martedì 24 aprile 2018

primo marzo, 1954

The Gleaner by Georg Baselitz, 1978

Il primo marzo del 1954, gli Stati Uniti sganciarono sull'atollo di Bikini, nelle isole Marshall, una bomba a fusione termonucleare trecento volte più potente di quella sganciata su Hiroshima nel 1945. L'operazione, chiamata in codice Castle Bravo, si risolse nel più grave incidente nucleare mai accaduto prima, perché la potenza della bomba risultò non di trecento, ma di mille volte superiore a quella di Hiroshima. Uno dei suoi principali componenti, il litio-7, di cui evidentemente gli scienziati non conoscevano a sufficienza le proprietà, innescò una serie di reazioni che ne triplicarono l'energia. Nel giro di pochi minuti, il fungo atomico raggiunse un'altezza di 40 km, per cui la nube fu soggetta a venti di una forza e direzione del tutto impreviste dagli esperti che ne dovevano calcolare lo spostamento. Il fallout radioattivo colpì due atolli abitati da 67.000 persone che non si riuscì a far evacuare in tempo, mentre l'equipaggio di un peschereccio giapponese, che era in acque considerate sicure, fu colto in pieno dalle radiazioni. Lo stesso accadde all'equipaggio di un aereo militare che doveva osservare la zona del lancio da un'altezza considerata sicura, se tutto fosse andato secondo i piani.
Ma niente andò secondo i piani.

www.doppiozero.com
Michela Dall’Aglio
 


mercoledì 18 aprile 2018

Frank il fachiro

Gabriele Picco - Frank il fachiro

Un fachiro di Buffalora
Tiziano Scarpa

C’era un fachiro di Buffalora
che si abbronzava nella controra.
Quando d’estate il sole picchiava
tutto il paese si rintanava:
uteri d’ombra, stanze oscurate,
penniche in arie condizionate;
cubi di vento nel meteo arrosto,
freschi febbrai abitati in agosto.
Soltanto lui si esponeva ai raggi,
senza ombrelloni, creme o panneggi.
Usciva in piazza, al centro dell’afa.
L’asfalto ardeva come una stufa.
Si distendeva su un materasso
fatto di chiodi e lame da scasso.
Così veniva in toto trafitto:
sopra dal sole, sotto dal letto.
Metà stracotto, metà straziato,
si cospargeva di sale e aceto,
peperoncino, ortica, limone
dentro le piaghe, in ogni lesione.
Mangiava vetri e filo spinato,
senza tisana o bicarbonato.
Sassi di ghiaccio nella tempesta
grevi ammaccavano la sua testa.
Coglieva al volo, per penitenza,
ogni occasione di sofferenza.
Ma non sentiva niente di niente.
A ogni dolore era indifferente.
«Chiodi e lamette, grandine e fuoco:
tutto ho patito, ma è troppo poco.
Devo affrontare il peggio del peggio.
Sfidare il mondo con più coraggio».
Si fece assumere da una ditta.
Andò in ufficio in giacca e cravatta.
Fece la spesa nei shopping district,
in mezzo agli hipster e ai fashion addict.
Speed date, palestre, corsi di tango,
saune, piscine, cure di fango:
bazzicò bar e sale scommesse,
sedusse ostesse, stese commesse.
Si diede ai vizi più deliziosi:
alcol, gelati, sesso, narcosi.
«Voglio abbassarmi ancora più in fondo,
fino al pilastro che regge il mondo:
soldi, successo, competizione,
calcio, cucina, televisione».
E nella sua innocente deboscia,
tempo tre mesi, morì d’angoscia.


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