Jorge Luis Borges, La Nación 1942, Ficciones 1944
Traduzione di Marco Vignolo Gargini
Lo ricordo (io non ho diritto di pronunciare
questo verbo sacro, solo un uomo sulla terra ebbe questo diritto e quest’uomo è
morto), con una passiflora scura nella mano, vedendola come nessuno l’ha vista,
anche se l’avrà guardata dal crepuscolo del giorno a quello della notte, per
una vita intera. Lo ricordo, il volto taciturno e da indio e
singolarmente remoto dietro la sigaretta.
Ricordo (credo) le sue mani affilate d’intrecciatore. Ricordo vicino a quelle
mani un servizio da matè, con le armi della Banda Orientale; ricordo nella
finestra della casa un telo giallo, con un vago paesaggio lacustre. Ricordo
chiaramente la sua voce; la voce lenta, risentita e nasale dell’antico orillero [1],
senza le sibilanti italiane di adesso. Non l’ho visto più di tre volte;
l’ultima nel 1887… M’è parso molto felice il progetto di tutti quelli che lo
conoscevano di scrivere su di lui; la mia testimonianza sarà forse la più breve
e di certo la più povera, ma non la meno imparziale del volume che si va
preparando. La mia deplorevole condizione di argentino mi impedirà di incorrere
nel ditirambo – genere obbligatorio in Uruguay quando il tema è un
uruguagio. Letterato, cajetilla [2], porteño [3];
Funes non pronunciò queste parole ingiuriose, ma so quanto basta che io rappresentavo
per lui queste sventure.- Pedro Leandro Ipuche ha scritto che Funes fu un
precursore dei superuomini, “uno Zarathustra selvaggio e vernacolare”; non lo
metto in dubbio, ma non si deve dimenticare che fu anche un cittadino di Fray
Bentos, con certe incurabili limitazioni.
Il mio primo ricordo di Funes è assai
chiaro. Lo vedo in una sera di marzo o di febbraio del 1884. Mio padre
quell’anno m’aveva portato a passare l’estate a Fray Bentos. Tornavo con mio
cugino Bernardo Haedo dalla tenuta San Francisco. Tornavamo cantando, a
cavallo, e quella non era la sola condizione della mia felicità. Dopo una
giornata afosa, un’enorme tempesta color ardesia aveva oscurato il cielo.
L’incitava il vento del sud, gli alberi già impazzivano; io avevo timore (e speranza)
che lo scatenarsi dell’acqua ci sorprendesse in aperta campagna. Corremmo una
specie di corsa con la tempesta. Entrammo in un vicolo che affondava tra due
alti marciapiedi di mattoni. D’un colpo s’era fatto buio; udii in alto passi
rapidi e quasi segreti; alzai lo sguardo e vidi un ragazzo che correva lungo lo
stretto e rovinato marciapiede come su un muro stretto e rovinato. Ricordo
la bombacha [4], le sue scarpe di corda, ricordo la sigaretta in quella
faccia dura contro la nuvolaglia già sterminata. Bernardo gli gridò,
imprevedibilmente: «Che ore sono, Ireneo?» – Senza consultare il cielo, senza
fermarsi, l’altro rispose: «Mancano quattro minuti alle otto, ragazzo Bernardo
Juan Francisco» La voce era acuta, beffarda.
Sono così distratto che il dialogo
riferito non avrebbe attirato la mia attenzione se non avesse insistito mio
cugino, che incoraggiavano (credo) un certo orgoglio locale e il desiderio di
mostrarsi indifferente alla replica tripartita dell’altro.
Mi disse che il ragazzo del vicolo era un
tal Ireneo Funes, celebre per alcune stranezze, come quella di non frequentare
nessuno e di saper sempre l’ora come un orologio. Aggiunse che era figlio d’una
stiratrice del paese, Maria Clementina Funes, e che alcuni dicevano che suo
padre era un medico del saladero [5], un
inglese di nome O’ Connor, e altri un domatore o un esploratore del distretto
del Salto. Viveva con sua madre in una fattoria dietro la villa dei Lauri.
Le estati dell’85 e dell’86 le
passammo a Montevideo. Nell’87 tornai a Fray Bentos. Chiesi, ovviamente, di
tutti quelli che conoscevo e, infine, del “cronometrico Funes”. Mi hanno detto
che lo aveva travolto un cavallo selvaggio nella tenuta di San Francisco ed era
rimasto paralizzato, senza speranza. Ricordo l’impressione di magia scomoda che
la notizia mi fece: l’unica volta che l’avevo visto, noi venivamo a cavallo da
San Francisco e lui camminava in alto; il fatto, nel racconto di mio cugino
Bernardo, aveva molto di un sogno elaborato con elementi anteriori. Mi dissero
che non si moveva dal letto, gli occhi fissi sul fico del fondo o su una tela
di ragno. Verso sera, lasciava che l’avvicinassero alla finestra. Era così
superbo al punto da simulare che il colpo che l’aveva fulminato fosse stato
benefico… Due volte lo vidi dietro l’inferriata, che grossolanamente
sottolineava la sua condizione di eterno prigioniero; una volta, immobile, con
gli occhi chiusi; un’altra, sempre immobile, assorto nella contemplazione d’un
odoroso rametto di santonina.
Non senza qualche vanagloria io avevo
iniziato a quel tempo lo studio metodico del latino. La mia valigia comprendeva
il De viribus illustribus di Lhomond, il Thesaurus di Quicherat, i commentari di Giulio
Cesare e un volume spaiato della Naturalis Historia di
Plinio, che eccedeva (e continua a eccedere) le mie modeste virtù di latinista.
Tutto si viene a sapere in un piccolo paese; Ireneo, nella sua fattoria sulla costa, non tardò a sapere dell’arrivo di
questi libri anomali. Mi mandò una lettera fiorita e cerimoniosa in cui ricordava
il nostro incontro, sfortunatamente fugace, «del giorno sette febbraio
dell’anno ottantaquattro», esaltava i gloriosi servizi che don Gregorio Haedo,
mio zio, deceduto quello stesso anno, «avevo reso alle nostre due patrie nella
gloriosa giornata di Ituzaingó», e mi pregava di prestargli qualcuno di quei
volumi, accompagnato da un dizionario «per la buona comprensione del testo
originale, poiché ignoro ancora il latino». Prometteva di restituirli in buono
stato, quasi immediatamente. La scrittura era perfetta, molto allungata;
l’ortografia, del tipo auspicato da Andrès Bello: i per y, j per g. All’inizio,
naturalmente, temetti uno scherzo. I miei cugini mi assicurarono che no, che
erano cose di Ireneo. Non sapevo se attribuire a impudenza, a ignoranza o a
stupidità l’idea che l’arduo latino richiedesse come solo strumento un
dizionario; per disingannarlo del tutto gli mandai il Gradus ad Parnassum di Quicherat e il volume di
Plinio.
Il 14 febbraio mi telegrafarono da Buenos
Aires che tornassi immediatamente, perché mio padre non stava “niente bene”.
Dio mi perdoni; il prestigio di essere il destinatario d’un telegramma urgente,
il desiderio di comunicare a tutta Fray Bentos la contraddizione tra la forma
negativa della notizia e l’avverbio perentorio, la tentazione di drammatizzare
la mia sofferenza fingendo uno stoicismo virile, mi distolsero da ogni
possibilità di dolore. Nel fare la valigia notai che mi mancavano il Gradus e la Naturalis Historia.
Il Saturno salpava il giorno dopo, di mattina; quella
sera, dopo cena, m’incamminai verso la casa di Funes.
Nella fattoria ben tenuta la
madre di Funes mi ricevette. Mi disse che Ireneo era nella stanza sul retro e
che non mi meravigliassi di trovarlo al buio, perché Ireneo sapeva passare le
ore d’inattività senza accendere la candela. Attraversai il cortile lastricato,
il fienile; giunsi al secondo cortile. C’era una pergola; il buio sembrava
completo. Udii d’un tratto la voce alta e burlesca di Ireneo. Questa voce
parlava in latino; questa voce (che veniva dalla tenebra) articolava con
dilettazione morosa un discorso, o preghiera, o incantesimo. Risonavano le
sillabe romane nel cortile di terra; il mio timore le credette indecifrabili,
interminabili; poi, nell’enorme dialogo di quella notte, seppi che formavano il
primo paragrafo del capitolo ventesimoquarto del libro settimo della Naturalis Historia. L’argomento di questo capitolo è la
memoria; le ultime parole furono ut nihil non iisdem verbis
redereretur auditum.
Senza il minimo cambio di
voce, Ireneo mi disse d’entrare. Stava sul letto, fumando. Mi pare che non vidi
la sua faccia fino all’alba; credo di ricordare la brace della sua sigaretta,
ravvivata a momenti. La stanza odorava vagamente di umidità. Mi sedetti;
ripetei la storia del telegramma e della malattia di mio padre.
Arrivo, ora, al punto più
difficile del mio racconto; il quale (è bene che il lettore lo sappia fin
d’ora) non ha altro tema che questo dialogo di mezzo secolo fa. Non tenterò di
riprodurre le sue parole, ormai irrecuperabili. Preferisco riassumere con
veracità le molte cose che Ireneo mi disse. La forma indiretta è remota e
debole; so che sacrifico l’efficacia del mio racconto; che siano i miei
lettoria ad immaginare i periodi increspati che m’incantarono quella notte.
Ireneo cominciò con l’enumerare, in latino e
in spagnolo, i casi di memoria prodigiosa registrati dalla Naturalis Historia: Ciro, re dei persiani, che sapeva
chiamare per nome tutti i soldati del suo esercito; Mitridate Eupatore, che
amministrava la giustizia nelle ventidue lingue del suo impero; Simonide,
inventore della mnemotecnica; Metrodoro, che professava l’arte di ripetere con
fedeltà ciò che aveva ascoltato una sola volta. Con evidente buona fede si
meravigliò che simili casi potessero meravigliare. Mi disse che prima di quella
sera piovosa in cui il cavallo lo travolse, era stato ciò che sono tutti i
cristiani: un cieco, un sordo, uno stordito, uno smemorato. (Cercai di
ricordargli la sua esatta percezione del tempo, la sua memoria dei nomi propri,
ma m’ignorò). Aveva vissuto diciannove anni come un sognatore: guardava senza
vedere, ascoltava senza udire, si dimenticava di tutto, di quasi tutto.
Cadendo, perdette i sensi; quando li riprese, il presente era quasi
intollerabile tanto era ricco e nitido, e così i ricordi più antichi e banali.
Poco dopo s’accorse ch’era paralizzato; la cosa appena l’interessò; ragionò
(sentì) che l’immobilità era un prezzo minimo; ora la sua percezione e la sua
memoria erano infallibili.
Noi, con un’occhiata, percepiamo tre
bicchieri di vino su una tavola. Funes, tutti i tralci, i grappoli e gli acini
d’una vite. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882 e
poteva confrontarle, nel ricordo, con le venature della copertina d’un libro
che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio
Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. Questi ricordi non erano
semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche,
ecc. Poteva ricostruire tutti i suoi sogni, tutti i suoi dormiveglia. Due o tre
volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni
ricostruzione aveva richiesto un’intera giornata. Mi disse: « Ho più ricordi io
da solo di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini da che mondo è mondo » E
disse anche: « I miei sogni sono come la vostra veglia – E anche, verso l’alba:
« La mia memoria, signore, è come un immondezzaio » Un cerchio su una lavagna,
un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire
pienamente; lo stesso capitava a Ireneo con i crini scarmigliati d’un puledro,
con il fuoco cangiante e l’innumerevole cenere, con una mandria di bestiame in
una cuchilla [6], con i tanti volti d’un morto durante una lunga veglia
funebre. Non so quante stelle vedeva nel cielo.
Mi disse queste cose; ne allora né mai le
posi in dubbio. Non c’era a quel tempo cinematografo né fonografo; è, tuttavia, inverosimile e quasi incredibile che
nessuno facesse un esperimento con Funes. Il fatto è che viviamo rimandando
tutto il rimandabile; forse tutti sappiamo profondamente che siamo immortali e
che, prima o poi, ogni uomo farà tutte le cose e saprà tutto.
La voce di Funes,
nell’oscurità, continuava a parlare. Mi disse che nel 1886 aveva scoperto un
sistema originale di numerazione e in pochi giorni aveva superato il
ventiquattromila. Non l’aveva scritto, perché già il fatto d’averlo pensato una
volta sola bastava per non cancellarlo. Il primo stimolo, credo, gli venne dal
dispiacere che per il 33 in numeri arabi ci volessero due segni e due parole,
al posto d’una sola parola e d’un solo segno. Applicò subito questo pazzo
principio agli altri numeri. Al posto di settemilatredici diceva (per esempio)
«Maximo Perez»; al posto di settemilaquattordici, «La Ferrovia»; altri numeri
erano “Luis Melian Lafinur, Olimar, zolfo, i fiori (delle carte), la balena, il
gas, la caldaia, Napoleone, Agustin de Vedia”. Al posto di cinquecento, diceva
“nove”. Ogni parola aveva un segno particolare, una specie di marchio; gli
ultimi erano molto complicati… Cercai di spiegargli che questa rapsodia di voci
sconnesse era precisamente il contrario di un sistema di numerazione. Gli feci
osservare che dire 366 è dire tre centinaia, sei decine, cinque unità: analisi
che non esiste nei “numeri” come “Il Negro Timoteo” o “Mantello di carne”.
Funes non mi sentì o non volle sentirmi.
Locke, nel XVII° secolo,
propose (e respinse) un linguaggio impossibile in cui ogni singola cosa, ogni
pietra, ogni uccello e ogni ramo avesse un nome proprio; Funes aveva pensato,
una volta, a un linguaggio analogo, ma l’aveva scartato perché gli sembrava
troppo generico, troppo ambiguo. In effetti, Funes non solo ricordava ogni
foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ogni volta che l’aveva
percepita o immaginata. Decise di ridurre ciascuno dei suoi giorni passati a un
settantamila ricordi, da definire in seguito con cifre. Lo dissuasero due
considerazioni: la consapevolezza che il compito era interminabile e che era
inutile. Pensò che all’ora della sua morte non avrebbe ancora finito di
classificare tutti i ricordi della sua infanzia.
I due progetti che ho detto (un vocabolario
infinito per la serie naturale dei numeri, un inutile catalogo mentale di tutte
le immagini della memoria) sono insensati, ma rivelano una certa grandezza
balbuziente grandezza. Ci permettono di intravedere o di dedurre il vertiginoso
mondo di Funes. Questo, non dimentichiamolo, era quasi incapace di idee
generali, platoniche. Non solo aveva difficoltà a comprendere che il simbolo
generico cane potesse designare molti disparati individui
di varia dimensione e forma diversa; ma lo infastidiva il fatto che il cane
delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle
tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue
proprie mani, lo sorprendevano ogni volta. Swift racconta che l’imperatore di
Lilliput discerneva il movimento delle lancette d’un orologio; Funes discerneva
continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica.
Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido
spettatore di un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente
preciso. Babilonia, Londra e New York hanno offuscato con il loro feroce
splendore l’immaginazione degli uomini; nessuno, nelle loro torri popolose e
nelle loro strade frenetiche, ha mai sentito il calore e la pressione d’una
realtà così intangibile come quella che giorno e notte convergeva sull’infelice
Ireneo, nel suo povero sobborgo sudamericano. Gli era molto difficile dormire.
Dormire è distrarsi dal mondo; Funes, sul letto, nell’ombra, si figurava ogni
fessura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano. (Ripeto che il
meno importante dei suoi ricordi era più minuzioso e più vivo della nostra
percezione d’un piacere o d’un tormento fisico). Verso est, in un lotto di
terra lontano, c’erano case nuove, sconosciute. Funes le immaginava nere,
compatte, fatte di tenebra omogenea; in quella direzione voltava il capo per
dormire.
Era anche solito immaginarsi
in fondo al fiume, cullato e annullato dalla corrente.
Aveva imparato senza fatica
l’inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non
fosse molto capace di pensare. Nel mondo brulicante di Funes non c’erano che
dettagli, quasi immediati.
Il chiarore sospettoso
dell’alba entrò per il patio di terra.
Allora vidi il volto di quella
voce che aveva parlato tutta la notte. Ireneo aveva diciannove anni; era nato
nel 1868; mi parve monumentale come il bronzo, più antico dell’Egitto,
anteriore alle profezie e alle piramidi. Pensai che ciascuna delle mie parole
(ciascuno dei miei gesti) sarebbe durato nella sua implacabile memoria; mi gelò
il timore di moltiplicare inutili gesti.
Ireneo Funes mori nel 1889,
d’una congestione polmonare.
[1] Orillero, da orilla (confine),
indica i sottoproletari del quartiere Belgrano di Buenos Aires, al confine con
Rio de la Plata.
[2] Cajetilla, dal vocabolo che
indica il pacchetto di sigarette, si riferisce al dandy di
Buenos Aires, ben vestito con atteggiamenti effemminati.
[3] In genere gli abitanti del porto, in
questo caso i bonearensi.
[4] I tipici pantaloni corti del gaucho argentino
e uruguagio.
[5] Stabilimento dove si produceva carne
salata.
[6] Colline ondulate tipiche dell’Uruguay.
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