mercoledì 24 giugno 2020

Quasi un testamento

Pier Paolo Pasolini: “Quasi un testamento” di Peter Dragadze.
Pier Paolo Pasolini a casa sua, Roma (1973) © Mimmo Cattarinich/Riproduzione riservata
Era stato lo stesso Pier Paolo Pasolini a definire un «testamento spirituale-intellettuale» le riflessioni e osservazioni che aveva fatto nel corso di una serie di incontri con il giornalista inglese Peter
Dragadze. «Per noi stranieri» racconta Dragadze, «Pasolini era un personaggio che rappresentava
un´"Italia sconosciuta. I giornali e le riviste anglosassoni per cui lavoravo mi chiedevano spesso
interviste con Pasolini, ma poi finivano col pubblicarle raramente perché le sue dichiarazioni e il suo
stile risultavano difficilmente traducibili. Ciò nonostante, e benché io non condividessi molti dei suoi
atteggiamenti politici e personali, continuavo a vederlo di tanto in tanto, anche perché avevo sempre
amato la sua poesia. Questi incontri, ai quali partecipava anche mia moglie, avvenivano nel suo
appartamento all'Eur, nelle trattorie di Campo dei Fiori e di piazza Farnese o sul set dei suoi film. Nei
sei anni della nostra amicizia, Pasolini aveva preso l´abitudine di chiamarmi ´rompiscatole´ perché
continuavo a fargli domande per interviste che raramente vedevano la luce. Nell'ultimo dei nostri
incontri gli sottoposi tutti gli appunti che avevo raccolto e che volevo utilizzare per un ampio servizio
dedicato alla sua vita e alla sua opera. Ebbene, Pasolini prese i fogli, li riordinò, li riscrisse a
macchina, aggiunse qua e là correzioni di suo pugno; e al momento di restituirmi il tutto, mi disse
ridendo: ”Questo è quasi un testamento spirituale-intellettuale. Se dovesse succedere qualcosa,
Dragadze, lo tiri fuori. Credo che a qualcuno potrebbe interessare”.»
INTELLETTUALI RUSSI
A proposito delle condanne agli intellettuali russi, io giudico in uno stato d´animo particolare: nello
stato d'animo, cioè, di chi è stato condannato dai tribunali italiani più o meno per le stesse ragioni
(quattro mesi con condizionale per «vilipendio alla religione», reato previsto in un Codice ancora
fascista, a causa di un mio film, La ricotta). Non sono poi uno di quelli che dimenticano che,
giustamente, i tribunali degli Usa hanno condannato Pound; e che molti intellettuali americani hanno
dovuto andare in esilio perché sospetti di marxismo, cioè di attività antistatale. Certo, per la Russia, Il
caso è più grave: non tanto per la severità delle condanne, quanto perché lo Stato anziché
autodistruggersi, secondo la stupenda ideologia di Marx, si consolida sempre di più, attraverso la
burocrazia, il militarismo, la polizia ecc. Quello che i cinesi chiamano revisionismo, insomma,
addolcisce il rapporto tra produzione (statale) e consumatori (statali), ma non addolcisce affatto
quell'orribile istituzione che è sempre e dappertutto lo Stato (il Potere).
CULTURA IN RUSSIA
Molti scrittori russi sono miei amici; e per molti di essi, oltre che amicizia, ho anche stima. Però mi
sembra che la cultura ufficiale russa (parlo di quella specificamente letteraria) sia pigra, noiosa,
sedentaria, conformista, sentimentale e retorica. Evidentemente come c'è un'altra cultura americana,
suppongo che ci sia anche un'altra cultura russa. Non vorrei però che fosse quella di Bulgakov.
CULTURA ITALIANA
È una cultura di sedentari, tutti uguali fra loro, tutti piccoli borghesi e tutti integrati. I cattolici sono fieri del loro cattolicesimo, i laici sono fieri del loro laicismo. Le avanguardie sono casi di snobismo, e (beati gli avanguardisti che sono ancora così ingenui da credere in queste cose) di potere letterario!
Non bisogna dimenticare che ormai l'Italia è, culturalmente, una provincia. E non bisogna dimenticare quello che dice Goldmann a proposito dell´«omologia» tra una società e le opere letterarie che produce. Un po' più di vita c'è nel cinema (che è, semiologicamente, un sistema di segni non nazionale, ma internazionale: e quindi i registi sono meno condizionati dei letterati dalla meschinità del loro mondo nazionale).
I GRANDI POETI
In Italia il più grande poeta è Sandro Penna (mentre uno dei peggiori è Salvatore Quasimodo). Degli
americani amo il primo Ginsberg. Ne amo altri, morti da poco: Dylan Thomas, Machado, Kavafis.
PERCHÉ SAN MATTEO
Ero ad Assisi, ospite di una comunità religiosa, a discutere del mio primo film. Quel giorno arrivò
senza preannuncio, ad Assisi, Papa Giovanni XXIII. Ciò bloccò il traffico nella cittadina; e io fui
costretto a restare chiuso in camera, rimandando la partenza. Sul comodino c'era il Vangelo. Ho
cominciato, per noia, a rileggerlo. Dopo due pagine avevo già deciso che avrei girato quello che
sarebbe stato il mio Vangelo secondo Matteo. Si è trattato quindi di un trauma, di una illuminazione
improvvisa. Ma ora so che se anche avessi scelto ragionando non avrei potuto scegliere che il
Vangelo secondo Matteo. Esso è infatti, dei quattro Vangeli, il più rivoluzionario.
SCRIVO POESIE?
No, non scrivo più poesie da due o tre anni. Questo non me lo sarei mai aspettato. Ho cominciato a
scrivere infatti a sette anni d'età, e ho scritto senza interruzione fino appunto a due o tre anni or sono.
Perché non scrivo più? Perché ho perduto il destinatario. Non vedo con chi dialogare usando quella
sincerità addirittura crudele che è tipica della poesia. Ho creduto per tanti anni che un destinatario
delle mie «confessioni» e delle mie «testimonianze» esistesse. Mi sono dunque ora accorto che non
esiste. Che con gli amici non c'è bisogno di esprimersi con la poesia: ci si esprime esistendo. Le
proprie esagerazioni, i propri eccessi, le proprie idee si esprimono vivendo. La poesia richiede che ci
sia una società (ossia un ideale destinatario) capace di dialogare con il povero poeta. In Italia una tale
società non c'è. C´è un buon popolo ancora simpatico (specie là dove non arrivano i giornali e la
televisione) e una piccola élite di borghesi colti e disperati. Ma una società con cui ci si possa mettere
in rapporto attraverso la poesia non c'è. (Lo dico perché un poeta deve avere delle illusioni, ma
quando le perde non deve illudersi di averle ancora.)
RELIGIONE FORMALE
Ogni religione formale, nel senso che la sua istituzione è diventata ufficiale, non solo non è necessaria per migliorare il mondo, ma addirittura lo peggiora.
FEDI PIÙ PROFONDE
La religione così come ora si presenta è un vecchio fenomeno del mondo pastorale, contadino e
artigianale, ossia del mondo non industrializzato. Nella fattispecie, oggi, la religione è un fenomeno del Terzo Mondo. Un contadino indiano o un pastore arabo sono certamente più religiosi di un borghese cattolico o di un capitalista protestante.
(In Italia in questi ultimi cinque o sei anni le vocazioni religiose sono diminuite del 50 per cento.
Perché? Perché l'Italia si va industrializzando, e il mondo contadino classico va scomparendo. Non
posso però non notare, a questo punto, come invece le vocazioni siano aumentate negli Stati Uniti,
ossia nel Paese più industrializzato del mondo. Non solo, ma anche i fenomeni beat, hippies ecc.
sono fenomeni di carattere religioso. Ciò significa che anche il mondo industriale sta cominciando a
esprimere un suo spirito religioso: che tuttavia pare essere sostanzialmente diverso da quello
classico. La protesta, per esempio, sostituisce l´acquiescenza e la rassegnazione, la libertà sostituisce
la repressione, ecc. ecc.).
VIETNAM
Cosa dire del Vietnam che non sia stato già detto e che quindi non sia idiota? Io sono uno di quelli che parlano il meno possibile del Vietnam. Parlo del Vietnam generalmente per dire che ci sono delle cose peggiori del Vietnam. Per esempio la stampa conservatrice e la televisione. Ho molto amore per i marines che Johnson (come in un sogno, dice Moravia) mandava a morire nel Vietnam, tuttavia sono costretto a gridare: «Viva i Vietcong!».
CASTRISMO
Sospendo ogni giudizio sul castrismo finché non avrò visto coi miei occhi (o finché qualche persona
attendibile non me lo abbia testimoniato) che a Cuba ci sono dei campi obbligatori di lavoro e di
rieducazione.
COMUNISMO E RELIGIONE
La coesistenza tra comunismo e religione è concepibile in un mondo come quello italiano, per es.
Perché? Perché l´Italia non è ancora un Paese del tutto industrializzato (il Sud fa idealmente parte del
Terzo Mondo) e quindi tra i contadini e tra gli ultimi artigiani, la religione è un fenomeno naturale e
sincero. Anche la borghesia italiana, che è molto recente (tutti i nostri nonni sono dei contadini: nel
1870, anno dell'unità d'Italia, il novanta per cento degli italiani erano analfabeti) sente ancora,
contadinescamente, la religione come una necessità. Gli otto milioni di votanti comunisti sono in gran
parte non solo cattolici per mentalità, ma sono addirittura praticanti. Il laicismo in Italia è un fenomeno aristocratico, praticato da élites borghesi a livello europeo.
La guerra fredda e l'anticomunismo in Italia sono dunque due cose stupide, e il dialogo, instaurato da
Giovanni XXIII, era già nelle cose e nei fatti. Tutto il resto era eredità fascista.
Per i Paesi completamente industrializzati e con grandi e vecchie borghesie (Inghilterra, Stati Uniti) il
discorso è molto diverso. Il laicismo (che è la religione del liberalismo) vi ha una grande diffusione,
anche tra i lavoratori. Così la religione (il protestantesimo, religione «tradizionale» della borghesia) si è liberalizzata; comunisti ce n'è pochi. La questione del «dialogo» non è perciò di attualità: o comunque è un problema di affari esteri. Dunque, comunismo e religione possono coesistere nei Paesi preindustriali, dove comunismo e religione si oppongono in concreto come due ideologie diverse: nei Paesi completamente industrializzati (o capitalisti o socialisti) tale coesistenza è puramente un fatto teorico, perché in realtà non c'è coesistenza storica e oggettiva.
Per concludere vorrei dire tuttavia che il «contrario» della religione non è il comunismo (che, benché
abbia preso dalla tradizione borghese lo spirito laico e positivistico, è in fondo molto religioso); ma il
«contrario» della religione è il capitalismo (spietato, crudele, cinico, puramente materialistico, causa di sfruttamento dell'uomo sull'uomo, culla del culto del potere, covo orrendo del razzismo).
PACIFISMO
Non sono un pacifista per natura, ma per elezione.
TEATRO E CINEMA
Ci sono (e ci saranno sempre) dei furfanti che fanno il cinema e il teatro commerciale, con lo scopo di
divertire (per incassare), e ci sono (e ci saranno sempre) degli imbecilli che fanno il cinema e il teatro
per educare (senza incassare). In realtà il cinema e il teatro d´autore non sono fatti né per divertire né
per educare.
UN BUON FILM
C'è una sola cosa essenziale in un buon film: il fatto che sullo schermo passi della realtà.
BENE E MALE IN ARTE
L'arte è una concezione: è un sistema stilistico dentro un sistema linguistico. È un messaggio dentro
un codice. Ciò implica molti compromessi. Certo la forma più pura di arte è il completo silenzio dei
poeti che non scrivono.
SOFFERENZA E ARTE
Per quel che ne so, non direi che soffrire è necessario (perché in tal modo enuncerei una regola e
farei quindi della tranquillizzante retorica), ma che è inevitabile.
COMUNISTI DA SALOTTO
Penso dei comunisti da salotto ciò che penso del salotto. Merda.
IL MONDO VA A SINISTRA
Ci possiamo chiedere lecitamente due cose opposte: 1) Perché il mondo è a destra? 2) Perché il
mondo va a sinistra? Non so se nel futuro immediato prevarrà lo stare a destra o l'andare a sinistra.
Comunque si può dire che a destra ci sono, o ci furono: Franco, Salazar, i colonnelli greci, i clericali
italiani, i neocapitalisti anche più progrediti francesi e inglesi, Johnson, tutta la provincia americana, e, inoltre le persone ricche di tutto il mondo (Re arabi, maraja indiani, feudatari siciliani ecc. ecc., coi loro servi: costituiti soprattutto da intellettuali conservatori, per democrazia a parole, per interesse nei fatti). Vanno a sinistra invece tutti i pastori e i contadini del Terzo Mondo (circa due terzi dell´umanità), i negri d´America, la Nuova Sinistra americana, i giovani figli dei capitalisti inglesi e francesi, quattro gatti d'intellettuali, e, benché piano piano, le classi operaie del neocapitalismo di tutto il mondo, comprese Castiglia e Attica.
Alla testa di chi resta a destra non c'è nessuno se non l'orrenda faccia di una réclame televisiva che
rappresenta un antipatico e stronzo benessere; alla testa di chi va a sinistra ci sono i Vietcong vivi e
morti, le Guardie Rosse e i ragazzi dell'Urss (che in questo momento è ferma).
IL CAPITALISMO
II capitalismo è oggi il protagonista di una grande rivoluzione interna: esso sta evolvendosi,
rivoluzionariamente, in neocapitalismo.
In contraddizione con quanto dicevo prima, potrei dire che la rivoluzione neocapitalistica si pone come competitrice con le forze del mondo che vanno a sinistra. In un certo modo va esso stesso a sinistra.
E, fatto strano, andando (a suo modo) a sinistra tende a inglobare tutto ciò che va a sinistra. Davanti a
questo neocapitalismo rivoluzionario, progressista e unificatore si prova un inaudito sentimento (senza precedenti) di unità del mondo.
Perché tutto questo? Perché il neocapitalismo coincide insieme con la completa industrializzazione
del mondo e con l´applicazione tecnologica della scienza. Tutto ciò è un prodotto della storia umana:
di tutti gli uomini non di questo o quel popolo. E infatti i nazionalismi tendono, in un prossimo futuro, a essere livellati da questo neocapitalismo naturalmente internazionale. Sicché l´unità del mondo (ora appena intuibile) sarà un'unità effettiva di cultura, di forme sociali, di beni e di consumi.
Io spero naturalmente che, nella competizione che ho detto, non vinca il neocapitalismo: ma vincano i
poveri. Perché io sono un uomo antico, che ha letto i classici, che ha raccolto l´uva nella vigna, che ha contemplato il sorgere o il calare del sole sui campi, tra i vecchi, fedeli nitriti, tra i santi belati; che è poi vissuto in piccole città dalla stupenda forma impressa dalle età artigianali, in cui anche un casolare o un muricciolo sono opere d´arte, e bastano un fiumicello o una collina per dividere due stili e creare due mondi. (Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo creato, con la violenza, dalla necessità della produzione e del consumo.)
IL GENIO
Geni si nasce o ci si crea? Prima di tutto si nasce uomini. Poi nei primi anni dell´infanzia si prendono
tali spaventi o si esperimentano tali dolcezze, che tutta la vita ne è determinata. Un genio (odio questa
parola) è determinato dagli spaventi o dalle dolcezze (ambedue estremi) che ha subito da bambino. Il
«crearsi» genio consiste in un manovrare (accanito, occulto, inconscio, invasato, irrefrenabile) per
ricreare le dolcezze infantili o per creare barriere contro gli spaventi infantili.
LIBERTÀ SESSUALE
La libertà sessuale è necessaria alla creazione? Sì. No. O forse sì. No, no, certamente no. Però... sì.
No, è meglio no. O sì? Ah, incontinenza meravigliosa! (Ah, meravigliosa castità.)
MIGLIORAMENTO DEL MONDO
Un singolo che faccia qualcosa proponendosi «il miglioramento del mondo» è un cretino. Per la
maggior parte, coloro che pubblicamente lavorano «al miglioramento del mondo» finiscono in carcere per truffa. Inoltre il mondo riesce sempre alla fine a integrare gli eretici. Per esempio le beatificazioni e le santificazioni... Ammettete che santifichino Papa Giovanni XXIII: eccolo integrato, messo in un santino e esorcizzato. E non c´è dubbio che Giovanni XXIII abbia contribuito a un possibile miglioramento del mondo. Ma se qualcuno gli avesse chiesto: «Scusi, lei contribuisce al miglioramento del mondo?», lui l'avrebbe preso in giro, o magari mandato al diavolo, e certamente poi sorridendo avrebbe detto fra sé: «Faccio quello che posso».
In realtà, il mondo non migliora mai. L'idea del miglioramento del mondo è una di quelle idee-alibi con cui si consolano le coscienze infelici o le coscienze ottuse (includo in questa classificazione anche i comunisti quando parlano di «speranza»). Dunque, uno dei modi per essere utili al mondo è dire chiaro e tondo che il mondo non migliorerà mai, e che i suoi miglioramenti sono metastorici,
avvengono nel momento in cui qualcuno afferma una cosa reale o compie un atto di coraggio
intellettuale o civile. Solo una somma (impossibile) di tali parole o tali atti effettuerebbe un
miglioramento concreto del mondo. E sarebbe il paradiso e la morte.
Il mondo può peggiorare, invece, questo sì. E per questo che bisogna lottare continuamente: e lottare,
poi, per un obiettivo minimo, ossia per la difesa dei diritti civiIi (quando si siano ottenuti attraverso
precedenti lotte). I diritti civili sono infatti eternamente minacciati, eternamente sul punto di venire
soppressi. È necessario quindi anche lottare per creare nuovi tipi di società, in cui il programma
minimo dei diritti civili sia garantito. Per esempio, una società veramente socialista.
COMUNISMO TRADIZIONALE
Sì, il comunismo tradizionale è finito. Tre ne sono le cause: il neocapitalismo con il suo nuovo tipo di
civiltà tecnologica, il Terzo Mondo con la sua vecchia società contadina, e la Cina che non vuole
arrivare alla civiltà tecnologica attraverso la fase piccolo-borghese.
LOTTA DI CLASSE
La lotta di classe oggi non è più quella classica (l'ultimo esempio è quello di Cuba, la cui rivoluzione è ancora straordinariamente analoga a quella russa del '17). Cos'è successo? Gli operai sono sempre
più conquistati dalla «qualità di vita» che è tipica della totale industrializzazione e della civiltà dei
consumi (col mito della tecnica), mentre i contadini, che hanno partecipato alle guerre di liberazione
nazionale in tutte le ex colonie del mondo, hanno una maggiore coscienza sociale e classista che nel
passato.
IL CATTOLICESIMO
II cattolicesimo oggi è occupato soprattutto a sopravvivere. Diminuite le vocazioni del cinquanta per
cento, chiusi all'apostolato i Paesi ex coloniali (ricordo l´episodio del Basso Sudan), la Chiesa cattolica ha capito che per sopravvivere deve insieme: a) essere la Chiesa del Terzo Mondo, ossia tornare alle origini contadine e povere; b) essere la Chiesa del mondo industrializzato, capitalista o comunista, che ha esigenze religiose di tipo del tutto nuovo. Sono due necessità assolutamente contraddittorie.
VIOLENZA
Se sono attratto dalia violenza in sé? Che domanda difficile! Come faccio a conoscere II mio
inconscio? Se lo conoscessi non sarebbe più inconscio! La psicanalisi ci ha dato la maledetta
abitudine di «giudicare» gli altri anche attraverso le tendenze del loro inconscio (come se potessimo
analizzarli da provetti psicanalisti, poi!). Per esempio, uno va sotto un'automobile, poveraccio: e allora tutti noi in coro: «Pazienza, se è andato sotto un'automobile, vuol dire che cosi egli voleva. Quindi tanto peggio per lui!». Nella mia coscienza, posso dire questo: che io ho il mito materno della bontà e della mitezza, ed è questo mito che vorrei realizzare vivendo. D'altra parte sono tante le offese e le delusioni che questo mio mito ha sofferto, nelle esperienze reali della vita, che non ho potuto non ribellarmene indignato.
E poiché la mitezza e la bontà, per essere tali, devono essere intrepide (me lo diceva mia mamma,
magari non con le sue parole ma col suo essere), ecco che il mite e il buono, se si ribella, va fino in
fondo. È dunque molto idillica la versione che io do della mia violenza: che è comunque una violenza
tutta e soltanto intellettuale.
ATTACCO A PIO XII
Ho attaccato Pio XII per le stesse ragioni per cui la stessa Chiesa l´ha attaccato qualche anno dopo
(ultimo atto, la dispensa dai suoi incarichi del cardinale Ottaviani).
REGISTI PREFERITI
Dreyer (assolutezza sacrale deghi oggetti e dei volti); Buster Keaton (perfezione formale); Murnau (il
più bel film del mondo è L'ultima risata); Mizoguchi (grande come Giuseppe Verdi); Renoir e Tati (gli unici che hanno saputo fare della poesia sulla piccola borghesia); Bergman (non quello feudale, ma quello borghese di Luci d´inverno); Godard (come si fa a non amarlo?); il buono e matto Fellini;
Charlot (i più grandi piaceri del cinema). Aggiungerò, per completare il quadro, che non amo nessuno
dei miti dei «Cahiers du cinéma», cioè Hawks, Hitchcock, Ford. E detesto Eisenstein.
SOGGETTI RELIGIOSI
Sono un marxista che sceglie soggetti religiosi. Questa è bella! Esiste adesso anche un monopolio
sulla religione? Ecco la conclusione di quarant'anni di orrenda propaganda e di maccartismo! Molti
degli uomini più profondamente religiosi di questo secolo sono comunisti. Penso per esempio a
Gramsci (il fondatore del Pci). Essi hanno lottato per puro altruismo e hanno dato alla loro vita un solo alto ideale (che possiamo definire senz'altro ascetico), per cui hanno sfidato prigione, torture e morte.
S'intende che quando dico religioso non intendo dire credente in una religione confessionale. I
comunisti sono infatti (quasi tutti) laici e positivisti. Ma laicismo e positivismo essi l'hanno ereditato
dalia civiltà borghese (la grande civiltà borghese che ha fatto la rivoluzione liberale prima, e poi la
rivoluzione industriale). Solo che poi, nel borghese, laicismo e positivismo sono rimasti tali (patrimonio, tuttavia, di una élite borghese), mentre il nazionalismo e l'imperialismo, nati come conseguenza diretta del capitalismo, hanno respinto il borghese medio, ben presto, nelle vecchie posizioni clericali: a coltivare una religione di puro interesse, ipocrita, statale e addirittura feroce (vedi il clero zarista e franchista). Quindi, se mai, la domanda lecita non è affatto: «Può un comunista essere religioso?»; ma piuttosto: «Può un borghese essere religioso?».
CREDO IN DIO?
Mi sono sempre definito non credente dall´età di quattordici anni. Per la prima volta in questi ultimi
mesi ho in qualche modo concepito un´idea, sia pure immanentistica e scientifica di Dio.
Come ci sono arrivato è molto curioso. Io mi sono sempre interessato di problemi linguistici, sia pure
in campo strettamente italianistico, e in Italia passo per essere un linguista interessante sia pure male
informato e balzano. Ultimamente mi sono appassionato a delle ricerche linguistiche sul cinema. E,
naturalmente, non potevo non ricorrere alla semiologia: scienza per cui i sistemi di segni sono infiniti,
e non soltanto linguistici.
Sono giunto alla conclusione che il «cinema», riproducendola, fa una perfetta descrizione semiologica della realtà. E che il sistema di segni del cinema è in pratica lo stesso sistema di segni della realtà.
Quindi la realtà è un linguaggio! Bisogna fare la semiologia della realtà, altro che quella del cinema!
Ma se la realtà parla, chi è che parla e con chi parla? La realtà parla con se stessa: è un sistema di
segni attraverso cui la realtà parla con la realtà. Tutto ciò non è spinoziano? Questa idea della realtà
non assomiglia a quella di Dio?
COLPI DI STATO
Sia il tentato colpo di Stato italiano del 1964 che il colpo di Stato riuscito in Grecia, sono avvenimenti accaduti nell'ambito della Nato. In Italia è si fatto un processo contro i giornalisti dell'«Espresso» che hanno denunciato all'opinione pubblica alcuni dei responsabili del tentato colpo di Stato. L'inchiesta parlamentare è stata però bloccata dal partito cattolico (democristiano) con l'appoggio dei socialisti.
Evidentemente non si vuole risalire a responsabilità internazionali.
Noi intellettuali (in questa vicenda, molto grave) brilliamo per la nostra assenza. È vero, a cena, in
salotto, ne diciamo di cotte e di crude contro la classe politica dirigente, contro la borghesia italiana
che la esprime, e, in genere, contro questo piccolo, marginale, provinciale, qualunquistico, miserabile
Paese che è l'Italia. Ma noi? Cosa facciamo? Siamo forse migliori? Che cos'è che ci fa essere assenti
e muti? La paura? la prudenza? la sfiducia? la pigrizia? l'ignoranza? Si, tutto questo.
SOTTOPROLETARIATO
Mi attrae nel sottoproletariato la sua faccia, che è pulita (mentre quella del borghese è sporca); perché
è innocente (mentre quella del borghese è colpevole), perché è pura (mentre quella del borghese è
volgare), perché è religiosa (mentre quella del borghese è ipocrita), perché è pazza (mentre quella del
borghese è prudente), perché è sensuale (mentre quella del borghese è fredda), perché è infantile
(mentre quella del borghese è adulta), perché è immediata (mentre quella del borghese è previdente),
perché è gentile (mentre quella del borghese è insolente), perché è indifesa (mentre quella del
borghese è dignitosa), perché è incompleta (mentre quella del borghese è rifinita), perché è fiduciosa
(mentre quella del borghese è dura), perché è tenera (mentre quella del borghese è ironica), perché è
pericolosa (mentre quella del borghese è molle), perché è feroce (mentre quella del borghese è
ricattatoria), perché è colorata (mentre quella del borghese è bianca).
POVERI E RICCHI
I poveri sono reali, i ricchi irreali.
PAOLO VI
Si dice che Paolo VI sia «handicappato» dal fatto che Giovanni XXIII fosse più simpatico di lui. Lo
contesto assolutamente. Solo in senso superficiale Giovanni XXIII era pIù simpatico di Paolo VI. In
realtà se io penso ciò che significa «simpatia» (comunità di sentimenti) trovo che mi è piuttosto più
simpatico Paolo VI, perché egli soffre quello che soffro io, e si comporta in quel modo complesso,
difficile a capirsi, pieno di slanci e anche di contraddizioni, che è tipico di ogni intellettuale. Ciò che
rende simpatico Paolo VI è la sua tormentata intelligenza: e il fatto che egli non abbia qualità esteriori
di gradevolezza e, appunto, di simpatia, fa quasi tenerezza.
KENNEDY
Ah, cosa dire di John Kennedy! È l'unica persona di potere, l´unico uomo politico di cui vorrei essere
stato intimo amico.
PROTESTA AMERICANA
Come ho detto tante volte e da tante parti, io non voglio essere italiano. Vorrei essere americano.
Sarei naturalmente un americano dell'altra America. E finalmente la mia forma di protesta sarebbe
libera! Assolutamente, completamente, pazzamente libera! In Italia anche la protesta è conformista.
La protesta liberale usa un linguaggio liceale che puzza di cadavere, la protesta marxista è tutta
precostituita come un formulario. Mentre non c'è niente di più bello che inventare giorno per giorno il
linguaggio della protesta!
CINEMA E REALTÀ
Il sistema di segni del cinema è lo stesso sistema di segni della realtà. Per esempio: ho davanti agli
occhi la faccia di un ragazzo coi capelli ricci ricci, gli occhi a mezza luna, ridenti, un'espressione buffa e innocente che sembra impastata nella sua stessa carne. Di cosa si tratta? Di un ragazzo che ho
davanti a me nella realtà, o di un P.P. [primo piano] che mi appare nello schermo? Comunque sia,
esso mi parla allo stesso modo, e io lo capisco attraverso gli stessi segni. La reale natura di quel
ragazzo si esprime a me sempre nello stesso modo sia nella realtà che nello schermo.
Parlo s'intende di cinema puro, non di manipolazione commerciale (in cui tutto può venire falsato dal
manierismo del regista e degli attori... ma falsato, mi chiedo, fino a che punto?, la verità, alla fine, non salta sempre fuori? Se l'attore è un idiota che fa la parte di un genio, non salta fuori alla fine che è un idiota? Perché il cinema possa fare delle cose nuove, deve essere il meno manipolato possibile, sia
nel senso della commercialità, sia nel senso della sperimentazione stilistica: un film di Mekas e un film di Hollywood sono ugualmente lontani dalla realtà.
Ed è solo la realtà che può essere, o essere vista, in modo nuovo. Se un regista ha un'idea nuova
della realtà, dirà nei suoi films delle cose nuove.
PER DE FILIPPO
Eduardo De Filippo è il più grande attore italiano. Egli recita in dialetto napoletano. Senza che egli
ancora lo sappia, io ho progettato di scrivere un testo teatrale per lui. Di questo testo teatrale so solo,
per ora, quattro cose: 1) che è parlato in napoletano; 2) che s´intitola Mandolini; 3) che è ambientato
in Cina, tra contadini e Guardie Rosse; 4) che il protagonista è un cinese che si finge morto, e si
risveglia solo quando è solo, facendo quattro chiacchiere fra sé, e una volta, per sgranchirsi le gambe,
fa un balletto accompagnato dal suono dei mandolini. Probabilmente l'uomo che finge di essere morto è un simbolo del mio giudizio sul comunismo cinese. Resusciterò? Farò un balletto al suono dei mandolini? Cancellerò da me ogni segno di cultura, occidentale o orientale, e riavrò la verginità
culturale dei contadini?
SISTEMA AMERICANO
Del sistema politico americano amo la forma di contestazione che esso consente, che si può
riassumere in una massima folle e meravigliosa: «Solo la vera democrazia può distruggere la falsa
democrazia».

Pier Paolo Pasolini Quasi un testamento. Un'intervista di Peter Dragadze. Gente, 17 novembre 1975
pp.25, 26, 29, 31, 32, 35.

lunedì 18 maggio 2020

vanda e attilio - italo calvino


Italo Calvino Vado in montagna O bella ciao
L’amore di un’estate e la lotta partigiana nell’ultimo racconto inedito dello scrittore
di Italo Calvino
Igiardini municipali erano d’un gusto convenzionale e chiassoso, da cartolina patinata a colori: i mosaici di sassifraghe sui prati verdi, i lontani ventagli delle palme, le roccaglie irte d’agavi color caimano. Una volta nella loro vita centenaria, le agavi divaricano le loro foglie carnose e la sovrabbondanza dei loro umori spinge al cielo un fiore dal gambo lunghissimo ed esile. Sarebbe venuta anche per Vanda la volta di cedere ai fremiti che le tendevano la pelle liscia, inquietavano di piccoli morsi i suoi baci. Ma i pensieri e i discorsi dell’amore erano, attraverso le generazioni, giunti a lei legati a immagini di riti e amuleti, veli e anelli, impediti da divieti e reticenze, ma come una promessa garantita da un sistema ormai stabilito e facile alle indulgenze. La sua femminilità era tranquilla e chiassosa; la sua vita, la sua bellezza erano come sullo sfondo di una cartolina patinata a colori, come l’ignoranza del male nel mondo.
Bastava, stando tra le braccia di Attilio, scostare le anche dall’aderire alle sue, schermire dal gioco delle sue mani le mammelle sensibili come colombe, una questione d’attenzione come il badare a non posare la bocca tinta di rosso sulla camicia dell’amico, appoggiando la guancia sul suo petto.
Anche in Attilio era un guardingo senso di pericolo. Ad addentrarsi in quei minati terreni, con la schermaglia dei discorsi, con l’abbandono delle espansioni, ad incrinare la patinata superficialità del flirt, puntuale risorgeva in lei il motivo del suo primo fidanzamento tragicamente interrotto, della sua annoiata attesa di ragazza da marito, del viaggio di nozze sognato fin da fanciulla, in alberghi dalle fresche hall fastose. Attilio non era un ragazzo scapestrato o cinico; si ritraeva con una segreta furiosa paura; meglio fermarsi con le dita tra i suoi capelli biondi e fluidi, limitare la carezza alla seta azzurro-campanula della veste.
Sulla strada tra i giardini e il mare passavano carriaggi tedeschi, in fila. — Conti i carri che passano? — chiese Vanda. Scosse il capo. — Dove andranno in là? — si domandò. — In Francia. Hanno fermato gli inglesi, ormai. L’ha detto la radio.
Attilio pensò all’inutilità di quel suo andare con Vanda, assurdo nello schema delle convenzioni come erano assurdi i cactus barbuti, i cereus deformi nelle artificiose roccaglie: tutti simboli di una vicenda che Vanda non comprendeva, come non comprendeva le vicende della guerra: ogni cosa le arrivava attraverso echi di schemi falsi e morti: matrimoni, bollettini.
Pure era contento di andare con Vanda, la ragazza più bella della spiaggia, dal corpo superbo e tranquillo; quella placida, ridente bellezza doveva dargli la sicurezza di sé stesso che gli abbisognava in quei giorni, non il tormento. Si sentiva di volerle bene, talvolta, a guardarla d’essere affezionato a quella sua persona armoniosa, a quelle anche piene, a quei seni piccoli come campanule sotto la veste azzurra, come le colombe, i caprioli del cantico dei cantici.
— Cavriuoletti, — disse. — Mmm...? — fece Vanda. — Cavriuoletti, — ripeté. — Ma che dici? — Spiegarsi era inutile, non si sarebbero mai compresi.
A un certo momento lei cominciava a giocare come una grande gatta, a aggiustargli il colletto della camicia aperta, a frugargli nelle tasche. La fermò con la mano già nella tasca destra della giacca, con le dita già strette intorno al foglio.
— Lascia stare, curiosa! — Ma s’era fatto serio. — Perché? Segreti? — Non mollava. Le storse un poco il polso, piano. — T’ha scritto la bruna? — No. La rossa. — Dammi, voglio leggere anch’io. — Lascia. — Guarda che strappo. — Tanto non capirà, si disse. Lei guardò il foglio ruvido, dagli sbiaditi caratteri ciclostilati. Lesse: — ... Per la salvezza del paese, la classe operaia dev’essere all’avanguardia di tutto il popolo... — Cos’è? — chiese. — Dispense. Diritto civile. Una barba. Ti diverte? — Lei rimise il foglio in tasca. — C’era bisogno di far tanto il misterioso? — Attilio si stupì di sentirsi deluso; aveva sperato qualcosa. Ma cosa c’era da sperare?
Uscendo dai giardini incontrarono Edmondo. Attilio trasalì leggermente al vederlo: già qui? Edmondo si fermò a salutarli. Era uno spilungone, Edmondo, un po’ impacciato, come tutti i ragazzi grandi e grossi quando s’accorgono d’essere beneducati e se ne vergognano.
— Diversi giorni che non ti si vedeva, Edmondo, — disse Vanda. — Non vieni più alla spiaggia? — Sono stato un po’ in campagna, a studiare. — L’occhiata tra lui e Attilio non occorreva fosse allusiva. — Allora come va, Mondo? — fece Attilio. — Bene. Bene. Abbastanza. — Abbastanza? — Sì, sì, abbastanza. — Come, abbastanza? Bene o non bene? — Bene, bene, in complesso. — Era un discorso misterioso, Vanda li guardava con tanto d’occhi, bisognava tagliar corto. Cercarono di parlar d’altro, camminando tutt’e tre insieme.
Per fortuna passò un’amica di Vanda e si fermarono a discorrere. Attilio tirò da parte Edmondo. — Allora? — Ieri battaglia a Pian del Carpe. — Lo so. Com’è andata? — Due camion carichi di tedeschi messi fuori combattimento. Il terzo è arrivato dopo e li ha sorpresi. Un morto: Gordon. Kim è ferito. Il resto un po’ sbandato ma si ricompone. — C’eri? — No, ero a Valdenga, al comando. — Come sono? — Molti. Armi non tante per ora, ma se le procurano. — D’aspetto, come? — Uomini come gli altri, un po’ sporchi. Comunisti, però. Bandiera rossa, salutano col pugno chiuso. — Ben, non fa niente, l’importante è combattere. Edmondo scosse un po’ il capo; era liberale, lui; quelle cose non gli garbavano. — Tornerai su presto? — Dipende dal comitato, se ha da mandarmici.
L’amica s’accomiatò, anche Edmondo salutò Vanda e li lasciò soli. — Cosa c’era di misterioso tra te e Edmondo? — Bastava accennasse a una storia di ragazze e lei avrebbe creduto. — Nulla, — disse. — Cose di studio. — Gli seccava dover inventare tutta una storia, sotto le domande di lei.
— Credi di darmela a bere? Bene... non bene... abbastanza bene... Dove è stato in questi giorni, Edmondo? — Era noiosa certe volte, Vanda. — Per i fatti suoi, sarà stato. — Fatti di che genere? — Era inutile insistere. — Sai, si tratta di una ragazza... — cominciò Attilio.

Dopo cena lui e gli amici si radunavano in sette o otto tutti su una panchina della passeggiata, stipati tanto che qualcuno finiva sempre fuori. Si sarebbe detto che commentassero il passeggio delle ragazze, ma le parole che giravano sulle loro bocche erano sommesse e rapide come lampi d’estate: — Una carica di tritolo sotto il ponte... Saranno cento, centocinquanta uomini... Il capo è Anselmo: è stato in Spagna con Negrin... Il Cotentin è libero... Puntano su Bordeaux... Tra i socialisti e i comunisti c’è questa differenza... — Edmondo raccontava fitto fitto delle sue missioni, bersagliato di domande; Attilio faceva strisciare volantini nelle tasche e s’arrabbiava in spiegazioni politiche raggomitolandosi sulla panchina nel calore del discorso; in mezzo a loro, con gli occhi semichiusi, il capo reclino sul lungo collo, sempre zitto, il Nato-Stanco sembrava che nemmeno li ascoltasse. Si sedeva tra loro, geometricamente, senza gualcire d’una ruga l’abito stirato, s’alzava a mezzo d’un discorso e s’allontanava silenziosamente, con passo sfiduciato.
Il Nato-Stanco, lo chiamavano: in mezzo a loro, a quei loro discorsi echeggianti di scoppi e spari, colorati come carte geografiche e pavesi di bandiere, quel tipo silenzioso e indifferente rappresentava quasi il peso d’una loro condanna: era il ragazzo che non crede già più a nulla, non partecipa, che non si sente parte in causa. Quando Luisa passava, con la sorella, ogni sera, lui le s’accodava, con uno scheletrico cenno di saluto e prendeva a camminare al suo fianco, muto. Lei cominciava ad aizzarlo, pungente e il Nato-Stanco la fissava con gli occhi semichiusi, il labbro inclinato in un pigro sorriso, dandole ogni tanto una breve e lenta risposta.
Ma gli altri non erano come lui, non volevano esserlo. Sui monti dietro a loro, vedevano avanzarsi figure avventurose, un’epopea da paesi vergini di storia: i partigiani. Qualcuno aveva già deciso, sarebbe salito con loro: Attilio era di questi.
— Lascerai Vanda? — Chi gli aveva fatto questa domanda era uno sciocco. Vanda, che importanza aveva, Vanda? — A Vanda dirò che vado a Genova all’Università. — Ma era umiliante che per allontanarsi da Vanda bisognasse trovare la scusa, proprio come per allontanarsi dall’impiego nella ditta tedeschizzata, che gli garantiva l’esonero dall’esercito. E come i fascisti avrebbero fatto indagini per rintracciare l’esonerato disertore, così Vanda lo avrebbe cercato, avrebbe domandato di lui. — Perché nasconderglielo? — gli chiese un amico, — il fascino del ribelle, vuoi mettere? Non è una ragazza romantica, Vanda? — Romantica? Cioè che piange ai film d’amore, seduta sulle poltrone di velluto dei primi posti? — Certo, bisogna che glie lo dica, a Vanda. La prenda come vuole. — Quando Vanda passava davanti alla panchina, lui salutava i compagni e la raggiungeva, crogiolandosi nella loro invidia. Ora bisognava, parlando con Vanda, tirare il discorso su quell’argomento, anche in mezzo alla loro conversazione che non s’alzava d’un palmo sopra la banalità, ravvivata ogni tanto da qualche pallido frizzo, come dallo scodinzolare d’un cane bassotto.
Per esempio: mare e montagna. — Mi piace molto la montagna, — disse Attilio. — Partirmene a piedi e girare per una settimana le Alpi Liguri, dormendo nei casolari e nei rifugi.
— A me piace un po’ Cortina, il Breuil; da questa parte non c’è nulla che valga la pena, paesetti senza vita, ci si annoia. — Non era un inizio confortante. — Tutte le estati facevo un giro, sacco in ispalla. Peccato quest’anno con questi ribelli, questi tedeschi. Si rischia di prendersi una raffica in pancia. — Bel gusto! — fece Vanda. Attilio inghiottì saliva, riprese: — Eppure, di un po’ di montagna ne ho proprio voglia; sarei quasi tentato d’andarmene coi partigiani; dev’essere una vita pittoresca; mi attira. — Era un modo d’arrivarci vergognoso, vigliacco: ma Attilio, ad andare con Vanda, s’era avvezzato a questo torpido mentire, a questa maschera grigia e avvilente; perché?
— Mamma mia! — fece Vanda. — I ribelli! Vorrei proprio vederti!
Attilio non si smontò. — Non ti piacerebbe che fossi un partigiano, uno barbuto che gira nei boschi vestito di telo da tenda, col
la cartuccera...? — Era un’immagine ridicola, creata apposta per Vanda, ma in fondo anche lui i partigiani li immaginava così.
— Ma perché poi fanno i partigiani? — Rispondere a queste domande di Vanda era difficilissimo; non bisognava tirare in ballo le idee, neppure sfiorare le idee, neppure far sospettare che si aveva delle idee: Vanda si sarebbe ritratta spaventata come una cavalla a un’ombra sconosciuta. Bisognava muoversi nel vuoto pneumatico, indicarle qualche immagine che fosse catalogata nei suoi schemi, come in una scrittura a geroglifici.
Le parlò della vita noiosa di quei tempi, senza distrazioni; disse che aveva voglia di muoversi, di vivere all’aria aperta, di picchiarsi. — Tu!? — fece Vanda.
Certo era strano sentire Attilio entusiasmarsi per uno sport violento; si sarebbe capito da parte di un rompicollo, di uno di quei ragazzi che vanno in motocicletta, in motoscafo, non da parte di Attilio, che aveva paura a tuffarsi dal trampolino alto.
Attilio si sentì ferito, quasi si fosse messa in dubbio la sua virilità; era una velleità intellettuale, questo suo voler fare il partigiano, ora lo capiva, nient’altro che una velleità intellettuale, ma lui ci si accaniva con furore.
— Così, mi lasceresti, per il gusto di girare per i boschicon un fucile a trombone? — Ormai non c’era che mettersi a dire stupidaggini. — Verrai anche tu sui monti, s’intende! Sarai la mia squaw!
Accenderai il fuoco quando tornerò dalla battaglia, mi darai da bere brodo d’alce mentre farò asciugare i mocassini! — C’era una donna lassù tra i partigiani, gliel’aveva detto Edmondo, una jugoslava: portava i calzoncini corti e sparava il mitra.
Attilio doveva rompere con Vanda, non c’era scampo. La bionda Vanda dalla bocca vittoriosa, dalle vesti color campanula e color bouganvillea
apparteneva a un mondo tramortito, deluso nel fondo delle sue fibre. La loro avventura, l’apoteosi dei loro frusti ideali, era caduta in un rogo dalle ali spezzate, come l’apparecchio del primo fidanzato di Vanda, morto nel cielo di Russia.
Sulla spiaggia i corpi fermentavano di sole e di noia. Era un’estate morta, per i bagni: le spiagge abbandonate, ingombre di costruzioni antisbarco, il mare nero minato tutt’intorno, la sabbia trascurata, sporca come terra. Nessun bagnante venuto di fuori: solo soldati tedeschi dal corpo bianco e carnoso, con mutande ridicole.
— Quest’anno non si guarda tanto per il sottile. Quella che può accaparrarsi un uomo è fortunata. — Chi parlava così era Elsa, il volto madido di crema, gli occhiali neri come orbite di teschio, il corpo steso sulla sdraio, nel prendisole gonfio come un sacco. Quanti anni aveva Elsa, ventisette, ventotto? Si diceva non avesse mai avuto
in vita sua. Tornavano sempre nei suoi discorsi, gli uomini, con malinconia, con cinismo. C’era una valanga d’amore in lei che attendeva di scatenarsi, stretta nel prendisole attillato, amore di ragazza, amore di amante, amore già di madre: forse per questo i ragazzi ne avevano paura. Era inacidita in quell’abbandono: si vendicava a suo modo, con discorsi che volevano essere spregiudicati, dove uno scetticismo da salotto lottava con una superstite nostalgia d’illusioni romantiche, in un contrasto che muoveva a compassione.
Sua sorella, Luisa, bella e pratica, dal sentimento paziente e senza problemi, aveva flirt 
silenziosi e brevi con ragazzi più giovani di lei, in attesa che il fidanzato lontano tornasse a sposarla. Ora andava con Ruggero, il Nato- Stanco, ideale per quel genere di relazione, perché non ne faceva mai parola ad alcuno, sapeva attendere e non s’impazientiva ai suoi capricci. Se Luisa avesse appartenuto a un altro rango avrebbe condotto certo una vita più libera, invece le toccava aver pazienza fino al giorno del matrimonio; poi la vita coniugale le si proponeva come qualcosa di pieno e d’intenso: l’affetto del marito, l’ammirazione dei cicisbei, e forse l’avventura.
Le altre due sorelle: Olga, piccola e grassotta, che si faceva sempre prendere in giro dai fidanzati, e Enrichetta, un po’ languida, proclive agli strofinamenti felini contro il corpo dei compagni più robusti e abbronzati, erano figlie di una boliviana cinquantenne, che sedeva sulla sdraio posando sull’ombrellone inclinato una gamba grassa e lardosa, scrutando gli uomini con un gonfio occhio semichiuso. Al braccialetto le ciondolavano dei dischetti d’oro:
Vanda era la più bella della compagnia d’amiche, scolpita in una carne senza fremiti. Ed era la più sana, discendeva assai prossimamente da una prolifica razza contadina. Sapeva difendersi; e forse quel suo aver scelto d’andare con Attilio, il ragazzo intellettuale dalle scapole sporgenti e dalle natiche magre, era un espediente della sua difesa. E poteva essere anche grazioso, di fronte alle amiche, l’andare con quell’orso di Attilio, che diceva sempre stramberie, e ricondurlo alla società, al rispetto delle convenienze.
Era una società che moriva in costume da bagno. Tutta la loro etica era in quei loro superstiti costumi da bagno, che delineavano e nascondevano con finta pudicizia i loro inguini. La vecchia madre boliviana che le sorvegliava era la carne eterna e sonnacchiosa, la loro prima materia.
Gli aviatori del convalescenziario erano i frequentatori più assidui della spiaggia: tutti feriti, parecchi mutilati. Attilio a trovarsi in mezzo a loro, a ascoltare i loro discorsi di fidanzamenti e d’adulterii, di balli ora proibiti, domani finita la guerra ripresi, di bombardamenti fatti o subiti, considerava con orrore e pietà quella loro esplosione per le terre e i mari, ora vinta e travolta, a difesa disperata del loro piccolo mondo convenzionale di fidanzamenti e d’adulterii, e gli pareva d’essere prigioniero d’una gente senza vie di salvezza, come di quel cerchio di corpi seminudi, taluni ridotti a tronconi, quasi rottami gettati là da un naufragio.
Perché restava là in mezzo, allora? Egli non era un vinto, la sua avventura cominciava oggi e apriva una stagione nuova.
Vanda era una fiamma fredda, come era freddo in lei il ricordo del fidanzato che cadeva bruciando sulla Russia, rammentato oramai senza rimpianto, come un simbolo della loro fatalità comune.
Gli operai erano diversi. Arrivavano a casa sua in uno o due, coi calzoni rattoppati, il fascio degli stampati sotto la camicia. Non erano mai contenti del lavoro svolto da Attilio. — Organizzare, organizzare, — dicevano. Una parola dura, per Attilio, in principio. — Noi abbiamo organizzato tutta la ditta X, tutta la fabbrica Y, trecento operai circa. Possibile che tu non riesca a mettere insieme quattro studenti? — Come si faceva a spiegare loro la mentalità degli studenti? — Dicono che non capiscono a cosa serva il Fronte; a ogni modo quando c’è da far qualcosa loro ci stanno. — Di ognuno che lui organizzava chiedevano: — È un compagno? — Era difficile per uno studente essere un compagno, come si faceva a spiegarlo a loro?
Attilio passava loro gli articoli appena scritti, loro li intascavano senza guardarli; forse li ciclostilavano senza nemmeno leggerli. Il triste dello scrivere clandestino, per Attilio, era nel non sapere chi avrebbe letto e nel non poter far sapere che era lui a scrivere: un castigo per la sua ambizione.
Però, passando davanti alla sua biblioteca, gli sguardi degli operai s’incantavano sui ripiani stipati di volumi. Avevano un grande rispetto per i libri; li aveva visti una volta con libri allora allora comprati: di volgarizzazione scientifica, di storia, scelti con liberalità. (— Che libro stai leggendo? — gli aveva chiesto Vanda, una volta. — Il Faust. — Su, dimmi cosa stai leggendo. — Il Faust di Goethe, ho detto. — Dai, non scherzare, dimmelo. — Ma che c’è di strano: Goethe. — Uffa. Quante storie fai. — Beh, un romanzo di Foldy. Poi te l’impresto.) Forse prestando dei libri agli operai si sarebbe potuto spiegare meglio con loro. Ma sarebbe stata una cosa assurda,
non c’era che da combattere. Per combattere bisognava lasciare Vanda. Dopo aver parlato per due ore di stupidaggini con Vanda, con la bocca amara come dopo un cattivo risveglio, a incontrare gli operai, a udire le notizie che gli dicevano: — È successo questo, quest’altro, non sai? — si sentiva tagliato fuori, si vergognava di sé stesso.
Mentre tante cose succedevano nel mondo intorno, arresti, uccisioni, lei gli proponeva una delle sue solite stupide questioni, se poteva esistere un amore soltanto spirituale che non fosse anche materiale, e sosteneva che poteva esistere, e lui s’affannava invano a spiegarle che lo spirituale e il materiale erano la stessa cosa. Poi s’infuriava contro sé stesso; ogni volta.
Incontrò gli operai passeggiando a braccetto con Vanda. Se ne venivano vestiti coi loro abiti buoni: uno, il gasista, secco e striminzito, l’aria patita; l’altro, il meccanico, con la schiena da pugilatore, lo sguardo olimpico. A un loro cenno lasciò Vanda, scusandosi. Erano in un giro solitario di un viale. — Sai, hanno preso Gigi, pare sorveglino anche noi, forse anche te. Non venire a casa nostra, neanche noi da te.
Su Gigi non hanno prove, forse lo rilasciano. Sta’ all’occhio. — Non state a pensare a me. Al primo accenno d’aria cattiva: ai monti! Se non posso più fare attività qui, passo lassù. — Anche gli operai erano d’accordo. Poi cambiarono discorso. — Dì, sai che hai una donna fenomenale? — disse il gasista. Il meccanico annuì gravemente, sporgendo il labbro di sotto con aria da intenditore.
"Crederanno che ci dorma assieme?" pensò Attilio. Ma l’avere una bella donna sentiva che lo avvicinava a quegli uomini, pur nella loro invidia; non era come avere una bella casa, dei bei libri, cosa di cui quasi si sentiva umiliato, di fronte a loro, cosa che dichiarava solo uno squilibrio sociale, tra lui e loro; nell’avere una bella donna era in gioco qualcosa di comune tra lui e loro. Di fronte alla bellezza delle donne erano compagni come di fronte al tedesco che li avrebbe forse arrestati insieme.
Con quest’animo raggiunse Vanda: si sentiva ravvicinato anche a lei, adesso; ora che la vedeva giustificata pure agli occhi dei compagni.
— Chi erano? — chiese Vanda. — Due della ditta. Questioni di turni. — Così tutto tornava come prima. Il gioco stupido ed inutile.
Ma se l’avessero arrestato, cosa avrebbe detto, Vanda? Se l’avessero fermato, mentre era a braccetto con lei, due militi, e l’avessero portato via in mezzo a loro, ammanettato? Già la vedeva, ferma, che li guardava allontanarsi, impietrita dallo stupore, gli occhi già pieni di lacrime... Perché? Perché questo a Vanda? Alle volte gli prendevano degli slanci di tenerezza, per Vanda, quasi una precoce nostalgia, che preveniva la separazione. "Già: capisco perché dici sempre che vuoi andare in montagna e non ti decidi mai..." gli aveva detto il gasista, maligno. Ecco: anche gli operai comprendevano. Se avessero avuta una donna così, anche loro, forse...
Doveva essere dolce e soffice la vita accanto a Vanda, come in un mondo di zucchero filato e di croccante, una vita senza problemi, lievemente animalesca, da sani animali soddisfatti: i borghesi! Perché non accettava Attilio questo suo posto di borghese assegnatogli dal destino, dalla natura? Perché pretendeva di risolvere le contraddizioni del mondo, e s’impelagava in contraddizioni ancora più stridenti? In quel suo spirito di ribellione, in quel suo consumarsi in una passione letteraria o politica, quanto non era residuo dell’ombrosa solitudine dell’adolescenza, quando la donna è una terra misteriosa e irraggiungibile? Ora egli aveva la donna, così, senza ribellione, senza gloria: la sua vita sarebbe stata soddisfatta anche così, ereditando l’agiata professione paterna, considerando con moderato umorismo quel piccolo mondo provinciale, accanto ad una moglie elegante ed invidiata: Vanda.
A volte gli uomini che si muovevano nel mondo, tutti gli uomini che s’erano mossi nella storia, gli sembravano mossi da insanabili squilibri, affetti da una uguale, furibonda isteria. Poi, gli sbandamenti dei partigiani sui monti. I camion tedeschi saliti a centinaia, in quei giorni, avevano disperso le bande, bloccato tutti i paesi. I mongoli! Mille, duemila mongoli sarebbero arrivati oggi, domani, di qui a tre giorni; avrebbero battuto le montagne rocca per rocca, saccheggiando, squartando, violentando. — Non salire, — gli aveva detto Edmondo. Salire, e perché? Non poteva fare il suo dovere quaggiù, non era più utile a redigere il testo di un giornaletto clandestino, piuttosto che lassù, con un
thompson
che gli si sarebbe inceppato sicuramente tra le mani?
Erano i tempi in cui la gente della città credeva che i partigiani fossero tutti armati di
thompson. E non importava che Edmondo gli avesse assicurato che lassù
thompson non ne aveva visto neanche uno; Attilio si vedeva già col thompson inceppato, arma misteriosa e traditrice, travolto dall’orda cavalcante dei mongoli, con la treccia in mezzo al cranio raso. Non era pane per lui: come non era donna per lui la jugoslava di cui aveva detto Edmondo, coi calzoncini corti, il mitra, che parlava osceno. Meglio Vanda: meglio continuare a scrivere, a gettare i foglietti ciclostilati nelle cassette delle lettere dei portoni. Ma perché poi, continuare? Lo slancio degli inglesi ormai smorzato in Italia, in Francia; la Russia lontana come un brontolio di tuono; qua la rete che si stringeva ogni giorno: perquisizioni, arresti. Quanto sarebbe durata, così? Non bisognava essere fanatici, perdere il senso delle proporzioni.
Quel giorno il partito lo invitava a una data ora, in una data casa: una trappola? No, stava diventando troppo diffidente. Ecco: lui sarebbe andato, avrebbe detto che per un po’ avrebbe sospeso la sua attività; riprenderebbe poi più tardi, appena le cose della guerra accennerebbero a schiarirsi. Non si poteva far girare a vuoto quella macina alimentata dalle loro vite.
La casa era in un vicolo a ciottoli, appoggiata ad arcate. Si saliva per una scala stretta e buia, quasi verticale. Da dietro l’uscio sul breve pianerottolo veniva il rumore d’una macchina da cucire. Al bussare convenuto aprì una ragazza bassa e nera e lo introdusse in una stanzetta ingombra di quel disordine dei laboratori da sarta.
Cercò chi l’aveva fatto chiamare. — Ti devo parlare io. Tu sei il compagno degli articoli? — Io sono quello di «Rinascere nel sangue», «Parole agli schiavi», «Italia senza italiani». — Li hai scritti tu? — Sì. Li hai letti? — La ragazza nera disse: — Sì. — Attilio s’era accorto che c’era in lei una bellezza raccolta e dignitosa, nel corpo proporzionato, nello sguardo fieramente triste. — Non si tratta di questo, adesso: tu organizzi studenti, no? — Ecco che ritornava distante, estranea. — Bene, bisogna raccogliere materiale per quelli di lassù, vestiario, medicinali, armi se ne trovi. E denari, soprattutto. — Cosa si sa di su? Va male? — Mancano di tutto. Ne torno adesso. Oreste e Spada sono feriti. Oreste gravemente. È morto Ruffini. — Stette un po’ in silenzio: Attilio s’accorse dello sguardo della ragazza nera, colmo d’una volontà cupa, disperata; di quel suo stringere un labbro tra i denti; del suo petto pieno di respiro, con le gugliate agli aghi appuntati sulla blusa. Non si poteva parlare di sospendere l’attività; chi ci aveva mai pensato, a sospendere?
Era bello che in banda si potesse vedere una donna come lei, ogni tanto, non solo la jugoslava. E forse la jugoslava non c’era nemmeno, se l’era inventata Edmondo. — ...Ma tengono duro. Guai se non si tenesse duro. Se i tedeschi hanno le spalle sicure è finita. Voglio che mi porti molta roba presto. Ci conto. Per quando? — Lasciami un po’ di tempo. Una settimana. — Prima: lassù muoiono. Guarda, domani vado su, ho da curare Oreste, da portargli bende, ché la ferita spurga continuamente. Giovedì sono di ritorno. Va bene giovedì? — Disse di sì, macchinalmente. — E cerca degli uomini che salgano. Anche ufficiali, se ne trovi. Di qualsiasi partito, di qualsiasi idea, basta che vogliano battersi. Bisogna fare nuovi distaccamenti, ricostituire la brigata.
Uscito, gli rimase negli orecchi il grave sussurro delle sue ultime raccomandazioni: « Giovedì, intesi? Medicinali. Scarpe». E gli rimase negli occhi quel suo sguardo, mentre diceva che Ruffini era morto. Camminava per la strada a pugni chiusi. Degli uomini che salgano... Basta che vogliano battersi... Attilio voleva battersi: sentiva una volontà cupa e disperata in lui, avrebbe vendicato i morti, punito i traditori, ma capiva che ogni suo atto, ogni suo gesto sarebbe stato dettato da un segreto bisogno del rispetto, dell’ammirazione di quella ragazza bassa e nera.
In quei tempi la città era bombardata ogni notte e le famiglie che potevano sfollavano in campagna accampandosi in villette e casolari. Le ragazze capitarono quasi tutte nei pressi d’un podere della famiglia d’Attilio: la domenica lui le invitò a mangiare frutta, a fare il bagno in una peschiera. Portarono il grammofono e ballarono nel recinto delle capre.
Attilio partecipava alla festa senza riserve: solo per lui la festa aveva un senso, nessun altro lo sapeva: in casa, nascosto nella cassapanca, era il sacco già pronto per l’indomani all’alba, con la coperta avvolta, la pistola; quella era la festa d’addio, il commiato. Non senza tormento, però: di giorno in giorno, d’ora in ora, aveva rimandato la sua spiegazione con Vanda, la rottura. Non sapeva ancora cosa le avrebbe detto; ora era impossibile parlarle, con tutti gli altri intorno, sarebbe stato per stasera, se no l’avrebbe lasciata senza una parola, come un sasso.
Aveva un aspro rancore contro di lei, forse immotivato; era forse il doverla lasciare così che l’obbligava a immaginarsela più egoista e cattiva di quanto non fosse. Lei s’era accorta da giorni di qualcosa di cambiato in lui, e si teneva sulla difesa; un’ombra veramente di cattiveria e d’egoismo era nella piega della sua bocca, nel suo sguardo, in quei giorni. S’erano svestite nella stalla, tra il bramito inquietante degli arieti. Coi loro costumi da spiaggia s’erano tuffate nell’acqua verde e viscida della peschiera. La vasca non grande ma profonda traboccava dei loro corpi; il divertimento per Attilio e gli amici era diguazzare in mezzo a quell’acqua e a quella carne di ragazze. C’era anche il Nato-Stanco, venuto per incontrare Luisa che non s’interessava più a lui; era innamorato morto, Ruggero, e non sentiva in sé la forza di riconquistare la donna ormai annoiata del gioco. Ma il peso della sua abulia non gravava più su Attilio; egli gustava la gioia del pomeriggio campagnolo, senza più timore di scoprire in sé un tenace attaccamento a quel mondo che stava per abbandonare. La sua decisione era presa, ormai.
Scherzava con Vanda e ancor più con le altre ragazze, forse per un inconscio desiderio d’irritarla, di spingerla al litigio che giustificasse. Vanda era inquieta. — Che hai quest’oggi? Sei strano... — gli chiedeva, con apparenza tranquilla, indagatrice. — Strano? Mah... — Bisognava secondare il gioco. Vanda era sulla difesa, lo sguardo amaro. — Dimmi cos’hai... — Ora no. Stasera.
Un vento acquatico moriva ogni sera in grembo agli olivi del poggio dove s’incontravano Attilio e Vanda, dopocena. Attilio approssimandosi si sentiva di nuovo insicuro: un accenno di debolezza sarebbe bastato a perderlo. Non era un’avventura che si decideva nel passo dell’indomani all’alba, ma tutta la sua vita, il suo essere uno piuttosto che un altro: se non partiva non avrebbe mai tagliato i ponti, sarebbe annegato in quello stagno di compromessi come nell’acqua viscida della peschiera, geometrico e snodato come il Nato- Stanco, si sarebbe rotolato nella polvere degli anni sotto l’ombrellone della vecchia boliviana.
Vanda l’aspettava già, tra gli olivi, le mani nelle tasche del soprabito estivo bianco. Non s’era truccata, c’era qualcosa di gonfio sul suo volto, di vecchio. Attilio la raggiunse, si sentiva vuoto. — Vanda, — disse. Lei camminava senza guardarlo. — Non c’è bisogno che ti sforzi, — fece. — Ho capito tutto. — Questo era inaspettato, ma semplificava; era la via naturale, diretta. Attilio fece un gesto con le braccia, un: ormai!
— Luisa, eh? — disse Vanda. Che c’entrava Luisa? — Quella divetta. Me ne sono accorta subito. Ma ti piglia in giro, ti piglia! — Le sue parole erano tutte rabbia e saliva tra i denti. Era una cosa sciocca, umiliante: credeva in una sua infedeltà; e che altro si poteva aspettare da lei?
La gelosia di Vanda non inorgogliva mai Attilio: era meschina, non derivava dall’amore ma dalle piccole rivalità di ragazze use a contendersi gli amici solo per farsi dispetto l’un l’altra, Attilio o il Nato- Stanco era lo stesso. Per questo stupido gioco aveva trattenuto Attilio, non per altro; e lui, sciocco, se n’era tormentato. — Sì: Luisa, — disse. Sarebbe finita, così. — Va’ da lei, allora. Chi ti tiene? Tutti i gusti son gusti. — Continuava a non guardarlo, era sconfitta. — È che lei non fa tante storie, come te. Con lei si può arrivare subito al sodo, si può arrivare. — Si stupì d’aver parlato così. Per vendetta? Per orgoglio d’uomo? Ma lei non trasalì; sembrava l’aspettasse. Si rivoltò lenta, guardandolo a palpebre cariche, le sopracciglia contorte. La boliviana, pensò Attilio. Si sentiva freddo e lucido. Forse era ingiusto: la odiava. Vanda non era più lei: il viso spiegato come un panno steso. Attilio conosceva quell’abbattimento delle ragazze vinte, si sentiva lucido, padrone di sé. Lei morse il bavero del soprabito, a occhi gelidi: s’era dominata.
Era una ragazza forte? Era vile! Era vile, nell’odio inclemente di Attilio, perché non aveva il coraggio d’andare fino in fondo, perché si sacrificava al pregiudizio. Ma ecco, ora Vanda alzava il viso verso di lui, abbandonata a ridosso d’un tronco, si ravviava i capelli alle tempie.
C’era sempre molta bellezza in lei. Scopriva i denti. L’astuta boliviana, ancora. — Mi sposerai...? — disse.
I sogni dei partigiani sono corti e poco fantasiosi. Sogni di uomini affamati, nati dalle notti di fame, legati alla storia del cibo sempre poco e da dividere in tanti: sogni di pezzi di pane morsicati e chiusi in un cassetto. I cani randagi devono fare sogni simili, di ossa rosicchiate e nascoste sottoterra. Solo se si dorme vicino al fuoco, la pancia è piena, e non si è camminato troppo durante il giorno, ci si può concedere di sognare una donna nuda e al mattino ci si sveglia sgombri e spumanti con una letizia come d’ancore salpate. Allora si prende a parlare di ragazze, con i compagni stesi nella paglia, e si racconta e ci si passa le fotografie. Toccò anche a Attilio mostrare la sua, portata sempre in fondo al portafoglio. I compagni pidocchiosi, malrasi, si sporgevano dietro le sue spalle, sbarrando gli occhi imbambolati davanti al viso, al corpo della più bella ragazza della spiaggia. Essa sarebbe rimasta così nei loro occhi di uomini assetati e così l’avrebbero sognata, nei loro sonni interrotti dai turni di guardia e dagli allarmi.
E ad Attilio parve in quel momento che a abbandonarla alle fantasie di quei suoi compagni pidocchiosi e stracciati, avesse esaudito un suo ultimo desiderio di vendetta.
© 2020 Eredi Calvino e Mondadori Libri S.p.A., Milano Tratto da "Il sentiero dei nidi di ragno" di Italo Calvino Per gentile concessione degli Eredi e dell’Editore
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