostro senso di
addentrarci in un difficile mare.
Ricordo un lungo discorso che ci
fece sul contatore del gas, e come
stavamo attenti a sentirlo, - Sì,
signora Mauro... Faremo
attenzione, signora Mauro...
Speriamo davvero di no, signora
Mauro... - tanto che neanche
facemmo caso quando lei (ma ora lo
ricordiamo chiaramente) si mise a
muovere gli occhi sul muro come se
leggesse e ci passò la punta delle
dita e poi le mosse a pioggia come
avesse toccato bagnato, o sabbia, o
polvere. Non disse la parola:
"formiche", però, ne siamo certi;
forse perché era naturale che lì ci
fossero le formiche, come c'erano i
muri, il tetto, ma a mia moglie ed a
me è rimasta l'idea che abbia voluto
fino all'ultimo nascondercelo, e che
tutto il suo discorrere e
raccomandare non fosse che un
cercar d'attribuire importanza ad
altre cose per far da schermo a
quella.
Quando la signora Mauro andò
via, portai dentro i materassi, e mia
moglie non ce la faceva a
trasportare il comodino, e mi
chiamava, e poi volle mettersi
subito a pulire la cucina economica
e s'inginocchiò per terra, ma io
dissi: - A quest'ora, cosa vuoi fare?
Ci penseremo domani, adesso
arrangiamoci alla bell'e meglio per
passare la notte -. Il bambino
piagnucolava pieno di sonno, e per
prima cosa bisognava preparargli la
cesta e metterlo a dormire. Da noi
per i bambini s'usa una lunga
canestra, e ce l'eravamo portata fin
qui; la vuotammo della biancheria
di cui l'avevamo riempita e
trovammo un bel posto per
metterla, una mensola, in un punto
non umido e non troppo alto da
terra, se cadesse. Nostro figlio
subito ci s'addormentò e noi due
guardammo la casa (una stanza
divisa in due da un tramezzo;
quattro mura e un tetto) che
s'andava riempiendo di nostri segni.
- Sì, sì, il bianco, certo daremo il
bianco, - risposi a mia moglie
guardando il soffitto e intanto la
spingevo fuori per un gomito.
Voleva ancora andare a guardar
bene il gabinetto, in una piccola
baracca a sinistra, ma io avevo
voglia di farle fare quattro passi nel
terreno; perché la nostra casa era in
un terreno, due grandi aiole o
semenzai incolti con in mezzo un
passaggio, coperto da un'armatura
di ferro, ora nuda, forse per qualche
rampicante seccato, zucca o vite. La
signora Mauro aveva intenzione di
darmi quel terreno da coltivare, per
farci il nostro orto, senza chiedere
nulla d'affitto, dato che era da
tempo abbandonato; oggi però non
ce ne aveva parlato e noi non
avevamo detto niente perché c'era
troppa carne al fuoco. Ora con
questo nostro camminare la prima
sera per il terreno volevamo
convincerci ch'eravamo arrivati a
prendere confidenza e anche, in un
certo senso, possesso di quel luogo;
per la prima volta l'idea d'una
continuità della nostra vita era
possibile, di sere una dopo l'altra,
sempre meno angustiate, a
camminare tra quei semenzai.
Queste cose certo non le dissi a mia
moglie; ma ero ansioso di vedere se
le sentiva anche lei: e di fatto mi
sembrò che quei quattro passi
avessero su di lei l'effetto che
speravo; adesso ragionava
sommessa, con lunghe pause, e ce
ne venivamo a braccetto senza che
lei si rifiutasse a
quest'atteggiamento proprio ad
epoche più agiate.
Così arrivammo al limite, e al di
là della siepe vedemmo il signor
Reginaudo che s'affaccendava con
un soffietto attorno a casa sua.
Io avevo conosciuto il signor
Reginaudo qualche mese prima,
quando ero venuto a combinare con
la signora Mauro per l'alloggio. Ci
avvicinammo per salutarlo e perché
conoscesse mia moglie. - Buona
sera, signor Reginaudo, - gli dissi, -
si ricorda di me? - Ah, sì che lo
riconosco, - disse. - Buona sera! Lei
è il nostro vicino, così? -
Era un signore basso e
occhialuto, in pigiama e col cappello
di paglia.
- Eh, siamo vicini, eh, tra vicini...
- Mia moglie prese a dire delle frasi
sorridenti e appena accennate,
come si usa per cortesia; da tempo
non la sentivo parlare così; non che
mi piacesse, ma ero più contento
che a sentirla lamentarsi.
- Claudia, - chiamò il nostro
vicino, - vieni, ci sono i nuovi
inquilini della casetta Laureri! -
Non avevo mai udito chiamare con
quel nome la nostra nuova casa (il
nome, seppi poi, d'un antico
proprietario), e me ne sentii fatto
un po'"estraneo. Uscì di casa la
signora Reginaudo, un donnone,
asciugandosi le mani nel grembiule;
erano gente alla buona e con noi
furono assai cordiali.
- E cos'è dietro a fare, con quel
soffietto, signor Reginaudo? - gli
chiesi.
- Eh... le formiche... queste
formiche... - lui disse, e rise, come a
non dar importanza.
- Formiche, sì? - ripeté mia
moglie con quel tono distaccato e
cortese che usava con gli estranei,
per fingere attenzione ai loro
discorsi; un tono che con me non
usò mai, a quel che ricordo,
nemmeno quando ci conoscevamo
appena.
Poi ci accomiatammo dai vicini
con molte cerimonie. Ma anche
questa era una cosa che non
riuscivamo a gustare fino in fondo:
d'avere dei vicini, e per di più gente
affabile e cordiale, e poter
discorrere così con gentilezza.
A casa, decidemmo d'andare a
letto subito. - Senti? - disse mia
moglie; tesi l'orecchio e si sentiva
ancora cigolare il soffietto del
signor Reginaudo. Mia moglie andò
al lavandino per un bicchier
d'acqua; - Portane uno anche a me, -
le dissi, e mi toglievo la camicia;
- Ah! - gridò lei, - vieni! - Aveva
visto le formiche sul rubinetto e la
fila che veniva giù per il muro.
Accendemmo la luce, una
lampada sola per due stanze, e le
formiche erano una fila fitta che
traversavano il muro e venivano
dalla cornice della porta e chissà
donde avevano origine. Ora le
nostre mani ne erano coperte e noi
le tenevamo aperte davanti agli
occhi cercando di veder bene
com'erano, queste formiche, e
muovendo continuamente i polsi
per non farcele scendere giù per le
braccia.
Erano formiche minuscole ed
impalpabili che si muovevano senza
posa come spinte dallo stesso
sottile prurito che ci davano. Solo
allora mi venne in mente il nome:
le "formiche argentine", anzi: "la
formica argentina", così dicevano,
certo dovevo averlo già sentito dire
altra volta, che questo era un paese
dove c'era "la formica argentina", e
solo adesso sapevo quale
sensazione si dovesse collegare a
una tale espressione: questo
vellichio fastidioso che si spargeva
in ogni direzione e che non si
riusciva, pur chiudendo le mani a
pugno o stropicciandosi una mano
con l'altra, a fermare del tutto,
perché sempre restava qualche
formichina sbandata che correva via
per il braccio o per i vestiti. A
schiacciarle, le formiche
diventavano puntini neri che
cadevano come sabbia, e sulle dita
restava quell'odorino di formica,
acido e pungente.
- È la formica argentina, sai... -
dissi a mia moglie, - viene
dall'America... -; avevo preso mio
malgrado l'inflessione di quando
volevo insegnarle qualcosa, e me ne
pentii subito perché sapevo che lei
non sopportava questo tono in me e
reagiva bruscamente, forse
comprendendo che io non ero mai,
usandolo, molto sicuro di me
stesso.
Invece parve quasi che non mi
sentisse: era presa dalla furia di
distruggere o disperdere quella fila
di formiche di sul muro, e ci
passava col taglio della mano, e non
otteneva che di farsi venire
formiche addosso e di sparpagliarne
altre intorno, e allora metteva la
mano sotto il rubinetto, provava a
tirare qualche schizzo in su, ma le
formiche continuavano a
camminare sul bagnato e nemmeno
dalle mani, bagnandole, riusciva a
spiccicarsele.
- Ecco che abbiamo le formiche
in casa, ecco! - ripeteva. - Ecco che
c'erano anche prima e non le
abbiamo viste! - come se l'averle
viste prima avesse mutato molto.
Io le dissi: - E là là, per due
formiche! Adesso andiamo a letto e
domani ci pensiamo! - E credetti
bene d'aggiungere: - E là là, per un
po'"di formica argentina! - perché
volevo, chiamandole col nome
preciso che veniva loro dato nel
paese, dare l'idea d'un fatto già
successo e in un certo senso
naturale.
Ma l'aria distesa a cui mia
moglie s'era lasciata andare in quel
giro per il terreno era bell'e
scomparsa: era tornata diffidente
contro tutto e tirata in viso come
suo solito. E l'andare a dormire la
prima volta nella casa nuova non fu
come avrei sperato; a consolarci
non era il sollievo dell'incominciare
un'altra vita, ma il callo del tirare
avanti sempre in mezzo a nuovi
guai. "Tutto per due formiche", era
quello che pensavo io; cioè quello
che pensavo di pensare, poi magari
anche per me era tutto differente.
Era più la stanchezza che
l'agitazione, e si dormì. Ma a metà
notte il bambino pianse, e noi due,
ancora restando a letto (sperando
sempre che a un certo punto
smettesse e si riaddormentasse,
cosa che però mai succedeva), a
chiederci: - Che cosa avrà? Che cosa
avrà? - Da quando era guarito,
aveva smesso di piangere la notte.
- Ha le formiche! - gridò mia
moglie che s'era alzata per cullarlo.
Scesi dal letto anch'io,
buttammo tutta la cesta all'aria, lo
spogliammo nudo, e per vederci a
togliergli quelle formiche, mezzo
ciechi com'eravamo dal sonno,
bisognava metterlo sotto la
lampadina, col filo d'aria che veniva
dalla porta, e mia moglie diceva: -
Ora si raffredda, - ed a cercarlo
addosso, con quella pelle che
diventava rossa appena strofinata,
era una pietà. C'era una fila di
formiche che s'erano messe ad
andare sulla mensola. Guardammo
tutti i lenzuolini finché ne restò
una, e dicevamo: - Dove lo
mettiamo adesso a dormire? - Nel
nostro letto, stretti com'eravamo, ci
finiva schiacciato.
Guardai bene il comò, e non
c'erano arrivate formiche; allora lo
scostai dal muro, apersi un cassetto
e lì preparai da dormire per il
bimbo. Quando ce lo mettemmo era
già addormentato. Noi non avevamo
che da buttarci sul letto e il sonno ci
avrebbe subito ripreso, ma mia
moglie volle guardare nelle
provviste.
- Vieni qui, vieni qui! Dio! C'è
pieno! È tutto nero! Aiuto! -
Cosa si poteva fare? La presi per
le spalle: - Vieni che ci pensiamo
domani, ora neanche ci si vede,
domani sistemiamo tutto, mettiamo
in salvo ogni cosa, vieni a letto!
- Ma le provviste? Si rovinano!
- Al diavolo anche quelle! Cosa
vuoi farci, adesso? Domani
distruggiamo il formicaio, stà
tranquilla...
Ma a letto non ci riusciva più
d'aver pace, con l'idea di quelle
bestie dappertutto, nei cibi, nella
roba; forse ora stavano risalendo
dal pavimento per i piedi del comò
fino al bambino...
Ci addormentammo che
cantavano già i galli; e non passò
molto che ricominciammo a
muoverci e a grattarci perché
avevamo l'idea di avere formiche in
letto; forse salite fin là, forse
rimasteci addosso dopo quel gran
maneggiare che ne avevamo fatto. E
così nemmeno quelle prime ore di
mattino ci furono di ristoro, e ci
alzammo presto, incalzati dal
pensiero delle cose che dovevamo
fare ed anche del fastidio di dover
subito cominciare a batterci con
quello struggente, impercettibile
nemico che s'era impadronito della
nostra casa.
La prima cosa, per mia moglie,
fu badare al bambino: vedere se
quelle bestie l'avessero morso (per
fortuna non pareva), vestirlo, fargli
da mangiare, tutto questo
muovendosi nella casa informicata.
Io sapevo la forza che doveva
fare a se stessa per non gettare un
grido ogni volta, a vedere, per
esempio, sulle tazze lasciate
sull'acquaio, le formiche torno
torno all'orlo, e sul bavaglino del
bambino, e sulla frutta. Gridò però
scoprendo il latte: - È nero! - C'era
un velo di formiche annegate o
nuotanti. - È tutto in superficie, -
dissi, - si toglie con un cucchiaino -.
Ma poi ci sembrò che ne tenesse il
sapore e non lo gustammo.
Io seguivo le file delle formiche
sui muri per vedere donde
venivano.
Mia moglie si pettinava e vestiva
con piccoli scatti d'ira subito
repressi. - Non potremo mettere a
posto i mobili finché non avremo
cacciato le formiche! - diceva.
- Calma. Vedrai che s'aggiusta
tutto. Ora vado dal signor
Reginaudo che ha quella polvere e
gliene chiedo un po'. Diamo la
polvere all'imbocco del formicaio,
ho già visto dov'è, e subito ce ne
liberiamo.
Però, aspettiamo che sia un
po'"più tardi perché forse a
quest'ora dai signori Reginaudo
disturbiamo.
Mia moglie si tranquillizzò un
poco, ma non io: d'aver visto
l'imbocco del formicaio gliel'avevo
detto per consolazione, ma più
guardavo e più scoprivo nuove
direzioni nelle quali le formiche
andavano e venivano, e come la
nostra casa, in apparenza liscia ed
omogenea come un dado, fosse
invece porosa e tutta solcata da
fessure e crepe.
Mi confortai a farmi sulla soglia
e a guardare le piante col sole che
gli veniva allora addosso, e la
sterpaglia che infestava il terreno
mi parve rallegrante alla vista,
perché metteva voglia di buttarsi a
lavorare: pulire tutto per bene,
zappare e cominciare le semine ed i
trapianti. - Vieni, - dissi al figlio, -
che qui muffisci, - lo presi in
braccio ed andai nel "giardino",
anzi, per il piacere di cominciare
un'abitudine a chiamare così il
pezzo di terreno, dissi a mia moglie:
- Porto il bambino un momento
nel giardino, - e poi corressi: - In
giardino, - perché mi sembrava più
possessivo e familiare.
Il bambino al sole era allegro, e
io gli dicevo: - Questo è un carrubo,
questo è un albero di cachi, - e lo
alzavo fino ai rami: - Adesso papà ti
insegna ad arrampicarti -. Scoppiò a
piangere. - Cos'è?
Hai paura? - ma vidi le
formiche; quell'albero gommoso
n'era tutto ricoperto. Ritirai subito
il bambino. - Uh, quante
formichine... - gli dicevo, ma ero
preoccupato. Seguii le file delle
formiche giù per il tronco, e
m'accorsi che quel brulicare
silenzioso e quasi invisibile
continuava per terra, in tutte le
direzioni, tra l'erbaccia. Pensavo:
come potremo cacciare mai le
formiche di casa? Su questo
appezzamento di terra - che ieri
m'era sembrato tanto piccolo, ma
ora guardandolo in rapporto alle
formiche m'appariva grandissimo, -
si stendeva un velo ininterrotto di
quegli insetti, scaturiti certo da
migliaia di formicai sotterranei, e
nutriti dalla natura appiccicosa e
mielosa del suolo e della bassa
vegetazione; e dovunque guardassi -
per quanto a una prima occhiata
non m'apparisse nulla, e già ne
provassi sollievo -, poi aguzzando lo
sguardo scorgevo una formica
avvicinarsi e scoprivo che faceva
parte d'un lungo corteo e che
s'incontrava con altre, spesso
reggendo briciole o frammenti di
materia minuscoli ma pur sempre
più grossi di loro, e in certi punti,
dove - pensavo - s'era aggrumato
qualche succo di pianta o qualche
resto animale, c'era una corona di
formiche assiepate, quasi saldate
assieme come l'escara d'una piccola
ferita.
Tornai da mia moglie col
bambino in collo, quasi correndo,
sentendo le formiche montarmi su
per i piedi. E lei: - Ecco, hai fatto
piangere il bambino. Cos'ha?
- Niente, niente, - dissi, in fretta,
- ha visto due formiche su un
albero, ed è ancora sotto
l'impressione di stanotte, e gli pare
di sentirsi addosso il prurito.
- Oh, che croce, anche questa! -
mia moglie fece. Stava seguendo un
passaggio di formiche sulla parete, e
cercava di ucciderle premendo i
polpastrelli addosso a ognuna. Io
vedevo ancora i milioni di formiche
da cui eravamo circondati in quel
terreno che mi pareva ora
smisurato, e mi venne da inveirle
contro: - Che fai? Sei pazza?
Non riuscirai a nulla, così!
Lei ebbe uno scatto di rabbia: -
Ma lo zio Augusto! Lo zio Augusto
che non ci ha detto niente! E noi
come due stupidi! A dargli retta, a
quel bugiardo! - Invece, cosa
avrebbe potuto dirci, lo zio
Augusto? La parola "formiche", per
noi, allora, non poteva affatto
esprimere lo sgomento di fronte a
questa nostra condizione. Se lui ci
avesse parlato di formiche, come
forse - non posso escluderlo - una
volta aveva fatto, noi avremmo
pensato di trovarci contro un
nemico concreto, numerabile, con
un corpo, un peso. Davvero, se ora
mi facevo tornare in mente le
formiche dei paesi donde
provenivamo, le vedevo come bestie
ragguardevoli, creature di quelle
che si possono toccare, smuovere,
come i gatti, i conigli. Qui avevamo
di fronte un nemico come la nebbia
o la sabbia, contro cui la forza non
vale.
Il nostro vicino, il signor
Reginaudo, era in cucina che
travasava un liquido con un imbuto.
Io l'avevo chiamato da fuori e poi
ero arrivato alla portafinestra della
cucina tutto trafelato. - Oh, il nostro
vicino! - esclamò Reginaudo, -
s'accomodi, signore, s'accomodi!
Scusi me sempre qui con questi
intrugli! Claudia, una sedia per il
nostro vicino!
Io gli dissi subito: - Sono venuto,
scusi il disturbo, ma sa, avevo visto
che lei ha di quella polvere, noi
tutta stanotte, le formiche...
- Ah, ah, ah! Le formiche! -
scoppiò a ridere la signora
Reginaudo entrando, e il marito,
con un piccolo ritardo, mi sembrò,
ma con foga più rumorosa, le fece
eco: - Ah, ah, ah! Le formiche anche
loro! Ah, ah, ah!
Mio malgrado atteggiai la bocca
ad un modesto sorriso, come fossi
compreso della comicità della mia
situazione, ma non potessi farci
nulla: cosa che appunto
corrispondeva alla verità, tanto da
essere venuto a trovarlo per
domandare aiuto.
- A chi lo dice, le formiche, caro
vicino! - esclamava alzando le mani
il signor Reginaudo.
- A chi lo dice mai, signor vicino,
a chi lo dice! - faceva eco sua moglie
giungendo le mani al petto, ma
sempre, come il marito, ridendo.
- Perché, loro, mi sembrava, non
ci avrebbero un rimedio? - chiesi, e
il tremito della mia voce forse
poteva esser preso per voglia di
ridere, e non per la disperazione che
mi sentivo venire addosso.
- Un rimedio, ah, ah, ah! -
ridevano a più non posso i coniugi
Reginaudo. - Se abbiamo un
rimedio? Ma venti, cento rimedi,
abbiamo!
E uno, ah, ah, ah, uno meglio
dell'altro!
M'avevano condotto in un'altra
stanza, dove decine di barattoli di
cartone e di latta dalle etichette
sgargianti erano posati sui mobili.
- Vuole il Profosfàn? Vuole il
Mirminèc? Oppure il Tiobroflit?
L'Arsopàn in polvere o in
miscela? - E si passavano di mano
spruzzatori a stantuffo, pennelli,
soffietti, alzavano nuvole di polveri
giallastre e di goccioline
minutissime, e un miscuglio d'odori
da farmacia e da consorzio agrario,
sempre ridendo sgangheratamente.
- E c'è qualcosa che serve
davvero? - chiesi.
Smisero di ridere. - No, niente, -
risposero.
Il signor Reginaudo mi batté
una mano sulla spalla, la signora
aperse le persiane ed entrò il sole.
Poi mi condussero a fare il giro
della loro casa.
Lui portava i calzoni del pigiama
a righe rosa annodati sulla piccola
pancia obesa, la canottiera, e il
cappello di paglia sulla testa calva.
Lei aveva una vestaglia stinta, che
scopriva ogni tanto le spalline della
sottoveste; i capelli, attorno al largo
viso rosso, erano biondi, stopposi e
arricciati senza cura. Erano
rumorosi ed espansivi; ogni angolo
della loro casa aveva una storia, e
loro me la raccontavano, rubandosi
le frasi l'un l'altro, e facendo i gesti,
le esclamazioni, come ogni episodio
fosse stato una gran farsa. In un
punto avevano dato l'Arfanàx al due
per mille e le formiche erano state
lontane per due giorni ma al terzo
erano tornate, e allora lui aveva
concentrato la miscela al dieci per
mille, ma le formiche invece di
passare di lì facevano il giro dal
cornicione; in un altro punto
avevano isolato uno spigolo con la
polvere di Crisotàn ma il vento la
portava via e ce ne vollero tre chili
al giorno; su uno scalino avevano
provato il Petrocìd che sembrava le
uccidesse sul colpo e invece le
addormentava solamente; in un
angolo avevano dato il Formikìll e
le formiche continuavano a passare
ma al mattino avevano trovato un
topo avvelenato; in un punto dove
lui aveva dato lo Zimofòsf, liquido
che costituiva uno sbarramento
sicuro, la moglie ci aveva messo
sopra Pltalmàc in polvere che faceva
da antidoto e ne aveva annullato
l'effetto.
I nostri vicini usavano casa e
giardino come un campo di
battaglia, e la loro passione era
tracciare linee oltre le quali le
formiche non dovevano passare, e
scoprire i nuovi giri che esse
facevano, e provare nuovi intrugli e
nuove polveri, ognuno collegato nel
ricordo a episodi già capitati, a buffe
combinazioni, cosicché bastava loro
pronunciare un nome: "Arsepìt!
Mirxidòl!" per scoppiare a ridere,
ammiccando e gettandosi frasi
allusive. A uccidere le formiche
pareva - se mai avevano tentato -
che avessero ormai rinunciato, visto
che i tentativi erano inutili:
cercavano solo di sbarrar loro certi
passaggi, di deviarle, di spaventarle
o di tenerle a bada: era un labirinto
sempre nuovo e tracciato con
disegni di sostanze diverse che essi
preparavano giorno per giorno, un
gioco in cui le formiche erano un
elemento necessario.
- Non c'è altro da fare con queste
bestie, non c'è altro da fare, -
dicevano, - a meno di fare come il
capitano...
- Eh, certo, noi spendiamo molti
quattrini, - dicevano, - in questi
insetticidi... Quello del capitano, si
capisce, è un sistema più
economico...
- Naturalmente noi la formica
argentina non possiamo ancora dire
d'averla vinta, - dissero anche, - ma
pure il capitano, lei crede che sia
sulla strada buona? Ci ho i miei
dubbi...
- Ma chi è, scusino, il capitano? -
chiesi.
- Il capitano Brauni: non lo
conosce? Ah, lei è qui solo da ieri!
È il nostro vicino lì a destra, in
quella villetta bianca... È un
inventore... - e risero, - ha inventato
un sistema per sterminare la
formica argentina... Anzi, molti
sistemi. E li perfeziona di continuo.
Lo vada a trovare.
Pingui e sornioni, in quei pochi
metri quadrati del loro giardinetto,
tutto imbrattato di striature e
schizzi d'oscuri liquidi, impolverato
di farine verdognole, ingombro di
innaffiatoi, solforatrici, vaschette di
cemento dove si stemperavano
preparati color indaco, e, nelle
disordinate aiole, qualche rara
pianta di rose ad alberetto ricoperta
d'insetticidi dalla punta delle foglie
alle radici, i coniugi Reginaudo
alzavano gli occhi al cielo limpido,
soddisfatti e divertiti. A parlare con
loro, io m'ero, volere o no, un
po'"rinfrancato: in fondo, non che le
formiche fossero una cosa da ridere
come loro mostravano d'intendere,
ma non potevano essere neppure
una cosa tanto grave, una cosa da
perdercisi d'animo.
"Eh, le formiche! - ora pensavo. -
Ma che formiche? E che male ci fa
un po'"di formiche?"
Ora certo sarei andato da mia
moglie e l'avrei presa un po'"in giro:
"Chissà cosa ti sei vista, tu, con
queste formiche..."
Un discorso su questo tono mi
preparavo in mente mentre
ritornavo attraversando il nostro
pezzo di terreno con le braccia
ingombre di cartocci e barattoli
datimi in prova dai vicini - scelti,
secondo il mio desiderio, tra quelli
che non contenevano sostanze
nocive al bambino che metteva in
bocca tutto. Ma quando vidi, fuori
di casa, col bambino in collo, mia
moglie cogli occhi vitrei e le fosse
alle guance, e compresi la battaglia
che doveva aver combattuto e la sua
scoperta della quantità infinita di
formiche che ci circondavano, e il
suo essersi arresa, mi passò ogni
voglia di sorridere e scherzare.
- Finalmente ritorni... - mi disse,
e il tono blando mi colpì più
dolorosamente ancora dell'accento
adirato che mi sarei atteso.
- Qui non sapevo più... tu
vedessi... non sapevo proprio più...
- Ecco, ora proviamo con questo,
- le dissi, - e con questo, e poi con
questo... - e disponevo i miei
barattoli su di un ripiano davanti
alla casa, e subito cominciai a
spiegarle come andavano usati, in
fretta in fretta, quasi avessi paura di
vedere accendersi nei suoi occhi
troppa speranza perché non mi
sentivo d'illuderla né di disilluderla.
Adesso avevo un'altra idea in
capo, volevo andare subito a cercare
di quel capitano Brauni.
- Fà come t'ho detto; torno
subito.
- Vai via di nuovo? Dove vai?
- Da un altro vicino. Ha un
sistema. Ora vedo.
E corsi via verso la rete metallica
coperta d'un fitto rampicante, che
cintava a destra il nostro terreno. Il
sole era dietro una nuvola.
M'affacciai alla rete e vidi la
villetta bianca circondata da un
piccolo, ordinato giardino, con
vialetti di ghiaia grigia che giravano
intorno a tonde aiole dal basso
bordo di ferro battuto verniciato di
verde come nei giardini pubblici, e
in mezzo ad ogni aiola un nero
alberetto di mandarino o di limone.
Tutto era silenzioso, ombroso e
immobile. Stavo per allontanarmi
incerto, quando vidi sporgersi da
una ben potata siepe una testa
coperta da un cappello da spiaggia
di tela bianca, sformato, a tese tirate
giù che finivano in un orlo
ondulato, sopra di un paio d'occhiali
montati in acciaio, un naso
cartilaginoso e, sotto ancora, un
sorriso tagliente, lampeggiante di
denti falsi, pur essi d'acciaio. Era un
uomo magro e asciutto, in pullover,
con i calzoni stretti alla caviglia da
molle di quelle per andare in
bicicletta, e ai piedi sandali.
S'avvicinò a osservare sul tronco
d'uno degli alberi di mandarino,
silenzioso e circospetto, senza
smettere quel teso sorriso. Io
affacciato dietro alla spalliera di
rampicante dissi: - Buongiorno,
capitano -.
L'uomo alzò la testa di scatto, e
non aveva più il sorriso, ma solo un
freddo sguardo.
- Lei è il capitano Brauni, scusi?
- io gli chiesi.
L'uomo accennò di sì. - Io, sa?
sono il nuovo vicino, affitto la
casetta Laureri... Volevo
incomodarla un momento perché
ho sentito dire del sistema...
Il capitano alzò un dito, fece
segno che m'avvicinassi; io, con un
salto dove la rete metallica era
sfiancata, passai di là. Il capitano
continuava a tener alto quel dito e
con l'altra mano indicava il punto
che stava osservando. Vidi che
dall'albero sporgeva un corto fil di
ferro perpendicolare al tronco. Il fil
di ferro reggeva all'estremità un
pezzo - mi pareva - di resca di pesce
ed a metà strada faceva una gobba
ad angolo acuto verso il basso. Sul
tronco e sul fil di ferro c'era un va e
vieni di formiche. Sotto al vertice
del fil di ferro era sospeso un
vasetto come quelli dell'estratto di
carne.
- Le formiche, - spiegò il
capitano, - attirate dall'odore di
pesce, percorrono il pezzo di fil di
ferro; come vede, vanno benissimo
avanti e indietro e non c'è caso che
si scontrino. Ma c'è il passaggio a V
che è pericoloso; quando una
formica che va e una che torna
s'incontrano sul vertice del V, si
fermano, e allora l'odore del
petrolio che è in questo vasetto le
stordisce, fanno per continuare la
loro strada ma s'investono, cadono,
e muoiono nel petrolio. Tic, tic -.
Questo "tic, tic" aveva
accompagnato la caduta di due
formiche.
- Tic tic, tic tic, tic tic, -
continuava a dire il capitano, con
quel suo immobile sorriso d'acciaio,
e ogni "tic" accompagnava la caduta
d'una formica nel vasetto, dove su
due dita di petrolio nereggiava un
velo di corpi d'insetto informi ed
aggrumati.
- Una media di quaranta
formiche uccise al minuto, - disse il
capitano Brauni, -
duemilaquattrocento all'ora.
Naturalmente bisogna tener pulito
il petrolio, se no i morti lo coprono
e quelli che cadono dopo possono
salvarsi.
Io non sapevo staccare gli occhi
da quell'esile, rado ma continuo
stillicidio: molte formiche
superavano il punto pericoloso e
tornavano trascinando coi denti
frammenti di resca, ma ce n'era
sempre qualcuna che in quel punto
si fermava, sbatteva le antenne e
piombava giù. Il capitano Brauni,
con lo sguardo fisso dietro le lenti,
non perdeva il minimo movimento
degli insetti, e ad ogni caduta aveva
un piccolo irrefrenabile sussulto, e
gli angoli tesi della sua bocca quasi
senza labbra palpitavano. Spesso
non riusciva a trattenersi dal
metterci le mani, ora per correggere
l'angolazione del fil di ferro, ora per
scuotere il petrolio del vasetto e per
disporre i grumi di formiche morte
intorno alle pareti, ora addirittura
per imprimere al congegno una
piccola scossa che accelerasse la
caduta delle vittime.
Ma quest'ultimo gesto doveva
sembrargli quasi una infrazione alle
regole, perché subito ritraeva la
mano e mi guardava con l'aria di
doversi giustificare.
- Questo è un modello più
perfezionato, - disse, conducendomi
a un altro albero, da cui sporgeva un
fil di ferro munito, sul vertice a V,
d'una setola annodata; le formiche
credevano di salvarsi sulla setola,
ma l'odore del petrolio e
l'improvvisa esiguità del sostegno le
confondevano al punto da farle
precipitare senza scampo.
L'espediente della setola o del crine
di cavallo era applicato a molte altre
trappole che il capitano mi
mostrava: il grosso filo di ferro, a
un certo punto finiva in un esile
crine e le formiche, disorientate dal
cambiamento, perdevano
l'equilibrio; e perfino era stato
architettato un trabocchetto in cui
all'esca s'accedeva per un finto
passaggio, costituito da un crine
spezzato a metà, che sotto il peso
della formica s'apriva e la lasciava
cadere nel petrolio. In quel giardino
silenzioso e ordinato, a ogni albero,
a ogni tubatura, a ogni colonna di
balaustra erano applicati con
precisione metodica quei supporti
di fil di ferro, con la loro scodellina
di petrolio sotto; e le rose ad
alberetto ben potate, le spalliere di
rampicanti, sembravano soltanto
un'attenta mascheratura di quella
parata di supplizi.
- Aglaura! - gridò il capitano
avvicinandosi alla porta di servizio,
e a me disse: - Ora le farò vedere la
caccia degli ultimi giorni.
Dalla porta uscì una donna secca
e pallida, una spilungona con gli
occhi spauriti e malevoli, e un
fazzoletto in capo, annodato sopra
la fronte. - Fà vedere i sacchi al
nostro vicino, - disse Brauni, e io
intuii che doveva essere non una
domestica, ma la moglie del
capitano, e la salutai con un cenno
del capo e un mormorio, ma lei non
mi rispose. Rientrò e riuscì
trascinando un sacco pesante per
terra, con le braccia tutte tendini
che dimostravano una forza
superiore a quella che le avevo
attribuito al primo sguardo. Dalla
porta socchiusa si vedeva in casa un
cumulo di sacchi simili a questo; la
donna, sempre senza dir nulla, era
scomparsa.
Il capitano allargò la bocca del
sacco, e dentro sembrava ci fosse
terriccio o concime chimico, ma lui
ci ficcò il braccio e tirò su una
manciata come di posa di caffè e la
fece colare nell'altra mano; erano
formiche morte, una soffice sabbia
nerorossiccia di formiche morte
tutte raggomitolate, ridotte a
granelli in cui non si distingueva
più né il capo né le zampe.
Mandavano quell'odore acido,
pungente.
In casa ce n'erano quintali, una
piramide di sacchi come questo,
pieni.
- È formidabile... - dissi, - le
sterminerete tutte, così...
- No, - disse tranquillamente il
capitano, - uccidere le formiche
operaie non serve a niente. Ci sono
formicai dappertutto con formiche
regine che ne fanno nascere milioni
d'altre.
- E allora?
Mi accosciai accanto al sacco; lui
era seduto sul gradino più in basso
di me, e per parlarmi alzava il viso;
l'informe tesa del cappello bianco
gli copriva tutta la fronte e parte
degli occhiali rotondi.
- Bisogna affamare le regine. Se
si riduce al minimo il numero delle
operaie che approvvigionano il
formicaio, le regine resteranno
senza cibo. E le dico che un giorno
vedremo le regine uscire dal
formicaio in piena estate, e
trascinarsi a cercare il cibo con le
proprie zampe... Sarà la fine per
tutte, allora...
Chiuse con furia la bocca del
sacco e s'alzò. Anch'io mi alzai.
- Invece, c'è chi crede di
risolvere qualcosa, facendole
scappare, - e lanciò un'occhiata
verso il villino dei Reginaudo
scoprendo i denti d'acciaio in un
riso di scherno, -...e c'è chi
preferisce ingrassarle...
È un sistema anche quello, no?
Io non avevo capito la seconda
allusione.
- Chi? - chiesi. - Perché le
vogliono ingrassare?
- Non è venuto da lei l'uomo
della formica?
Di che uomo parlava? - Non so, -
dissi, - non credo...
- Verrà anche da lei, stia
tranquillo. Passa al giovedì, di
solito, quindi se non è venuto
stamattina, verrà nel pomeriggio. A
dare il ricostituente alle formiche,
ah, ah!
Sorrisi per compiacerlo, ma non
mi sentivo più di seguire nuove
piste. Proprio perché ero venuto da
lui apposta, dissi: - Certo un
sistema migliore del suo è
impossibile... Lei crede che anche a
casa mia potrei provare?...
- Deve dirmi quale modello
preferisce, - fece Brauni e mi
ricondusse per il giardino a
mostrarmi altre sue invenzioni che
non conoscevo ancora. Io non
riuscivo ad abituarmi al pensiero
che per compiere un'operazione
così semplice come schiacciare una
formica si dovesse impegnare tanta
arte e costanza, ma capivo che
l'importante era farlo con metodo,
incessantemente, ed allora mi
sentivo scoraggiato, perché mi
pareva che nessuno avrebbe potuto
eguagliare il terribile accanimento
di questo nostro vicino.
- Forse per noi andrebbe meglio
qualcuno dei modelli più semplici, -
dissi, e Brauni emise uno sbuffo dal
naso, non so se d'approvazione o di
compatimento per la modestia delle
mie ambizioni.
- Ci penserò un po'"su, - disse, -
le farò qualche schizzo.
Così non mi restava che
ringraziarlo e congedarmi. Risaltai
la siepe; non mi pareva vero di non
sentirmi più crocchiare quel ghiaino
sotto i piedi; casa mia, pur infestata
com'era, la sentivo per la prima
volta casa mia davvero, un posto
dove si torna dicendo: finalmente.
A casa c'era il bambino che
aveva mangiato gli insetticidi e mia
moglie disperata.
- Non aver paura, non sono
velenosi! - le dissi subito.
Velenosi no, ma buoni da
mangiare non erano neppure:
nostro figlio gridava dal dolore.
Bisognò farlo vomitare; vomitò in
cucina che si riempì di nuovo di
formiche, e mia moglie aveva
appena fatto pulizìa. Pulimmo in
terra, calmammo il bambino, lo
mettemmo a dormire nella cesta
isolandola bene tutt'intorno con
strisce di polvere insettifuga, e
coprendola con una zanzariera
legata intorno, perché svegliandosi
non s'alzasse a mangiare altra
robaccia.
Mia moglie aveva fatto la spesa,
ma non era riuscita a salvare la
sporta dalle formiche, e così
bisognò prima lavare ogni cosa,
anche le sardine sott'olio, il
formaggio, e staccare una ad una le
formiche appiccicate. Io l'aiutai,
spaccai la legna, misi a posto la
cucina economica, il tiraggio del
camino, e lei puliva la verdura. Ma
non c'era verso di star fermi in un
posto; ogni minuto o lei o io
saltavamo su, e - Ahi che mi punge!
- dovevamo grattarci e sformicarci o
mettere le braccia e le gambe sotto
il rubinetto. Non sapevamo dove
apparecchiare: in casa avremmo
attirato altre formiche, fuori ci
saremmo subito riempiti noi
addosso. Mangiammo in piedi,
muovendoci, e tutto sapeva ancora
di formica, un po'"per quelle
rimaste nei cibi, un po'"perché
avevamo le mani impregnate di
quell'odore.
Dopo mangiato girai per il
terreno, fumando una sigaretta.
Dalla parte dei Reginaudo veniva un
tintinnio di posate: m'affacciai e li
vidi ancora a tavola, sotto un
ombrellone, lustri e calmi, con
tovaglioli a quadri annodati intorno
al collo, che gustavano un budino di
crema e bicchierini d'un vinetto
chiaro. Diedi il buon appetito e
m'invitarono a gradire. Ma io
vedevo intorno al desco i sacchi ed i
bidoni degli insettifughi, e ogni cosa
ricoperta da veli di ciprie gialle o
biancastre e striature bituminose, e
alle narici m'arrivavano solo quegli
odori di sostanze chimiche. Dissi
che ringraziavo ma che non mi
tornava più appetito, ed era vero. La
radio dei Reginaudo suonava,
tenuta bassa, e loro canticchiavano
in falsetto fingendo di farsi un
brindisi.
Dalla scaletta dov'ero salito per
salutarli, vedevo anche un pezzo del
giardino di Brauni; il capitano
doveva aver già finito di mangiare:
usciva di casa col piattino e la tazza
del caffè, sorseggiando, e gettava
intorno occhiate; certo per vedere
se tutti i suoi tormenti erano in
azione e l'agonia delle formiche
continuava con la regolarità
consueta. Sospesa tra due alberi vidi
un'amaca bianca e compresi che
doveva esservi sdraiata quell'ossuta
e sgradevole signora Aglaura, ma se
ne vedeva solo un polso e la mano
che agitava un ventaglio a stecche.
Le corde dell'amaca erano sospese
ad un sistema di strani anelli, che
dovevano certo costituire in qualche
modo una difesa dalle formiche; o
forse l'amaca non era altro che una
nuova trappola per formiche, con la
moglie del capitano messa lì per
esca. Non volli parlare coi Reginaudo
della mia visita al villino Brauni,
perché già sapevo che l'avrebbero
commentata con la sufficienza
ironica ch'era solita ai nostri vicini
nei reciproci confronti. Volsi lo
sguardo al giardino della signora
Mauro, alto sopra di noi, e alla sua
villa là in cima, sormontata dal
girevole gallo marcavento.
- Chissà se anche la signora
Mauro avrà formiche lassù... - dissi.
Si vede che i signori Reginaudo
durante i pasti avevano un'allegria
più sommessa, fatta di risatine
chete chete, perché si limitarono a
dire: - Eh, eh, eh... ne avrà anche
lei... Eh, eh, eh... ne avrà anche lei...
Ne avrà sì, ne avrà bene...
Mia moglie mi chiamò a casa,
perché voleva mettere il materasso
sul tavolo e sdraiarsi a dormire un
poco. Col pagliericcio per terra
come eravamo, non si poteva
impedire alle formiche di salirci,
invece al tavolo bastava isolare i
quattro piedi e per un po'"le
formiche non sarebbero venute. Lei
si mise a riposare, io uscii, con
l'idea di cercare certe persone che
forse sapevano dirmi d'un lavoro,
ma in realtà perché avevo voglia di
muovermi e di cambiare corso ai
miei pensieri.
Ma per strada, già i posti mi
sembravano diversi da ieri: in ogni
orto, in ogni casa indovinavo le file
di formiche che salivano sui muri,
che coprivano gli alberi da frutto,
che muovevano le antenne verso
ogni cosa zuccherosa o grassa; e il
mio occhio ormai sull'avviso
scopriva subito le masserizie messe
fuor di casa a sbattere perché le
formiche le avevano invase, e il
soffietto dell'insettifugo in mano a
una vecchia, e il piattino di veleno,
e, aguzzando gli occhi, la fila che
camminava, imperturbabile, lungo
il cornicione.
Pure, questo restava il paese
ideale dello zio Augusto: cosa
potevano fargli le formiche, a lui?
Scaricava sacchi ora per un padrone
ora per l'altro, mangiava sulle
panche delle osterie, girava alla sera
dove c'era allegria e fisarmoniche,
dormiva dove càpita, dove c'era
fresco e morbido.
Andando, provavo a pensare
d'essere zio Augusto, a muovermi
come si sarebbe mosso lui, in un
pomeriggio così, per queste strade.
Certo, essere come zio Augusto
voleva dire prima di tutto esserlo di
fisico: cioè basso e tracagnotto, con
braccia un po'"da scimmia che
s'aprivano in gesti sempre
sproporzionati e restavano a
mezz'aria, gambe corte che
sbagliavano il passo per voltarsi a
guardare una donna, e una vocetta
che, quando s'eccitava parlando,
attaccava a ripetere furiosamente
l'interiezione sporca del dialetto di
qui, stonandola col suo accento
d'altra regione. In lui corpo e animo
erano tutt'uno; e avrei voluto
vedermici, colla mia pesantezza e i
miei pensieri per il capo, a fare le
mosse e le uscite di zio Augusto. Ma
potevo sempre fingermi lui
mentalmente: esclamare dentro di
me: "Dì: la dormita che vado a
schiacciarmi in quel fienile! Dì: la
panciata di sanguinacci e vinetta
che vado a farmi all'osteria!"; ai
gatti che vedevo, immaginarmi di
fargli una finta carezza e poi
gridargli:
"Auuh!" per farli scappare
spaventati; e alle serve: "Eh, eh,
vuole che ci venga ad aiutarla,
signorina?" Ma non era un bel
gioco: più mi rendevo conto di
com'era facile per zio Augusto
vivere qui, più m'accorgevo che lui
era un tipo diverso, e non avrebbe
mai sopportato i miei pensieri: una
casa da metter su, un lavoro
continuato da trovare, un bambino
mezzo malato, e una moglie che
non ride, e il letto e la cucina pieni
di formiche.
Entrai in quell'osteria
dov'eravamo di già stati, e chiesi
alla donna dalla camicetta bianca se
non erano venuti quegli uomini con
cui avevo parlato ieri. Faceva ombra
e fresco; forse non era un posto da
formiche, quello; mi sedetti ad
attendere quei tali, come mi
consigliò lei, e le chiesi, facendo lo
spigliato: - Ma non ne avete voi qui,
formiche?
Lei passava uno strofinaccio sul
banco: - Qui si va e si viene,
nessuno se n'è mai accorto.
- Ma lei che vive sempre qui?
Alzò le spalle: - Grossa come
sono, devo aver paura delle
formiche?
A me quest'aria di nascondere le
formiche come fossero una
vergogna m'irritava sempre di più, e
insistetti: - Ma non ne mette, di
veleno?
- Il veleno migliore per la
formica, - disse uno seduto a un
altro tavolo, che, m'accorsi, era uno
di quegli amici di zio Augusto con
cui avevo parlato la sera prima, - è
questo qui, - e alzò il bicchiere e lo
bevve d'un fiato.
Vennero anche gli altri e vollero
che bevessi con loro visto che
indicazioni di lavoro non avevano
saputo trovarmene. Si capitò a
parlare ancora di zio Augusto e uno
domandò: - E cosa fa laggiù, la gran
Lingera? - "Lingera" è una parola di
qui per dire vagabondo e
scampaforche, e tutti mostrarono
d'approvare molto quella
definizione e di tenere mio zio in
gran conto appunto come "lingera".
Io ero un po'"confuso di questa
fama attribuita ad un uomo che
sapevo in fondo riguardoso e
modesto, pur nel suo modo di vita
scombinato. Ma forse questo faceva
parte dell'atteggiamento di vanteria,
d'esagerazione, comune a questa
gente, e mi venne un'idea confusa
che ciò si collegasse alle formiche,
che fingersi intorno tutto un mondo
movimentato e avventuroso fosse
una maniera d'isolarsi dai fastidi
più minuti. L'ostacolo per me a
entrare in quella mentalità, -
pensavo ritornando a casa, - era mia
moglie, sempre nemica delle cose
fantastiche. E pensavo pure a
quanto essa avesse inciso nella mia
vita, così che ormai io non riuscivo
più a ubriacarmi di parole e
pensieri, perché mi veniva subito in
mente il suo viso, il suo sguardo, la
sua presenza, che pure m'era cara e
necessaria.
Mi venne incontro fuori
dell'uscio, mia moglie, con l'aria un
po' allarmata, e disse: - Senti, c'è un
geometra.
Io che avevo nell'orecchio
ancora il piglio di superiorità di quei
gradassi in osteria, dissi quasi senza
dare ascolto: - Eh, un geometra,
adesso, per un geometra...
E lei: - C'è venuto un geometra
in casa, a prendere misure...
Io non capivo ed entrai. - Oh, ma
che dici? È il capitano!
Era il capitano Brauni che con
un giallo metro snodabile pigliava
misure per impiantare in casa
nostra le sue trappole. Gli presentai
mia moglie e lo ringraziai per la
premura.
- Volevo dare un'occhiata alle
possibilità dell'ambiente, - disse.
- Tutto va fatto con criteri
matematici, - e misurò anche la
cesta dove dormiva il bambino, e lo
svegliò. Il piccolo si spaventò del
metro giallo spianato sopra di lui e
cominciò a piangere. Mia moglie si
mise a riaddormentarlo. Il pianto
del bambino innervosiva il capitano,
sebbene io cercassi di distrarlo. Per
fortuna si sentì chiamare da sua
moglie ed uscì. La signora Aglaura,
affacciata alla siepe, gli faceva
cenno con le sue braccia magre e
bianche, e gridava: - Vieni! Sì, vieni!
C'è gente! Sì, c'è l'uomo della
formica!
Brauni mi rivolse un'occhiata e
un sorriso a labbra strette pieno
d'intenzione, e si scusò di dover
subito tornare a casa. - Ora verrà
anche da lei, - disse, indicando
verso il punto dove quel misterioso
"uomo della formica" doveva
trovarsi, - ora vedrà... - e andò via.
Io non volevo trovarmi davanti a
quest'uomo della formica senza
sapere bene chi fosse e cosa venisse
a fare. Mi diressi alla scaletta che
dava sul terreno dei Reginaudo; il
vicino stava rincasando proprio
allora; portava un abito bianco e la
paglietta, ed era carico di sacchetti e
di barattoli. Gli chiesi: - Senta:
l'uomo della formica, da loro, è già
passato?
- Non so, - disse Reginaudo, -
vengo da fuori, ma credo di sì
perché vedo la melassa dappertutto.
Claudia!
La moglie s'affacciò e disse: - Sì,
sì, passerà anche dalla casetta
Laureri, ma non speri che serva a
qualcosa, sa!
Figuriamoci se speravo
qualcosa, io. Chiesi: - Ma,
quest'uomo, chi lo manda?
- E chi vuole che lo mandi? -
disse Reginaudo. - È l'uomo
dell'Ente per la lotta contro la
formica argentina, l'impiegato che
viene a mettere la melassa in tutti i
giardini nelle case. Quei piattini lì,
vede?
E la moglie: - Melassa
avvelenata... - e fece un risolino
come se la sapesse lunga.
- E le ammazza? - Queste mie
domande erano un gioco
estenuante; già lo sapevo: ogni
tanto pareva che tutto fosse lì lì per
risolversi, e poi ricominciavano le
complicazioni.
Il signor Reginaudo scosse il
capo come se avessi detto una cosa
sconveniente. - Ma no... Veleno a
dosi minime, si capisce... Melassa
zuccherata di cui le formiche sono
ghiotte. Le operaie devono tornare
al formicaio, nutrire con queste
piccolissime dosi di veleno le
regine, che in questo modo, prima o
poi, devono morire avvelenate.
Non volli domandare se, prima o
poi, morissero davvero. Capivo che
il signor Reginaudo m'informava di
questo procedimento col tono di
chi, personalmente, sostiene un
concetto diverso, ma sente il dovere
di riferire obiettivamente e con
rispetto l'opinione ufficiale
dell'autorità. Sua moglie invece, con
l'intolleranza propria delle donne,
non si peritava di manifestare la sua
avversione per il sistema della
melassa, e sottolineava il discorso
del marito con risatine maligne, con
battute ironiche: atteggiamento che
a lui doveva in qualche modo
apparire fuori luogo o troppo
azzardato, perché cercava di darle
sulla voce e ad ogni modo
d'attenuare quest'impressione di
disfattismo, non proprio
contraddicendola completamente -
forse perché in privato anche lui
s'esprimeva così, e anche peggio -,
ma cercando di darle piccoli esempi
d'equanimità, come:
- Bè, ora tu esageri, Claudia...
Certo molto efficace non è, ma può
servire... Poi, lo fanno
gratuitamente... Bisogna aspettare
qualche anno prima di giudicare...
- Qualche anno? Sarà vent'anni
che mettono quella roba lì, e ogni
anno le formiche si moltiplicano.
Il signor Reginaudo, anziché
smentirla, preferì spostare il
discorso su altre benemerenze
dell'Ente: e m'illustrò il sistema
delle cassette di letame, che gli
uomini della formica mettevano nei
giardini perché le regine andassero
a farci le uova, e poi passavano a
ritirare per bruciarle. Io capii che il
tono del signor Reginaudo era
quello adatto per spiegare la cosa
anche a mia moglie, sospettosa e
pessimista per natura, e, tornato a
casa, le rifeci il discorso del vicino,
guardandomi dal vantare il sistema
come miracoloso o comunque
rapido, ma anche astenendomi dagli
ironici commenti della signora
Claudia. Mia moglie è una di quelle
donne che, per esempio in treno,
credono che gli orari, la
distribuzione dei vagoni, le richieste
dei controllori, siano tutte cose
insensate e malfatte senza alcuna
giustificazione possibile, ma pure le
accettano con rancore remissivo;
così giudicò assurda e derisoria
complicazione questa storia della
melassa - né io seppi contraddirla -,
ma si preparò a ricevere la visita
dell'uomo della formica - il quale,
avevo saputo, si chiamava signor
Baudino -, senza frastornarlo con
proteste o inutili richieste d'aiuto.
L'uomo entrò nel nostro terreno
senza chiedere permesso e ce lo
vedemmo davanti mentre
parlavamo ancora di lui, il che
provocò uno spiacevole imbarazzo.
Era un ometto sulla cinquantina, in
un abito nero liso e stinto, con una
faccia un po'"da ubriacone, i capelli
ancora scuri pettinati con una
scriminatura infantile. Le palpebre
semichiuse, il sorriso lievemente
untuoso, una pigmentazione
rossiccia intorno agli occhi e alle
pinne del naso preannunciavano
l'intonazione di voce chioccia, un
po'"da prete, con una forte cadenza
dialettale. Un movimento nervoso
gli faceva pulsare le rughe agli
angoli della bocca e del naso.
Se descrivo il signor Baudino
con tanti particolari, è per cercar di
definire la strana impressione che ci
fece; anzi, nient'affatto strana:
perché ci sembrò che tra mille
persone avremmo indovinato che
l'uomo della formica era proprio lui.
Aveva mani grosse e pelose: in una
reggeva una specie di caffettiera e
nell'altra una fila di piattini di
terracotta. Ci disse della melassa
che aveva da mettere, e la sua voce
tradiva un'infingarda indifferenza
impiegatizia: il modo stesso, molle
e strascicato, di pronunziare la
parola "melassa" bastava a dirci con
quanta incallita sfiducia e con
quanto disprezzo per le nostre
angustie quest'uomo adempisse al
suo compito. Di fronte a lui
m'accorsi che era mia moglie a dare
esempio di calma, mostrandogli i
punti di maggior passaggio delle
formiche. Infatti, a vederlo
muoversi con tanta esitazione, per
ripetere quei pochi gesti di riempire
a uno a uno i piattini versando
melassa dalla caffettiera e di posarli
senza rovesciarli, a me già scappava
la pazienza. Così osservandolo mi
venne in mente la ragione
dell'impressione strana che m'aveva
fatto a prima vista: assomigliava ad
una formica. Non so dire bene
perché, ma ci assomigliava di certo:
forse per il colore nero opaco della
sua persona, forse per le
proporzioni di quel suo
corpiciattolo, oppure per il tremito
agli angoli della bocca che
corrispondeva al continuo vibrare
d'antenne e zampine degli insetti.
C'era però una caratteristica delle
formiche che lui non aveva affatto,
ed era la fretta affaccendata che
sempre tiene in moto quelle; il
signor Baudino si muoveva con
lentezza e goffaggine, ed ora con un
pennellino intinto di melassa ci
imbrattava scioccamente la casa.
Mentre seguivo con crescente
fastidio i movimenti di quell'uomo,
m'accorsi che mia moglie non era
con me; la cercai con lo sguardo e la
vidi in un angolo del terreno, dove
la siepe del villino Reginaudo si
congiungeva con quella del villino
Brauni; affacciate alle rispettive
siepi, la signora Claudia e la signora
Aglaura stavano confabulando, e
mia moglie, in mezzo, le stava a
sentire. M'avvicinai a loro, dato che
il signor Baudino ora s'occupava
dell'intercapedine dietro la casa,
dove poteva imbrattare quanto
voleva senza bisogno d'esser
sorvegliato, e sentii la signora
Brauni che predicava,
accompagnandosi con secchi gesti
angolosi:
- Il ricostituente, viene a dare
alle formiche, quello lì: il
ricostituente, altro che il veleno! - E
la signora Reginaudo di rincalzo, in
un tono un po'"mellifluo: - Il giorno
che non ci fossero più formiche i
funzionari dell'Ente dove
andrebbero? Quindi, cosa vuole che
facciano, signora mia?
- Le ingrassano, ecco quello che
fanno! - concluse con ira la signora
Aglaura.
Mia moglie - poiché i discorsi
d'entrambe le vicine erano rivolti a
lei - stava a sentire zitta, ma il modo
che aveva di tener dilatate le narici
e ripiegate le labbra mi diceva che la
rabbia, la sofferenza per l'inganno
che doveva subire la stavano già
divorando. E anch'io, debbo dire,
ero molto vicino a credere che
quelli non fossero soltanto
pettegolezzi di donne.
- E le cassette di letame per le
uova? - continuava la Reginaudo.
- Le ritirano, ma crede che le
brucino? Macché!
Si sentì: - Claudia! Claudia! - la
voce del marito, che certo quelle
intemperanze della moglie facevano
stare sulle spine. La signora
Reginaudo ci lasciò con un -
Scusatemi, - in cui vibrava una nota
di disprezzo per il conformismo del
consorte, e dalla parte opposta mi
parve echeggiasse una specie di
risata sardonica, e vidi per i vialetti
bene inghiaiati il capitano Brauni
che andava correggendo
l'inclinazione delle trappole. Ai suoi
piedi uno dei piattini di terracotta
appena riempiti dal signor Baudino
era rovesciato e spezzato, certo da
una pedata, chissà se distratta o
volontaria.
Non so quale attacco contro
l'uomo della formica mia moglie
covasse dentro di sé, mentre
tornavamo verso casa; è probabile
però che ora non avrei fatto nulla
per trattenerla, anzi l'avrei, se era il
caso, spalleggiata. Ma, data
un'occhiata intorno a casa e dentro,
ci accorgemmo che il signor
Baudino era sparito; già c'era
sembrato, venendo, d'aver sentito
cigolare e chiudersi il nostro
cancelletto.
Doveva essere uscito proprio
allora, senza salutare, lasciandosi
dietro quelle tracce di melassa
appiccicosa e rossiccia che
spandevano uno sgradevole odorino
dolciastro, completamente diverso
da quello delle formiche ma, non
saprei dir come, imparentato con
esso.
Poiché nostro figlio dormiva,
pensammo che era il momento
adatto per salire a casa della signora
Mauro. Dovevamo andare a trovarla
per chiedere le chiavi d'un certo
ripostiglio e un po'"anche per visita
di dovere. Ma i veri motivi che ci
facevano affrettare la visita erano
l'intenzione di farle sentire le nostre
rimostranze per averci affittato
un'abitazione invasa dalle formiche
senza premunirci in alcun modo, e -
soprattutto - la curiosità di vedere
come la nostra padrona di casa si
difendesse da quel flagello.
La villa della signora Mauro
aveva un giardino piuttosto grande,
in salita, con alte palme dalle
ingiallite foglie a ventaglio. Un viale
a tornanti portava verso un edificio
tutto verande a vetri e abbaini, e in
cima al tetto un gallo marcavento
rugginoso girava a fatica stridendo
sul suo perno, in ritardo rispetto
alle foglie delle palme, gementi e
fruscianti a ogni levata d'aria.
Mia moglie ed io salivamo per
questo viale e giù dalle balaustre
vedevamo la casetta dove
abitavamo, ancora così poco a noi
familiare, e la sterpaglia del terreno
incolto, e il giardinetto dei
Reginaudo simile al cortile d'un
magazzino, e il giardinetto dei
Brauni con la sua compostezza
quasi cimiteriale, ed ecco ora
potevamo dimenticarci che erano
luoghi neri di formiche, ecco ora
potevamo vederli come sarebbero
stati senza quell'assillo al quale non
ci si poteva sottrarre neppure per
un attimo, ecco ora a quella
distanza potevano anche sembrare
un paradiso - e però più dall'alto li
guardavamo più ci prendeva un
senso di pietà per la nostra vita
laggiù, come se a vivere in quel
meschino, gracile orizzonte non si
potesse che continuare a batterci
contro problemi gracili e meschini.
La signora Mauro era anziana,
magra e alta; ci ricevette in una
stanza in ombra, seduta su una
sedia dall'alto schienale, accanto a
un tavolino apribile con oggetti da
cucito e il necessario per scrivere.
Vestiva di nero, tranne un
bianco colletto maschile; era
lievemente incipriata sul viso
magro, e severamente pettinata. Ci
porse subito la chiave che già il
giorno prima aveva promesso di
darci, ma non ci chiese se c'eravamo
trovati bene nella casa, e questo - ci
sembrò - era segno che già
s'aspettava la nostra lamentela.
- Ma le formiche che ci sono
laggiù, signora... - disse mia moglie
con un tono che stavolta avrei
voluto meno umile e rassegnato.
Sebbene fosse una donna dura e
spesso aggressiva, mia moglie certe
volte si lasciava prendere dalla
timidezza, e a vederla in quei
momenti mi si comunicava il
disagio.
Venendole di rinforzo e calcando
un accento risentito io dissi:
- Lei ci ha affittato una casa,
signora, che se avessimo saputo di
tutte queste formiche, le dico
francamente, - e troncai lì,
pensando d'esser stato chiaro
abbastanza.
La signora neppure alzò lo
sguardo. - La casa era disabitata da
molto tempo, - disse. - È
comprensibile che ci sia un po'"di
formica argentina, ce n'è
dappertutto... dove non si fa bene
pulizia. Lei, - disse a me, - m'ha
tenuta in sospeso quattro mesi
prima di darmi una risposta. Se ci
fosse andato a stare subito, adesso
non avrebbe formiche.
Noi guardavamo la stanza quasi
buia per i tendaggi e le persiane
socchiuse, le alte pareti ricoperte
d'antica tappezzeria, gli oscuri
mobili intagliati sopra i quali
caraffe e teiere d'argento
mandavano brevi lampeggi, e ci
sembrava che quel buio, quei
pesanti arredi servissero a
nascondere la presenza di fiumi di
formiche che certo percorrevano la
vecchia casa dalle fondamenta al
tetto.
- Perché lei, qui, - disse mia
moglie con un timbro insinuante,
quasi ironico, - non ne ha, di
formiche?
La signora Mauro contrasse le
labbra: - No, - disse, recisa. E poi,
come avvedendosi che poteva non
essere creduta, spiegò: - Qui
teniamo tutto come uno specchio.
Appena qualche formica entra dal
giardino, ce ne accorgiamo e
corriamo ai ripari.
- Come? - chiedemmo subito a
una voce io e mia moglie, e non
provavamo altro che speranza e
curiosità, adesso.
- Così, - fece la signora
stringendosi nelle spalle, - le
cacciamo via, via con la scopa -. In
quel momento la sua espressione di
studiata impassibilità fu percorsa
come dalla tensione d'un dolore
fisico, e vedemmo che, nello star
seduta, spostava vivamente il suo
peso da una parte, arcuandosi alla
vita. Se non fosse stato in contrasto
con le affermazioni che le stavano
uscendo di bocca, avrei giurato che
una formica argentina, passatale
sotto i vestiti, l'aveva pizzicata; una
oppure alcune, che le
passeggiassero per la persona
causandole prurito, perché
malgrado si sforzasse di non
muoversi dalla sedia appariva
chiaro che non le riusciva di stare
calma e composta come prima, ma
stava tutta tesa, mentre nel viso le
si disegnava una traccia di
sofferenza sempre più acuta.
- Ma noi abbiamo davanti quel
terreno che è nero, di formiche, -
dissi in fretta, - e per pulita che
potremo tenere la casa, dal terreno
ne verranno sempre dentro a
migliaia...
- Si capisce, - disse la signora, e
la sua mano sottile si serrava al
bracciolo, - si capisce, il terreno è
incolto, e sono i posti incolti che
fanno crescere formiche a milioni. I
miei progetti erano di farle mettere
a posto quel terreno già da quattro
mesi fa. Lei m'ha fatto appettare, ed
ora ne ha un danno; e non solo lei,
ma ne hanno un danno tutti, perché
le formiche si propagano...
- Si stanno propagando anche
qui da lei? - chiese mia moglie quasi
sorridente.
- Qui no! - fece pallida la signora
Mauro, e sempre tenendo la destra
ferma al bracciolo, con un piccolo
movimento rotatorio della spalla
prese a strisciare il gomito contro il
fianco. A me veniva l'idea che
l'ombra, gli ornamenti, l'ampiezza
delle stanze e l'orgoglio dell'animo
fossero le difese che quella donna
aveva contro le formiche, le ragioni
per cui di fronte ad esse era più
forte di noi; ma che tutto quello che
vedevamo intorno, a cominciare
dalla sua persona lì seduta, fosse
róso da formiche più spietate
ancora delle nostre; quasi una sorta
di termiti africane che
distruggevano ogni cosa
lasciandone gli involucri, e che di
quella casa restasse solo la
tappezzeria stinta, il panno quasi
polverizzato delle tende, tutto sul
punto di crollare in briciole davanti
ai nostri occhi.
- Noi venivamo proprio a
chiederle se poteva darci qualche
consiglio per liberarci da questa
piaga... - disse mia moglie che aveva
ripreso una completa scioltezza di
contegno.
- Tener bene la casa e lavorare la
terra. Non c'è altro rimedio. Il
lavoro: solo il lavoro, - e s'alzò in
piedi, e la decisione di congedarci si
sommò ad uno scatto istintivo della
sua persona che non poteva più star
ferma. Si ricompose, e sul suo viso
pallido passò come un'ombra di
sollievo.
Scendevamo per il giardino, e
mia moglie disse: - Speriamo solo
che non si sia svegliato -. Anch'io
stavo pensando al bambino.
Sentimmo che piangeva prima
ancora d'essere a casa. Corremmo,
lo prendemmo in braccio,
cercammo di calmarlo, ma
continuava a piangere alto, strillato.
Gli era entrata una formica in un
orecchio: ci mettemmo un po',
prima di capirlo, perché piangeva
disperato e non ci dava nessun
appiglio. Già mia moglie l'aveva
subito detto:
- Devono esser state le
formiche! - ma io non capivo perché
continuasse a piangere così, mentre
formiche addosso non gliene
trovavamo né segni di morsi o
irritazioni, e l'avevamo spogliato e
ben guardato da tutte le parti. Però
ne trovai qualcuna nella cesta; e
dire che mi pareva d'averla isolata
bene; ma non avevamo badato alle
pennellate di melassa
dell'uomoformica: ecco che una
delle goffe strisce tracciate dal
signor Baudino sembrava fatta
apposta per attirare quelle bestie su
dal pavimento fino al giaciglio del
bambino.
Tra il pianto del bambino e le
grida di mia moglie ci attirammo in
casa le donne del vicinato: la
Reginaudo che ci fu davvero
preziosa e assai gentile, la Brauni
che, bisogna dirlo, fece anche lei
quel che poté per aiutarci, e altre
donnette mai viste prima. Tutte
s'affannavano a dar consigli:
versargli olio tiepido nell'orecchio,
fargli tenere la bocca aperta, fargli
soffiare il naso, e non so che altro
ancora.
Gridavano e finivano per darci
più impiccio che aiuto, per quanto
sul momento fossero state di
conforto; e questo loro
affaccendarsi intorno al nostro
bambino serviva soprattutto ad
eccitare l'astio generale contro
l'uomo della formica. Mia moglie
aveva gridato ai quattro venti
incolpando lui, Baudino; e le vicine
erano concordi nel dire che
quell'uomo si meritava il fatto suo,
una buona volta, e che era lui a far
di tutto perché la formica crescesse
bene, per non perdere l'impiego, e
che era capacissimo d'averlo fatto
apposta, perché ormai si sapeva che
stava sempre dalla parte della
formica, non da quella dei cristiani.
Esagerazioni, si capisce, ma in
quell'agitazione, col bambino che
piangeva, mi ci unii anch'io e se
avessi avuto tra le mani proprio
allora il signor Baudino, non so
neppure dire cosa gli avrei fatto.
La formichina uscì con l'olio
tiepido; il bambino, mezzo stordito
dal piangere, prese un suo
giocattolo di celluloide e lo agitò e
succhiò deciso a dimenticarci. Io
avevo lo stesso bisogno suo: stare
per conto mio e distendere i nervi,
ma tra le donne continuava la
diatriba contro Baudino, e dicevano
a mia moglie che lui probabilmente
si trovava in un recinto lì vicino
dove aveva il suo ripostiglio, e mia
moglie: - Ah, io ci vado, ci vado sì, a
dargli quel che si merita.
Allora si formò un piccolo
corteo, con mia moglie in testa, io
naturalmente vicino a lei, pur senza
pronunciarmi sull'utilità
dell'impresa, altre donne che
incitavano mia moglie seguendola e
talora sopravanzandola per
mostrarle la strada. La signora
Claudia s'offerse di tenerci il
bambino e ci salutò al cancello;
m'accorsi dopo che con noi non
c'era neanche la signora Aglaura,
che pure s'era dimostrata una delle
più accese nemiche di Baudino, ma
eravamo accompagnati da un
piccolo gruppo di donnette
sconosciute. Procedevamo adesso
per una specie di stradacortile,
fiancheggiata da casupole di legno,
pollai e ortaglie mezzo ingombre di
spazzatura.
Qualcuna delle donnette dopo
aver tanto detto, giunta a casa sua si
fermava sulla soglia, ci indicava con
gran calore dove dovevamo andare,
e si ritirava in casa richiamando gli
sporchi bambini che giocavano per
terra, o andava a dar da mangiare
alle galline. Solo un paio di donne ci
seguirono ancora fino al recinto di
quel Baudino, ma quando, dopo i
colpi bussati da mia moglie, s'aprì
un uscio, ci trovammo a entrare io e
lei soli, sebbene ci sentissimo
seguiti dagli sguardi di quelle
donnette alle finestre o nei pollai, o
che passavano lì fuori scopando, e
pareva continuassero a incitarci ma
a voce bassissima, e senz'affatto
esporsi.
L'uomo della formica era in
mezzo al suo ripostiglio, una
baracca andata distrutta per tre
quarti, a una cui superstite parete di
legno era attaccato un manifesto
ingiallito con la scritta cubitale:
ente per la lotta contro la formica
argentina, e intorno erano pile di
quei piattini per mettere la melassa,
e cassette e barattoli d'ogni genere,
tutto in una specie d'immondezzaio,
colmo di cartocci con lische di pesce
ed altri rifiuti, talché veniva subito
l'idea che quella fosse la gran
sorgente di tutte le formiche della
zona. Il signor Baudino era di fronte
a noi con un irritante mezzo sorriso
interrogativo che mostrava i vuoti
della sua dentatura.
- Lei! - l'aggredì mia moglie
riprendendosi dopo un attimo
d'esitazione, - lei dovrebbe
vergognarsi! Perché ci viene in casa
e sporca dappertutto e al bambino
la formica nell'orecchio ce l'ha fatta
entrare lei con la sua melassa.
Gli aveva avanzato le mani sotto
il viso, e il signor Baudino senza
smettere quel guasto sorriso faceva
dei movimenti da animale selvatico
per tenersi aperta una via d'uscita, e
intanto alzava le spalle e dava
occhiate ed ammicchi intorno -
rivolto a me, perché nessun altro
era in vista - come a dire: "È
scema", ma la sua voce proferiva
solo generiche e molli smentite
come: - No... no... Macché.
- Perché lo dicono tutti che è lei
che dà il ricostituente alle formiche
invece d'avvelenarle! - gridava mia
moglie, e lui sgusciò dalla porticina
in quella stradacortile, e mia moglie
gli teneva dietro ingiuriandolo. Ora
le scrollate di spalle e le strizzatine
d'occhio del signor Baudino si
rivolgevano alle donne delle
casupole intorno, e mi pareva che
esse stessero facendo una specie
d'impalpabile doppio gioco,
accettando d'esser prese per
testimonio da lui che mia moglie
diceva sciocchezze, e quando invece
era mia moglie a rivolgere loro lo
sguardo incitandola con piccoli
accaniti cenni del capo e movimenti
delle scope a dar addosso all'uomo
della formica. Io non intervenivo, e
cosa avrei potuto fare? Non certo
inveire anch'io e mettere le mani
addosso a quell'ometto sfuggente,
che già l'ira di mia moglie era
abbastanza accesa contro di lui; e
neppure mi pareva il caso di
moderarla, perché non volevo
prendere le difese di Baudino.
Finché mia moglie in un
reiterato attacco d'ira, gridando: -
Lei ha fatto del male al mio
bambino! - gli s'afferrò al colletto,
scuotendolo nei suoi panni. Io stavo
per buttarmi a separarli ma lui non
la toccò, girò su se stesso con mosse
sempre più formichesche, finché
riuscì a sfuggirle, s'allontanò un
poco con qualche goffo passo di
corsa e poi si ricompose ed andò
via, sempre scrollando le spalle e
mormorando frasi come: - Ma che
cose... Ma chi è... - e facendo il gesto
per dire: "È scema", sempre rivolto
al pubblico delle casupole.
Dal quale pubblico, nel
momento in cui mia moglie s'era
lanciata su di lui, s'era levato un
brusio forte ma indistinto, che s'era
taciuto appena l'uomo s'era liberato
e ora si ricomponeva in frasi che gli
venivano lanciate dietro, frasi non
tanto di protesta e di minaccia
quanto di lamentela e quasi di
richiesta di compatimento, ma
gridate come fossero orgogliose
proclamazioni: - A noi le formiche
ci mangiano viviii... Formiche nel
letto, formiche nel piatto, tutti i
giorni, tutte le nottiii... Già abbiamo
poco da mangiare e dobbiamo
sfamare anche lorooo...
Io avevo preso mia moglie
sottobraccio e ancora lei si scuoteva
ogni tanto e gridava: - Ma non la
finirà così! Lo sappiamo chi è che ci
truffa! Lo sappiamo chi è che
dobbiamo ringraziare! - e altre frasi
di minaccia che restavano senza
eco, perché al nostro passaggio le
finestre e le porte delle casupole si
richiudevano e gli abitanti
riprendevano la loro misera vita
assieme alle formiche.
Così fu un triste ritorno, ed era
prevedibile. Ma a me spiaceva
soprattutto aver visto come quelle
donnette s'erano comportate. E mi
venne un fastidio per chi va in giro
a piagnucolare delle formiche che
non l'avrei più fatto in vita mia, e
mi veniva voglia di chiudermi in un
orgoglio straziato come quello della
signora Mauro, ma lei era ricca e
noi poveri, e non trovavo la via, la
maniera per continuare a vivere in
questo paese, e mi pareva che
nessuno di questi che conoscevo e
che pure fino a poco prima m'erano
parsi così superiori, l'avesse trovata
o fosse sulla strada di trovarla.
Eravamo dinanzi a casa: il
bambino succhiava il suo giocattolo,
mia moglie s'era messa su una
sedia, io guardavo il campo
infestato, le siepi, e di là una nuvola
di polvere insettifuga salire dal
giardino del signor Reginaudo, e a
destra l'ombra silenziosa del
giardino del capitano, col continuo
stillicidio delle vittime. Questo era
il mio nuovo paese. Presi bambino e
moglie e dissi: - Andiamo a fare un
giro, andiamo fino al mare.
Era sera. Passavamo per viali e
strade a scale. Il sole batteva su uno
spigolo della città vecchia, di pietra
grigia e porosa, con cornici di calce
alle finestre ed i tetti verdi d'erba.
Nell'entroterra la città s'apriva a
ventaglio, s'ondulava in versanti di
colline, e dall'uno all'altro lo spazio
era colmo d'aria limpida, a quest'ora
color rame. Nostro figlio si voltava
stupito a vedere ogni cosa e a noi
toccava prendere parte alla sua
meraviglia, ed era un modo per
riaccostarci al blando sapore che ha
a momenti la vita e riindurirci al
passare dei giorni.
Incontrammo delle donne
anziane che portavano grandi ceste
in bilico sul capo posate sopra un
cercine - camminavano immobili,
col torso fermo sulle reni, gli occhi
bassi -; e da un giardino di monache
un gruppo di ragazze cucitrici
corsero a una ringhiera per vedere
un rospo in una vasca e dissero: -
Oh che angoscia! -; e dietro un
cancello, sotto un glicine, delle
giovinette biancovestite facevano
giocare con un pallone da spiaggia
un cieco; e un ragazzo mezzo nudo
e barbuto, coi capelli fino alle
spalle, coglieva i fichi d'India con
una canna aperta a forchetta da una
vecchia pianta irta di spine lunghe e
candide; e i bambini d'una casa
ricca, tristi e occhialuti, facevano
bolle di sapone alla finestra; ed era
l'ora che ai vecchi del ricovero
suona la ritirata e salivano per
quelle scale l'uno dietro l'altro col
bastone, con la paglietta in capo,
parlando ciascuno per suo conto; e
allora dei due operai del telefono
quello che teneva la scala disse a
quello controluce sui fili: - Scendi, è
ora, domani finiremo.
Così arrivammo al porto e c'era
il mare. C'era una fila di palme, e
delle panche in pietra: io e mia
moglie sedemmo e il bambino era
quieto. Mia moglie disse: - Qui non
c'è formiche -. Io dissi: - E c'è un bel
fresco: si sta bene.
Il mare andava su e giù contro
gli scogli del molo, muovendo
quelle barche dette "gozzi", e
uomini dalla pelle oscura le
riempivano di rosse reti e nasse per
la pesca serale. L'acqua era calma,
con appena uno scambiarsi
continuo di colori, azzurro e nero,
sempre più fitto quanto più
lontano. Io pensavo alle distanze
d'acqua così, agli infiniti granelli di
sabbia sottile giù nel fondo, dove la
corrente posa gusci bianchi di
conchiglie puliti dalle onde.