venerdì 18 marzo 2022

Di Cesare: “Pace, Putin e Occidente. Il mio diverso parere”

Di Cesare: “Pace, Putin e Occidente. Il mio diverso parere”

Ripubblico qui, col cortese permesso dell’autrice, le parole di Donatella Di Cesare*, una delle voci più autorevoli e assennate della filosofia italiana (da La Stampa del 14 marzo scorso).

In questi tempi di guerra è ancora possibile pensare? Oppure dovremmo forse ammettere che nella nuova fase bellica, in cui siamo appena entrati, il pensiero non è che un impaccio? Perché questa sembra essere la tendenza. C’è un aggressore e un aggredito – Putin ha lanciato l’esercito russo contro gli ucraini invadendone illegalmente il territorio. A partire da questo scenario tragico, foriero di ulteriori prossime sventure, ci si può limitare all’emotività manichea: l’umana pietà per le vittime e la stigmatizzazione del tiranno. I due gesti più immediati, quelli più ovvi e istantanei. Chi tenta di andare oltre, chi osa varcare un confine di giorno in giorno più militarizzato, viene redarguito, intimidito, passa per traditore. Guai a contestualizzare gli eventi, a vederli un po’ più a distanza nella loro complessità. Si finisce in qualche lista di proscrizione. O lasci andare l’indignazione oppure vieni colpito dallo sdegno, o ti adegui all’immediatezza dell’odio oppure ne diventi bersaglio. Tutto è ridotto allo scontro tra bene e male, all’efficace e semplicistico schema binario. Riconoscere il delitto e invocare il castigo – per citare un grande russo. A questo si deve ridurre ogni discorso pubblico.

La distanza necessaria al pensiero viene presa per equidistanza, la riflessione scambiata per cinismo. Eppure, dovremmo sapere bene che immediatezza è sinonimo di violenza. E la violenza ne chiama altra in una spirale senza fine. Si può obiettare: ha senso l’esercizio del pensiero mentre muoiono persone innocenti sotto i bombardamenti criminali? Non è l’ora di agire e basta? Il pensiero – dice qualcuno – confonderebbe persino le acque. C’è un aggressore e un aggredito. A cosa dovremmo pensare? È sufficiente la risposta istintiva. Così, mentre da un canto seguiamo il reportage, che con immagini frammentarie di fumo e fuoco, di corpi straziati e donne in fuga, finisce per accendere la nostra emotività, dall’altra ascoltiamo l’esperto o lo stratega che ci rassicurano con numeri e tabelle, quelle delle sanzioni, e quelle degli armamenti europei. A che pro pensare?

Fermarsi per guardare al contesto, per interrogarsi sulle cause di un conflitto complesso, vuol dire tentare di scorgere le soluzioni. Ma significa anche lasciare aperto lo spazio dell’etica e della politica. I guerrafondai che chiamano alle armi in nome dei principi cancellano l’etica. La questione, però, riguarda direttamene la politica. Dispiace che, mentre gli ex amici di Putin per lo più tacciano, leader di partiti di sinistra e moderati, che dovrebbero offrire una visione complessiva, abbiano invece preso posizioni estremistiche avallando l’invio di armi e inneggiando a un’Europa belligerante. Slogan roboanti, parole d’ordine, gergo militaristico. Nei decenni passati la politica ha abdicato all’economia, riducendosi sempre più a mera amministrazione. Negli ultimi due anni di pandemia ha abdicato pericolosamente alla scienza. Ma non ci saremmo mai immaginati che, anziché riprendere consapevolmente il proprio indispensabile ruolo, abdicasse alla guerra. Questo è gravissimo. C’è politica dove c’è pensiero. Dovremmo forse accettare una politica che si autoannienta?

La veemenza, la furia, il livore con cui viene attaccato chi non si allinea alla militarizzazione la dice lunga sullo scenario presente e futuro. Siamo arrivati al punto che ci si dovrebbe vergognare di essere pacifisti. Si vuol spacciare chi ragiona così per un residuo del passato, un “neo-bastian contrario”, uno che “non ha pudore di esibire la propria stupidità”, o addirittura un “terrapiattista della politica”. Purtroppo è esattamente il contrario: chi crede alla necessità di interrompere la violenza, alla possibilità della pace, crede nella politica. Perciò non accetta la semplificazione. Un conflitto terribile tra due stati nazionali nel contesto europeo non è una partita di calcio, non è un duello, né può essere ricondotto alla polarizzazione che rifugge la complessità. Ad esempio – e l’ho detto anche a proposito di altri conflitti – il più debole non sta necessariamente dalla parte della ragione. Altrimenti dovremmo consegnarci ai paradigmi della più bieca e ottusa vittimologia.

Al posto degli insulti aspettiamo argomenti. Nel frattempo continuiamo a esercitare il pensiero, che poi è possibilità di distinguere – parole e concetti. Non riduciamo Putin a Hitler, non riportiamo il 2022 al 1938, non confondiamo il valore generico del verbo “resistere” con il significato politico delle Resistenza italiana. Altrimenti in tutte le innumerevoli guerre d’invasione europee ci sarebbero stati i cosiddetti resistenti. In Ucraina non c’è una guerra civile, non ci sono partigiani che combattono contro i fascisti. A meno di non voler inscrivere un miliziano ucraino nella Brigata Garibaldi. A confondere qui le acque sono i politici con l’elmetto, forse per timore di non essere seguiti dai propri elettori. E infine, sappiamo dove si costruisce la pace e dove invece si vuole introdurre la guerra in spirito. La piazza di Firenze, ammantata di bandiere ucraine, dove si applaude a Zelensky che invoca la no fly zone, cioè la guerra, è già una piazza interventista.

* Donatella Di Cesare è professoressa ordinaria di filosofia teoretica all’Università La Sapienza di Roma. Fra le sue opere più rilevanti, Il complotto al potere (Einaudi, 2021), Virus sovrano? L’asfissia capitalistica (Bollati Boringhieri, 2020), Sulla vocazione politica della filosofia (Bollati Boringhieri, 2018), Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione (Bollati Boringhieri, 2017). Per i suoi lavori su Shoah e antisemitismo è stata minacciata di morte e costretta a vivere sotto scorta per tre anni; uno dei primi provvedimenti del Ministro dell’Interno Matteo Salvini è stata la revoca della sua scorta, senza spiegazioni.