Alessandro Baricco: "Ho visto complicare in modo
feroce e stupido la vita degli umani"
di Alessandro
Baricco
Esce una raccolta di racconti inediti di autori italiani che rispondono
alla domanda: che cosa è sopravvalutato? Pubblichiamo in
anteprima quello dello scrittore di “Seta” intitolato "Perdere qualcosa o
qualcuno"
Non che sia piacevole, certo. Ma se penso a cosa ho visto complicare in
modo particolarmente feroce e stupido la vita degli umani, ho ben presente la
loro tendenza ad attribuire una gravità altissima a quelle circostanze in cui,
per incuria personale, ingerenza del caso o iniziativa altrui, ci si trova a
dover rinunciare a qualcosa, se non addirittura a qualcuno. Ciò che sembra accadere,
lì, e che una sezione più o meno portante dell’edificio in cui gli umani
trovano ricovero scompaia, dall’oggi al domani, compromettendo una stabilità
che si voleva compiuta. E già si intravede l’assurdità della cosa. Giacché
nessuna stabilità è stabile, come si sa, e nessun ricovero è mai sufficiente, e
comunque compiuto, realizzato. Si tratta sempre di opere in costruzione, di
sistemi provvisori, tanto che la convinzione che molti hanno di disporre di un
tetto sulla testa, almeno, la notte, appartiene assai più a un abile
storytelling quotidiano che alla realtà dei fatti. Si deve capire allora che,
in una cornice di tale evidente precarietà, la perdita di cose e persone non
dovrebbe rappresentare che un assestamento statico tra gli altri, comunque la
frana di un muro mai davvero costruito, in definitiva un ordinario ridisegnarsi
di un sistema complesso sempre in divenire.
E invece.
E invece
gli umani tendono ad aggrapparsi a ciò che se ne sta andando, nella folle
convinzione che quanto stanno perdendo sia indispensabile alla loro
sopravvivenza. Alle volte, seppur per un lasso di tempo misurato, perfino una
borsetta, rubata, o un quarto d’ora, perso ad aspettare in coda, possono
assumere mitologicamente la statura di una perdita mortale. Tanto è istintivo
il terrore di vederci sottratto qualcosa. Lo complica, e lo estremizza, un
culto della proprietà che è fenomeno storico, portato culturale, tara
ideologica, ma non per questo meno ostico da fronteggiare. L’idea, di per sé
folle, di possedere qualcosa o addirittura qualcuno ci accompagna,
condannandoci a un lavoro di polizia costante e di sorveglianza maniacale.
Viviamo esistenze fatte di casseforti, contraeree, allarmi e ponti levatoi.
Giacché, invece di abitare accanto alle cose e alle persone, ne facciamo nostre
proprietà, quindi punto di non ritorno, status acquisito: capite che esistenza
piena di ansie siamo destinati a colmare coi nostri giorni. Chi possiede, sarà
derubato.
Le conseguenze di questa inclinazione a sopravvalutare la perdita di cose e
persone sono, come si sa, terrificanti. E si allungano per anni nei giorni
della gente. Innumerevoli sono i casi di vite quotidiane ridisegnate dallo
shock di una perdita, e non sembra poi avere una grande importanza la
dimensione della perdita. Come la morte di una persona cara può trasformarsi in
un verdetto di condanna su un’intera vita, la perdita di una possibilità di
lavoro, o di una onorificenza, o di una gara, può allungarsi come un’ombra nera
su tutte le vite circostanti, per anni. Se si cerca dentro certe infelicità che
sterminano intere famiglie, si troverà facilmente la futilità di una
opportunità persa tanto tempo prima, o lo sfregio di una scomparsa voluta dal
caso o da una maligna intenzione altrui. È straziante pensare quale luce e
quanta vita si sarebbe potuto generare se solo si fosse stati capaci, in quel
preciso momento, di lasciare andare le cose, invece che sopravvalutare
tragicamente l’effetto del loro abbandono.
Si dirà che elaborare una perdita, o un lutto, o un furto, non è una cosa
semplice, e che in generale non si sceglie come reagire allo strappo che ci
porta via una vita, una fortuna, un amore: si soffre e basta. Ci si ribella. Ci
si vendica. Ma non è poi così vero. La capacità di lasciare andare le cose e le
persone parte da lontano, è un modo di stare al mondo ed è cosa che si può
educare in ogni nostro fare. Non è vero che ci sia estranea, ci è solo,
culturalmente, lontana. Ma ci appartiene e, se solo evitiamo di arrenderci
senza condizioni alla paura, la possiamo ritrovare nelle mosse più spontanee
del nostro animo. C’è una leggerezza istintiva, in noi, o almeno c’era prima
che fossimo educati a combatterla.
Analogamente, non è affatto fuori dalla nostra portata la capacità di trovare
saldezza e riparo non tanto nelle cose e persone in mezzo a cui viviamo (e che
ci illudiamo di possedere) ma in una regione intima del nostro sentire che,
come un’isola, come un ombelico, come una sorgente, pre-esiste all’arrivo di
qualsiasi scheggia di mondo, e sopravvive, intonsa, a qualsiasi suo dileguarsi.
Bisogna avere fiducia in questa nostra camera segreta, e non cessare di
cercarla, in noi stessi. Si trova più o meno dove la nostra vita interiore
incrocia il respiro del corpo, il flusso impalpabile dei ricordi, un inconsueto
amore per noi stessi, e una strana calma. Lì, nessuna perdita è disastrosa. Al
limite, neanche quella della vita.
Devo aggiungere una postilla discutibile. Nel novero delle cose e persone che
accade di perdere, vanno ovviamente registrate con un tratto particolare quelle
che si perdono a causa di un’ingiustizia. Sono moltissime. Ci sarebbe una
legge, o quanto meno una consuetudine, o almeno una norma di buon senso, e
qualcuno la infrange e ci porta via qualcosa o qualcuno. La cosa ci esaspera
perché aggiunge, al dolore della perdita, il senso intollerabile
dell’ingiustizia. Allora scatta un fenomeno di legittima ribellione, e se ci
fosse qualcuno che ancora non ne ha capito le devastanti conseguenze può
leggere Michael Kohlhaas di Kleist, o ripassare la genesi di
qualsiasi guerra. Per quanto possa sembrare sgradevole e pericoloso dirlo, la
tendenza a sopravvalutare il valore delle ingiustizie e l’inclinazione a
idolatrare la giustizia genera sofferenze immani, tra gli umani, tanto da
rendere lecito chiedersi se un atteggiamento più morbido sulla faccenda non
produrrebbe, a medio e lungo termine, un mondo più vivibile, dolce e, in
definitiva, vero.
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