Italo Calvino Vado in montagna O bella ciao
L’amore di un’estate e la lotta partigiana nell’ultimo
racconto inedito dello scrittore
di Italo
Calvino
Igiardini
municipali erano d’un gusto convenzionale e chiassoso, da cartolina patinata a
colori: i mosaici di sassifraghe sui prati verdi, i lontani ventagli delle
palme, le roccaglie irte d’agavi color caimano. Una volta nella loro vita
centenaria, le agavi divaricano le loro foglie carnose e la sovrabbondanza dei
loro umori spinge al cielo un fiore dal gambo lunghissimo ed esile. Sarebbe
venuta anche per Vanda la volta di cedere ai fremiti che le tendevano la pelle
liscia, inquietavano di piccoli morsi i suoi baci. Ma i pensieri e i discorsi
dell’amore erano, attraverso le generazioni, giunti a lei legati a immagini di
riti e amuleti, veli e anelli, impediti da divieti e reticenze, ma come una
promessa garantita da un sistema ormai stabilito e facile alle indulgenze. La
sua femminilità era tranquilla e chiassosa; la sua vita, la sua bellezza erano
come sullo sfondo di una cartolina patinata a colori, come l’ignoranza del male
nel mondo.
Bastava,
stando tra le braccia di Attilio, scostare le anche dall’aderire alle sue,
schermire dal gioco delle sue mani le mammelle sensibili come colombe, una
questione d’attenzione come il badare a non posare la bocca tinta di rosso
sulla camicia dell’amico, appoggiando la guancia sul suo petto.
Anche in
Attilio era un guardingo senso di pericolo. Ad addentrarsi in quei minati
terreni, con la schermaglia dei discorsi, con l’abbandono delle espansioni, ad
incrinare la patinata superficialità del flirt, puntuale risorgeva in
lei il motivo del suo primo fidanzamento tragicamente interrotto, della sua
annoiata attesa di ragazza da marito, del viaggio di nozze sognato fin da
fanciulla, in alberghi dalle fresche hall fastose. Attilio non era un
ragazzo scapestrato o cinico; si ritraeva con una segreta furiosa paura; meglio
fermarsi con le dita tra i suoi capelli biondi e fluidi, limitare la carezza
alla seta azzurro-campanula della veste.
Sulla
strada tra i giardini e il mare passavano carriaggi tedeschi, in fila. — Conti
i carri che passano? — chiese Vanda. Scosse il capo. — Dove andranno in là? — si
domandò. — In Francia. Hanno fermato gli inglesi, ormai. L’ha detto la radio.
Attilio
pensò all’inutilità di quel suo andare con Vanda, assurdo nello schema delle
convenzioni come erano assurdi i cactus barbuti,
i cereus deformi nelle artificiose roccaglie: tutti simboli di una
vicenda che Vanda non comprendeva, come non comprendeva le vicende della
guerra: ogni cosa le arrivava attraverso echi di schemi falsi e morti:
matrimoni, bollettini.
Pure era
contento di andare con Vanda, la ragazza più bella della spiaggia, dal corpo
superbo e tranquillo; quella placida, ridente bellezza doveva dargli la
sicurezza di sé stesso che gli abbisognava in quei giorni, non il tormento. Si
sentiva di volerle bene, talvolta, a guardarla d’essere affezionato a quella
sua persona armoniosa, a quelle anche piene, a quei seni piccoli come campanule
sotto la veste azzurra, come le colombe, i caprioli del cantico dei cantici.
— Cavriuoletti,
— disse. — Mmm...? — fece Vanda. — Cavriuoletti, — ripeté. — Ma che dici? —
Spiegarsi era inutile, non si sarebbero mai compresi.
A un
certo momento lei cominciava a giocare come una grande gatta, a aggiustargli il
colletto della camicia aperta, a frugargli nelle tasche. La fermò con la mano
già nella tasca destra della giacca, con le dita già strette intorno al foglio.
— Lascia
stare, curiosa! — Ma s’era fatto serio. — Perché? Segreti? — Non mollava. Le
storse un poco il polso, piano. — T’ha scritto la bruna? — No. La rossa. — Dammi,
voglio leggere anch’io. — Lascia. — Guarda che strappo. — Tanto non capirà, si
disse. Lei guardò il foglio ruvido, dagli sbiaditi caratteri ciclostilati.
Lesse: — ... Per la salvezza del paese, la classe operaia dev’essere
all’avanguardia di tutto il popolo... — Cos’è? — chiese. — Dispense. Diritto
civile. Una barba. Ti diverte? — Lei rimise il foglio in tasca. — C’era bisogno
di far tanto il misterioso? — Attilio si stupì di sentirsi deluso; aveva
sperato qualcosa. Ma cosa c’era da sperare?
Uscendo
dai giardini incontrarono Edmondo. Attilio trasalì leggermente al vederlo: già
qui? Edmondo si fermò a salutarli. Era uno spilungone, Edmondo, un po’ impacciato,
come tutti i ragazzi grandi e grossi quando s’accorgono d’essere beneducati e
se ne vergognano.
— Diversi
giorni che non ti si vedeva, Edmondo, — disse Vanda. — Non vieni più alla
spiaggia? — Sono stato un po’ in campagna, a studiare. — L’occhiata tra lui e
Attilio non occorreva fosse allusiva. — Allora come va, Mondo? — fece Attilio. —
Bene. Bene. Abbastanza. — Abbastanza? — Sì, sì, abbastanza. — Come, abbastanza?
Bene o non bene? — Bene, bene, in complesso. — Era un discorso misterioso,
Vanda li guardava con tanto d’occhi, bisognava tagliar corto. Cercarono di
parlar d’altro, camminando tutt’e tre insieme.
Per
fortuna passò un’amica di Vanda e si fermarono a discorrere. Attilio tirò da
parte Edmondo. — Allora? — Ieri battaglia a Pian del Carpe. — Lo so. Com’è
andata? — Due camion carichi di tedeschi messi fuori combattimento. Il terzo è
arrivato dopo e li ha sorpresi. Un morto: Gordon. Kim è ferito. Il resto un po’
sbandato ma si ricompone. — C’eri? — No, ero a Valdenga, al comando. — Come
sono? — Molti. Armi non tante per ora, ma se le procurano. — D’aspetto, come? —
Uomini come gli altri, un po’ sporchi. Comunisti, però. Bandiera rossa,
salutano col pugno chiuso. — Ben, non fa niente, l’importante è combattere.
Edmondo scosse un po’ il capo; era liberale, lui; quelle cose non gli
garbavano. — Tornerai su presto? — Dipende dal comitato, se ha da mandarmici.
L’amica
s’accomiatò, anche Edmondo salutò Vanda e li lasciò soli. — Cosa c’era di
misterioso tra te e Edmondo? — Bastava accennasse a una storia di ragazze e lei
avrebbe creduto. — Nulla, — disse. — Cose di studio. — Gli seccava dover
inventare tutta una storia, sotto le domande di lei.
— Credi
di darmela a bere? Bene... non bene... abbastanza bene... Dove è stato in
questi giorni, Edmondo? — Era noiosa certe volte, Vanda. — Per i fatti suoi,
sarà stato. — Fatti di che genere? — Era inutile insistere. — Sai, si tratta di
una ragazza... — cominciò Attilio.
Dopo cena
lui e gli amici si radunavano in sette o otto tutti su una panchina della
passeggiata, stipati tanto che qualcuno finiva sempre fuori. Si sarebbe detto
che commentassero il passeggio delle ragazze, ma le parole che giravano sulle
loro bocche erano sommesse e rapide come lampi d’estate: — Una carica di
tritolo sotto il ponte... Saranno cento, centocinquanta uomini... Il capo è
Anselmo: è stato in Spagna con Negrin... Il Cotentin è libero... Puntano su
Bordeaux... Tra i socialisti e i comunisti c’è questa differenza... — Edmondo
raccontava fitto fitto delle sue missioni, bersagliato di domande; Attilio
faceva strisciare volantini nelle tasche e s’arrabbiava in spiegazioni
politiche raggomitolandosi sulla panchina nel calore del discorso; in mezzo a
loro, con gli occhi semichiusi, il capo reclino sul lungo collo, sempre zitto,
il Nato-Stanco sembrava che nemmeno li ascoltasse. Si sedeva tra loro,
geometricamente, senza gualcire d’una ruga l’abito stirato, s’alzava a mezzo
d’un discorso e s’allontanava silenziosamente, con passo sfiduciato.
Il
Nato-Stanco, lo chiamavano: in mezzo a loro, a quei loro discorsi echeggianti
di scoppi e spari, colorati come carte geografiche e pavesi di bandiere, quel
tipo silenzioso e indifferente rappresentava quasi il peso d’una loro condanna:
era il ragazzo che non crede già più a nulla, non partecipa, che non si sente
parte in causa. Quando Luisa passava, con la sorella, ogni sera, lui le
s’accodava, con uno scheletrico cenno di saluto e prendeva a camminare al suo
fianco, muto. Lei cominciava ad aizzarlo, pungente e il Nato-Stanco la fissava
con gli occhi semichiusi, il labbro inclinato in un pigro sorriso, dandole ogni
tanto una breve e lenta risposta.
Ma gli
altri non erano come lui, non volevano esserlo. Sui monti dietro a loro,
vedevano avanzarsi figure avventurose, un’epopea da paesi vergini di storia: i
partigiani. Qualcuno aveva già deciso, sarebbe salito con loro: Attilio era di
questi.
— Lascerai
Vanda? — Chi gli aveva fatto questa domanda era uno sciocco. Vanda, che
importanza aveva, Vanda? — A Vanda dirò che vado a Genova all’Università. — Ma
era umiliante che per allontanarsi da Vanda bisognasse trovare la scusa,
proprio come per allontanarsi dall’impiego nella ditta tedeschizzata, che gli
garantiva l’esonero dall’esercito. E come i fascisti avrebbero fatto indagini
per rintracciare l’esonerato disertore, così Vanda lo avrebbe cercato, avrebbe
domandato di lui. — Perché nasconderglielo? — gli chiese un amico, — il fascino
del ribelle, vuoi mettere? Non è una ragazza romantica, Vanda? — Romantica?
Cioè che piange ai film d’amore, seduta sulle poltrone di velluto dei primi
posti? — Certo, bisogna che glie lo dica, a Vanda. La prenda come vuole. — Quando
Vanda passava davanti alla panchina, lui salutava i compagni e la raggiungeva,
crogiolandosi nella loro invidia. Ora bisognava, parlando con Vanda, tirare il
discorso su quell’argomento, anche in mezzo alla loro conversazione che non
s’alzava d’un palmo sopra la banalità, ravvivata ogni tanto da qualche pallido
frizzo, come dallo scodinzolare d’un cane bassotto.
Per esempio:
mare e montagna. — Mi piace molto la montagna, — disse Attilio. — Partirmene a
piedi e girare per una settimana le Alpi Liguri, dormendo nei casolari e nei
rifugi.
— A me
piace un po’ Cortina, il Breuil; da questa parte non c’è nulla che valga la pena,
paesetti senza vita, ci si annoia. — Non era un inizio confortante. — Tutte le
estati facevo un giro, sacco in ispalla. Peccato quest’anno con questi ribelli,
questi tedeschi. Si rischia di prendersi una raffica in pancia. — Bel gusto! — fece
Vanda. Attilio inghiottì saliva, riprese: — Eppure, di un po’ di montagna ne ho
proprio voglia; sarei quasi tentato d’andarmene coi partigiani; dev’essere una
vita pittoresca; mi attira. — Era un modo d’arrivarci vergognoso, vigliacco: ma
Attilio, ad andare con Vanda, s’era avvezzato a questo torpido mentire, a
questa maschera grigia e avvilente; perché?
— Mamma
mia! — fece Vanda. — I ribelli! Vorrei proprio vederti!
Attilio
non si smontò. — Non ti piacerebbe che fossi un partigiano, uno barbuto che
gira nei boschi vestito di telo da tenda, col
la
cartuccera...? — Era un’immagine ridicola, creata apposta per Vanda, ma in
fondo anche lui i partigiani li immaginava così.
— Ma
perché poi fanno i partigiani? — Rispondere a queste domande di Vanda era
difficilissimo; non bisognava tirare in ballo le idee, neppure sfiorare le
idee, neppure far sospettare che si aveva delle idee: Vanda si sarebbe ritratta
spaventata come una cavalla a un’ombra sconosciuta. Bisognava muoversi nel
vuoto pneumatico, indicarle qualche immagine che fosse catalogata nei suoi
schemi, come in una scrittura a geroglifici.
Le parlò
della vita noiosa di quei tempi, senza distrazioni; disse che aveva voglia di
muoversi, di vivere all’aria aperta, di picchiarsi. — Tu!? — fece Vanda.
Certo era
strano sentire Attilio entusiasmarsi per uno sport violento; si sarebbe capito
da parte di un rompicollo, di uno di quei ragazzi che vanno in motocicletta, in
motoscafo, non da parte di Attilio, che aveva paura a tuffarsi dal trampolino
alto.
Attilio
si sentì ferito, quasi si fosse messa in dubbio la sua virilità; era una
velleità intellettuale, questo suo voler fare il partigiano, ora lo capiva,
nient’altro che una velleità intellettuale, ma lui ci si accaniva con
furore.
— Così,
mi lasceresti, per il gusto di girare per i boschicon un fucile a trombone? — Ormai
non c’era che mettersi a dire stupidaggini. — Verrai anche tu sui monti,
s’intende! Sarai la mia squaw!
Accenderai
il fuoco quando tornerò dalla battaglia, mi darai da bere brodo d’alce mentre
farò asciugare i mocassini! — C’era una donna lassù tra i partigiani,
gliel’aveva detto Edmondo, una jugoslava: portava i calzoncini corti e sparava
il mitra.
Attilio
doveva rompere con Vanda, non c’era scampo. La bionda Vanda dalla bocca
vittoriosa, dalle vesti color campanula e color bouganvillea
apparteneva
a un mondo tramortito, deluso nel fondo delle sue fibre. La loro avventura,
l’apoteosi dei loro frusti ideali, era caduta in un rogo dalle ali spezzate,
come l’apparecchio del primo fidanzato di Vanda, morto nel cielo di Russia.
Sulla
spiaggia i corpi fermentavano di sole e di noia. Era un’estate morta, per i
bagni: le spiagge abbandonate, ingombre di costruzioni antisbarco, il mare nero
minato tutt’intorno, la sabbia trascurata, sporca come terra. Nessun bagnante
venuto di fuori: solo soldati tedeschi dal corpo bianco e carnoso, con mutande
ridicole.
— Quest’anno
non si guarda tanto per il sottile. Quella che può accaparrarsi un uomo è
fortunata. — Chi parlava così era Elsa, il volto madido di crema, gli occhiali
neri come orbite di teschio, il corpo steso sulla sdraio, nel prendisole gonfio
come un sacco. Quanti anni aveva Elsa, ventisette, ventotto? Si diceva non
avesse mai avuto
in vita
sua. Tornavano sempre nei suoi discorsi, gli uomini, con malinconia, con
cinismo. C’era una valanga d’amore in lei che attendeva di scatenarsi, stretta
nel prendisole attillato, amore di ragazza, amore di amante, amore già di
madre: forse per questo i ragazzi ne avevano paura. Era inacidita in quell’abbandono:
si vendicava a suo modo, con discorsi che volevano essere spregiudicati, dove
uno scetticismo da salotto lottava con una superstite nostalgia d’illusioni
romantiche, in un contrasto che muoveva a compassione.
Sua
sorella, Luisa, bella e pratica, dal sentimento paziente e senza problemi,
aveva flirt
silenziosi
e brevi con ragazzi più giovani di lei, in attesa che il fidanzato lontano
tornasse a sposarla. Ora andava con Ruggero, il Nato- Stanco, ideale per quel
genere di relazione, perché non ne faceva mai parola ad alcuno, sapeva attendere
e non s’impazientiva ai suoi capricci. Se Luisa avesse appartenuto a un altro
rango avrebbe condotto certo una vita più libera, invece le toccava aver
pazienza fino al giorno del matrimonio; poi la vita coniugale le si proponeva
come qualcosa di pieno e d’intenso: l’affetto del marito, l’ammirazione dei
cicisbei, e forse l’avventura.
Le altre
due sorelle: Olga, piccola e grassotta, che si faceva sempre prendere in giro
dai fidanzati, e Enrichetta, un po’ languida, proclive agli strofinamenti
felini contro il corpo dei compagni più robusti e abbronzati, erano figlie di
una boliviana cinquantenne, che sedeva sulla sdraio posando sull’ombrellone
inclinato una gamba grassa e lardosa, scrutando gli uomini con un gonfio
occhio semichiuso. Al braccialetto le ciondolavano dei dischetti d’oro:
Vanda era
la più bella della compagnia d’amiche, scolpita in una carne senza fremiti. Ed
era la più sana, discendeva assai prossimamente da una prolifica razza
contadina. Sapeva difendersi; e forse quel suo aver scelto d’andare con
Attilio, il ragazzo intellettuale dalle scapole sporgenti e dalle natiche
magre, era un espediente della sua difesa. E poteva essere anche grazioso, di
fronte alle amiche, l’andare con quell’orso di Attilio, che diceva sempre
stramberie, e ricondurlo alla società, al rispetto delle convenienze.
Era una
società che moriva in costume da bagno. Tutta la loro etica era in quei loro
superstiti costumi da bagno, che delineavano e nascondevano con finta pudicizia
i loro inguini. La vecchia madre boliviana che le sorvegliava era la carne
eterna e sonnacchiosa, la loro prima materia.
Gli
aviatori del convalescenziario erano i frequentatori più assidui della
spiaggia: tutti feriti, parecchi mutilati. Attilio a trovarsi in mezzo a loro,
a ascoltare i loro discorsi di fidanzamenti e d’adulterii, di balli ora
proibiti, domani finita la guerra ripresi, di bombardamenti fatti o subiti,
considerava con orrore e pietà quella loro esplosione per le terre e i mari,
ora vinta e travolta, a difesa disperata del loro piccolo mondo convenzionale
di fidanzamenti e d’adulterii, e gli pareva d’essere prigioniero d’una gente
senza vie di salvezza, come di quel cerchio di corpi seminudi, taluni ridotti a
tronconi, quasi rottami gettati là da un naufragio.
Perché
restava là in mezzo, allora? Egli non era un vinto, la sua avventura cominciava
oggi e apriva una stagione nuova.
Vanda era
una fiamma fredda, come era freddo in lei il ricordo del fidanzato che cadeva
bruciando sulla Russia, rammentato oramai senza rimpianto, come un simbolo
della loro fatalità comune.
Gli
operai erano diversi. Arrivavano a casa sua in uno o due, coi calzoni
rattoppati, il fascio degli stampati sotto la camicia. Non erano mai contenti
del lavoro svolto da Attilio. — Organizzare, organizzare, — dicevano. Una
parola dura, per Attilio, in principio. — Noi abbiamo organizzato tutta la
ditta X, tutta la fabbrica Y, trecento operai circa. Possibile che tu non
riesca a mettere insieme quattro studenti? — Come si faceva a spiegare loro la
mentalità degli studenti? — Dicono che non capiscono a cosa serva il Fronte; a
ogni modo quando c’è da far qualcosa loro ci stanno. — Di ognuno che lui
organizzava chiedevano: — È un compagno? — Era difficile per uno studente
essere un compagno, come si faceva a spiegarlo a loro?
Attilio
passava loro gli articoli appena scritti, loro li intascavano senza guardarli;
forse li ciclostilavano senza nemmeno leggerli. Il triste dello scrivere
clandestino, per Attilio, era nel non sapere chi avrebbe letto e nel non poter
far sapere che era lui a scrivere: un castigo per la sua ambizione.
Però,
passando davanti alla sua biblioteca, gli sguardi degli operai s’incantavano
sui ripiani stipati di volumi. Avevano un grande rispetto per i libri; li aveva
visti una volta con libri allora allora comprati: di volgarizzazione
scientifica, di storia, scelti con liberalità. (— Che libro stai leggendo? — gli
aveva chiesto Vanda, una volta. — Il Faust. — Su, dimmi cosa stai leggendo. — Il
Faust di Goethe, ho detto. — Dai, non scherzare, dimmelo. — Ma che c’è di
strano: Goethe. — Uffa. Quante storie fai. — Beh, un romanzo di Foldy. Poi te
l’impresto.) Forse prestando dei libri agli operai si sarebbe potuto spiegare
meglio con loro. Ma sarebbe stata una cosa assurda,
non c’era
che da combattere. Per combattere bisognava lasciare Vanda. Dopo aver parlato
per due ore di stupidaggini con Vanda, con la bocca amara come dopo un cattivo
risveglio, a incontrare gli operai, a udire le notizie che gli dicevano: — È
successo questo, quest’altro, non sai? — si sentiva tagliato fuori, si
vergognava di sé stesso.
Mentre
tante cose succedevano nel mondo intorno, arresti, uccisioni, lei gli proponeva
una delle sue solite stupide questioni, se poteva esistere un amore soltanto
spirituale che non fosse anche materiale, e sosteneva che poteva esistere, e
lui s’affannava invano a spiegarle che lo spirituale e il materiale erano la
stessa cosa. Poi s’infuriava contro sé stesso; ogni volta.
Incontrò
gli operai passeggiando a braccetto con Vanda. Se ne venivano vestiti coi loro
abiti buoni: uno, il gasista, secco e striminzito, l’aria patita; l’altro, il
meccanico, con la schiena da pugilatore, lo sguardo olimpico. A un loro cenno
lasciò Vanda, scusandosi. Erano in un giro solitario di un viale. — Sai, hanno
preso Gigi, pare sorveglino anche noi, forse anche te. Non venire a casa
nostra, neanche noi da te.
Su Gigi
non hanno prove, forse lo rilasciano. Sta’ all’occhio. — Non state a pensare a
me. Al primo accenno d’aria cattiva: ai monti! Se non posso più fare attività
qui, passo lassù. — Anche gli operai erano d’accordo. Poi cambiarono discorso. —
Dì, sai che hai una donna fenomenale? — disse il gasista. Il meccanico annuì
gravemente, sporgendo il labbro di sotto con aria da intenditore.
"Crederanno
che ci dorma assieme?" pensò Attilio. Ma l’avere una bella donna sentiva
che lo avvicinava a quegli uomini, pur nella loro invidia; non era come avere
una bella casa, dei bei libri, cosa di cui quasi si sentiva umiliato, di fronte
a loro, cosa che dichiarava solo uno squilibrio sociale, tra lui e loro;
nell’avere una bella donna era in gioco qualcosa di comune tra lui e loro. Di
fronte alla bellezza delle donne erano compagni come di fronte al tedesco che
li avrebbe forse arrestati insieme.
Con
quest’animo raggiunse Vanda: si sentiva ravvicinato anche a lei, adesso; ora
che la vedeva giustificata pure agli occhi dei compagni.
— Chi
erano? — chiese Vanda. — Due della ditta. Questioni di turni. — Così tutto
tornava come prima. Il gioco stupido ed inutile.
Ma se
l’avessero arrestato, cosa avrebbe detto, Vanda? Se l’avessero fermato, mentre
era a braccetto con lei, due militi, e l’avessero portato via in mezzo a loro,
ammanettato? Già la vedeva, ferma, che li guardava allontanarsi, impietrita
dallo stupore, gli occhi già pieni di lacrime... Perché? Perché questo a Vanda?
Alle volte gli prendevano degli slanci di tenerezza, per Vanda, quasi una
precoce nostalgia, che preveniva la separazione. "Già: capisco perché dici
sempre che vuoi andare in montagna e non ti decidi mai..." gli aveva detto
il gasista, maligno. Ecco: anche gli operai comprendevano. Se avessero avuta
una donna così, anche loro, forse...
Doveva
essere dolce e soffice la vita accanto a Vanda, come in un mondo di zucchero
filato e di croccante, una vita senza problemi, lievemente animalesca, da sani
animali soddisfatti: i borghesi! Perché non accettava Attilio questo suo posto
di borghese assegnatogli dal destino, dalla natura? Perché pretendeva di
risolvere le contraddizioni del mondo, e s’impelagava in contraddizioni ancora
più stridenti? In quel suo spirito di ribellione, in quel suo consumarsi in una
passione letteraria o politica, quanto non era residuo dell’ombrosa solitudine
dell’adolescenza, quando la donna è una terra misteriosa e irraggiungibile? Ora
egli aveva la donna, così, senza ribellione, senza gloria: la sua vita sarebbe
stata soddisfatta anche così, ereditando l’agiata professione paterna, considerando
con moderato umorismo quel piccolo mondo provinciale, accanto ad una moglie
elegante ed invidiata: Vanda.
A volte
gli uomini che si muovevano nel mondo, tutti gli uomini che s’erano mossi nella
storia, gli sembravano mossi da insanabili squilibri, affetti da una uguale,
furibonda isteria. Poi, gli sbandamenti dei partigiani sui monti. I camion
tedeschi saliti a centinaia, in quei giorni, avevano disperso le bande,
bloccato tutti i paesi. I mongoli! Mille, duemila mongoli sarebbero arrivati
oggi, domani, di qui a tre giorni; avrebbero battuto le montagne rocca per
rocca, saccheggiando, squartando, violentando. — Non salire, — gli aveva detto
Edmondo. Salire, e perché? Non poteva fare il suo dovere quaggiù, non era più
utile a redigere il testo di un giornaletto clandestino, piuttosto che lassù,
con un
thompson
che gli
si sarebbe inceppato sicuramente tra le mani?
Erano i
tempi in cui la gente della città credeva che i partigiani fossero tutti armati
di
thompson. E
non importava che Edmondo gli avesse assicurato che lassù
thompson non
ne aveva visto neanche uno; Attilio si vedeva già
col thompson inceppato, arma misteriosa e traditrice, travolto
dall’orda cavalcante dei mongoli, con la treccia in mezzo al cranio raso. Non
era pane per lui: come non era donna per lui la jugoslava di cui aveva detto
Edmondo, coi calzoncini corti, il mitra, che parlava osceno. Meglio Vanda:
meglio continuare a scrivere, a gettare i foglietti ciclostilati nelle cassette
delle lettere dei portoni. Ma perché poi, continuare? Lo slancio degli inglesi
ormai smorzato in Italia, in Francia; la Russia lontana come un brontolio di
tuono; qua la rete che si stringeva ogni giorno: perquisizioni, arresti. Quanto
sarebbe durata, così? Non bisognava essere fanatici, perdere il senso delle
proporzioni.
Quel
giorno il partito lo invitava a una data ora, in una data casa: una trappola?
No, stava diventando troppo diffidente. Ecco: lui sarebbe andato, avrebbe detto
che per un po’ avrebbe sospeso la sua attività; riprenderebbe poi più tardi,
appena le cose della guerra accennerebbero a schiarirsi. Non si poteva far
girare a vuoto quella macina alimentata dalle loro vite.
La casa
era in un vicolo a ciottoli, appoggiata ad arcate. Si saliva per una scala
stretta e buia, quasi verticale. Da dietro l’uscio sul breve pianerottolo
veniva il rumore d’una macchina da cucire. Al bussare convenuto aprì una
ragazza bassa e nera e lo introdusse in una stanzetta ingombra di quel
disordine dei laboratori da sarta.
Cercò chi
l’aveva fatto chiamare. — Ti devo parlare io. Tu sei il compagno degli
articoli? — Io sono quello di «Rinascere nel sangue», «Parole agli schiavi»,
«Italia senza italiani». — Li hai scritti tu? — Sì. Li hai letti? — La ragazza
nera disse: — Sì. — Attilio s’era accorto che c’era in lei una bellezza
raccolta e dignitosa, nel corpo proporzionato, nello sguardo fieramente triste.
— Non si tratta di questo, adesso: tu organizzi studenti, no? — Ecco che
ritornava distante, estranea. — Bene, bisogna raccogliere materiale per quelli
di lassù, vestiario, medicinali, armi se ne trovi. E denari, soprattutto. — Cosa
si sa di su? Va male? — Mancano di tutto. Ne torno adesso. Oreste e
Spada sono feriti. Oreste gravemente. È morto Ruffini. — Stette un po’ in
silenzio: Attilio s’accorse dello sguardo della ragazza nera, colmo d’una
volontà cupa, disperata; di quel suo stringere un labbro tra i denti; del suo
petto pieno di respiro, con le gugliate agli aghi appuntati sulla blusa. Non si
poteva parlare di sospendere l’attività; chi ci aveva mai pensato, a sospendere?
Era bello
che in banda si potesse vedere una donna come lei, ogni tanto, non solo la
jugoslava. E forse la jugoslava non c’era nemmeno, se l’era inventata Edmondo. —
...Ma tengono duro. Guai se non si tenesse duro. Se i tedeschi hanno le spalle
sicure è finita. Voglio che mi porti molta roba presto. Ci conto. Per quando? —
Lasciami un po’ di tempo. Una settimana. — Prima: lassù muoiono. Guarda, domani
vado su, ho da curare Oreste, da portargli bende, ché la ferita spurga
continuamente. Giovedì sono di ritorno. Va bene giovedì? — Disse di sì,
macchinalmente. — E cerca degli uomini che salgano. Anche ufficiali, se ne
trovi. Di qualsiasi partito, di qualsiasi idea, basta che vogliano battersi.
Bisogna fare nuovi distaccamenti, ricostituire la brigata.
Uscito,
gli rimase negli orecchi il grave sussurro delle sue ultime raccomandazioni: «
Giovedì, intesi? Medicinali. Scarpe». E gli rimase negli occhi quel suo
sguardo, mentre diceva che Ruffini era morto. Camminava per la strada a pugni
chiusi. Degli uomini che salgano... Basta che vogliano battersi... Attilio
voleva battersi: sentiva una volontà cupa e disperata in lui, avrebbe vendicato
i morti, punito i traditori, ma capiva che ogni suo atto, ogni suo gesto
sarebbe stato dettato da un segreto bisogno del rispetto, dell’ammirazione di
quella ragazza bassa e nera.
In quei
tempi la città era bombardata ogni notte e le famiglie che potevano sfollavano
in campagna accampandosi in villette e casolari. Le ragazze capitarono quasi
tutte nei pressi d’un podere della famiglia d’Attilio: la domenica lui le
invitò a mangiare frutta, a fare il bagno in una peschiera. Portarono il
grammofono e ballarono nel recinto delle capre.
Attilio
partecipava alla festa senza riserve: solo per lui la festa aveva un senso,
nessun altro lo sapeva: in casa, nascosto nella cassapanca, era il sacco già
pronto per l’indomani all’alba, con la coperta avvolta, la pistola; quella era
la festa d’addio, il commiato. Non senza tormento, però: di giorno in giorno,
d’ora in ora, aveva rimandato la sua spiegazione con Vanda, la rottura. Non
sapeva ancora cosa le avrebbe detto; ora era impossibile parlarle, con tutti
gli altri intorno, sarebbe stato per stasera, se no l’avrebbe lasciata senza
una parola, come un sasso.
Aveva un
aspro rancore contro di lei, forse immotivato; era forse il doverla lasciare
così che l’obbligava a immaginarsela più egoista e cattiva di quanto non fosse.
Lei s’era accorta da giorni di qualcosa di cambiato in lui, e si teneva sulla
difesa; un’ombra veramente di cattiveria e d’egoismo era nella piega della sua
bocca, nel suo sguardo, in quei giorni. S’erano svestite nella stalla, tra
il bramito inquietante degli arieti. Coi loro costumi da spiaggia s’erano
tuffate nell’acqua verde e viscida della peschiera. La vasca non grande ma
profonda traboccava dei loro corpi; il divertimento per Attilio e gli amici era
diguazzare in mezzo a quell’acqua e a quella carne di ragazze. C’era anche il
Nato-Stanco, venuto per incontrare Luisa che non s’interessava più a lui; era
innamorato morto, Ruggero, e non sentiva in sé la forza di riconquistare la
donna ormai annoiata del gioco. Ma il peso della sua abulia non gravava più su
Attilio; egli gustava la gioia del pomeriggio campagnolo, senza più timore di
scoprire in sé un tenace attaccamento a quel mondo che stava per abbandonare.
La sua decisione era presa, ormai.
Scherzava
con Vanda e ancor più con le altre ragazze, forse per un inconscio desiderio
d’irritarla, di spingerla al litigio che giustificasse. Vanda era inquieta. — Che
hai quest’oggi? Sei strano... — gli chiedeva, con apparenza tranquilla,
indagatrice. — Strano? Mah... — Bisognava secondare il gioco. Vanda era sulla
difesa, lo sguardo amaro. — Dimmi cos’hai... — Ora no. Stasera.
Un vento
acquatico moriva ogni sera in grembo agli olivi del poggio dove s’incontravano
Attilio e Vanda, dopocena. Attilio approssimandosi si sentiva di nuovo
insicuro: un accenno di debolezza sarebbe bastato a perderlo. Non era
un’avventura che si decideva nel passo dell’indomani all’alba, ma tutta la sua
vita, il suo essere uno piuttosto che un altro: se non partiva non avrebbe mai
tagliato i ponti, sarebbe annegato in quello stagno di compromessi come
nell’acqua viscida della peschiera, geometrico e snodato come il Nato- Stanco,
si sarebbe rotolato nella polvere degli anni sotto l’ombrellone della vecchia
boliviana.
Vanda
l’aspettava già, tra gli olivi, le mani nelle tasche del soprabito estivo
bianco. Non s’era truccata, c’era qualcosa di gonfio sul suo volto, di vecchio.
Attilio la raggiunse, si sentiva vuoto. — Vanda, — disse. Lei camminava senza
guardarlo. — Non c’è bisogno che ti sforzi, — fece. — Ho capito tutto. — Questo
era inaspettato, ma semplificava; era la via naturale, diretta. Attilio fece un
gesto con le braccia, un: ormai!
— Luisa,
eh? — disse Vanda. Che c’entrava Luisa? — Quella divetta. Me ne sono accorta
subito. Ma ti piglia in giro, ti piglia! — Le sue parole erano tutte rabbia e
saliva tra i denti. Era una cosa sciocca, umiliante: credeva in una sua
infedeltà; e che altro si poteva aspettare da lei?
La
gelosia di Vanda non inorgogliva mai Attilio: era meschina, non derivava
dall’amore ma dalle piccole rivalità di ragazze use a contendersi gli amici
solo per farsi dispetto l’un l’altra, Attilio o il Nato- Stanco era lo stesso.
Per questo stupido gioco aveva trattenuto Attilio, non per altro; e lui,
sciocco, se n’era tormentato. — Sì: Luisa, — disse. Sarebbe finita, così. — Va’
da lei, allora. Chi ti tiene? Tutti i gusti son gusti. — Continuava a non
guardarlo, era sconfitta. — È che lei non fa tante storie, come te. Con lei si
può arrivare subito al sodo, si può arrivare. — Si stupì d’aver parlato così.
Per vendetta? Per orgoglio d’uomo? Ma lei non trasalì; sembrava l’aspettasse.
Si rivoltò lenta, guardandolo a palpebre cariche, le sopracciglia contorte. La
boliviana, pensò Attilio. Si sentiva freddo e lucido. Forse era ingiusto: la
odiava. Vanda non era più lei: il viso spiegato come un panno steso. Attilio
conosceva quell’abbattimento delle ragazze vinte, si sentiva lucido, padrone di
sé. Lei morse il bavero del soprabito, a occhi gelidi: s’era dominata.
Era una
ragazza forte? Era vile! Era vile, nell’odio inclemente di Attilio, perché non
aveva il coraggio d’andare fino in fondo, perché si sacrificava al pregiudizio.
Ma ecco, ora Vanda alzava il viso verso di lui, abbandonata a ridosso d’un
tronco, si ravviava i capelli alle tempie.
C’era
sempre molta bellezza in lei. Scopriva i denti. L’astuta boliviana, ancora. — Mi
sposerai...? — disse.
I sogni
dei partigiani sono corti e poco fantasiosi. Sogni di uomini affamati, nati
dalle notti di fame, legati alla storia del cibo sempre poco e da dividere in
tanti: sogni di pezzi di pane morsicati e chiusi in un cassetto. I cani randagi
devono fare sogni simili, di ossa rosicchiate e nascoste sottoterra. Solo se si
dorme vicino al fuoco, la pancia è piena, e non si è camminato troppo durante
il giorno, ci si può concedere di sognare una donna nuda e al mattino ci si
sveglia sgombri e spumanti con una letizia come d’ancore salpate. Allora si
prende a parlare di ragazze, con i compagni stesi nella paglia, e si racconta e
ci si passa le fotografie. Toccò anche a Attilio mostrare la sua, portata
sempre in fondo al portafoglio. I compagni pidocchiosi, malrasi, si sporgevano
dietro le sue spalle, sbarrando gli occhi imbambolati davanti al viso, al corpo
della più bella ragazza della spiaggia. Essa sarebbe rimasta così nei loro
occhi di uomini assetati e così l’avrebbero sognata, nei loro sonni interrotti
dai turni di guardia e dagli allarmi.
E ad
Attilio parve in quel momento che a abbandonarla alle fantasie di quei suoi
compagni pidocchiosi e stracciati, avesse esaudito un suo ultimo desiderio di
vendetta.
© 2020
Eredi Calvino e Mondadori Libri S.p.A., Milano Tratto da "Il sentiero dei
nidi di ragno" di Italo Calvino Per gentile concessione degli Eredi e
dell’Editore
©
RIPRODUZIONE RISERVATA
Nessun commento:
Posta un commento