Herman
Melville
BARTLEBY,
LO SCRIVANO
(UNA STORIA DI WALL
STREET)
Sono un uomo piuttosto
avanti negli anni. La natura della mia professione mi ha portato, nel corso
degli ultimi tre decenni, in contatto, e non soltanto nel solito contatto, con
una categoria di uomini interessante all'apparenza e in qualche modo singolare,
sui quali, per quanto ne so, finora non è mai stato scritto nulla: mi riferisco
ai copisti legali ovvero agli scrivani. Nella mia vita professionale e privata
ne ho conosciuti moltissimi e, se volessi, potrei raccontare varie storie che
farebbero sorride re i benevoli e piangere i sentimentali. Ma per qualche brano
sulla vita di Bartleby, il più strano che abbia mai visto o conosciuto,
rinuncio alle biografie di tutti gli altri. Mentre di molti scrivani potrei
narrare l'intera vita, non si pu0 fare nulla del genere per Bartleby. Non esiste materiale
- ne sono convinto - per comporre una biografia completa e soddisfacente di
quest'uomo. È una perdita irreparabile per la letteratura. Bartleby fu uno di
quegli individui sui quali non si riesce ad accertare nulla, senza risalire
alle fonti originali, nel suo caso molto esigue. Quello che videro i miei occhi
attoniti: ecco ci0 che so di Bartleby, tranne, invero, una vaga notizia che
apparirà in seguito.
Prima di introdurre lo
scrivano, quale mi apparve la prima volta, è opportuno che accenni a me, ai
miei employés, al mio lavoro, al mio
ufficio e all'ambiente in generale, perché si tratta di ragguagli
indispensabili per capire in modo adeguato il protagonista che fra poco sarà
presentato. Anzitutto, sono un uomo che, dalla giovinezza in poi, ha maturato
una profonda convinzione: nella vita la via più facile è la migliore. Ne
consegue che, pur svolgendo una professione proverbialmente esuberante e a
volte concitata al limite della turbolenza, non ho mai lasciato che cose del
genere sconfinassero nella mia pace. Sono uno di quegli avvocati privi di
ambizioni, che mai si rivolgono alla giuria e in nessun modo inseguono
l'applauso del pubblico, ma che, nella tranquilla frescura di un angolino
appartato e discreto, si dedicano a un lavoro discreto fra i titoli, le
obbligazioni, le ipoteche di uomini abbienti. Quanti mi conoscono mi
considerano una persona eminentemente cauta e fidata. Il compianto John Jacob
Astor, personaggio poco incline ai voli poetici, non esitava a dichiarare che
la mia prima virtù era la prudenza; la seconda, il metodo. Non lo dico per
vanità, ma soltanto per attestare il fatto di aver prestato i miei servigi al
compianto John Jacob Astor, nome che adoro ripetere, lo ammetto: possiede
infatti un suono rotondo e sferico, tintinnante come l'oro. Aggiunger0 di mia iniziativa di
non essere stato insensibile alla buona opinione che di me aveva il compianto
John Jacob Astor.
Qualche tempo prima dell'epoca in cui ebbe
inizio questa breve storia, il mio lavoro era molto aumentato. Mi era stato
conferito il buon vecchio incarico di giudice dell'Alta Corte di Equità,
ufficio ormai abolito nello stato di New York. Non era una carica molto
gravosa, ma assai piacevolmente remunerata. Di rado perdo la calma, ancora più
di rado mi abbandono a una pericolosa indignazione davanti ai torti e agli
oltraggi, ma - mi sia concesso a questo punto di essere avventato - dichiaro
che, a mio avviso, l'abrogazione subitanea e violenta dell'ufficio di giudice
dell'Alta Corte di Equità, da parte della nuova legge, fu... un atto prematuro,
tanto
più che avevo contato su quei benefici per il resto dei miei giorni, mentre ne
godetti soltanto per alcuni brevi anni. Ma questo è detto tra parentesi.
Il mio ufficio era al primo piano di Wall
Street, n. - Da un lato le finestre si affacciavano sul muro bianco di un ampio
cavedio, che prendeva luce da un lucernario e attraversava la casa da cima a fondo.
Questa veduta forse
poteva sembrare più scialba che suggestiva, carente com'era di quanto i pittori
paesaggisti definiscono «vita». Ma, se così era, la vista sull'altro lato
dell'ufficio, offriva, almeno, un contrasto. Su quel versante le finestre dominavano
in pieno la vista di un alto muro di mattoni, annerito dagli anni e incupito
dalla perenne ombra. Non occorreva che un cannocchiale ne rivelasse le bellezze
nascoste, perché, a beneficio degli osservatori miopi, queste risaltavano a
meno di dieci piedi dai vetri delle mie finestre. La circostanza che gli
edifici intorno fossero molto alti e che il mio ufficio fosse al primo piano
faceva sì che lo spazio fra questo muro e il mio assomigliasse a un'enorme
cisterna quadrata.
Nel periodo appena
precedente l'arrivo di Bartleby avevo al mio servizio due persone in qualità di
scrivani e un ragazzo promettente che faceva da fattorino. Il primo, Tacchino;
il secondo, Pince-Nez; il terzo, Zenzero. Nomi questi che non si trovano forse
nei registri: a dire il vero, erano nomignoli che i tre si erano reciprocamente
affibbiati e - pareva - esprimevano bene le rispettive persone e i rispettivi
caratteri. Tacchino era un inglese basso e asmatico, della mia stessa età, cioè
non lontano dai sessant'anni. Al mattino, si potrebbe dire, il suo volto aveva
un bel colorito florido, ma dopo le dodici, mezzodì - l'ora di pranzo - si
accendeva come la grata del caminetto a Natale, e continuava a fiammeggiare -
ma, per così dire, smorzandosi a poco a poco - fino alle sei o giù di lì, dopo
di che non vedevo più il proprietario di quella faccia che, raggiungendo il
pieno fulgore con il sole, sembrava tramontare con questo, per sorgere,
culminare, declinare il giorno successivo, con pari regolarità e altrettanta
gloria. Esistono molte coincidenze singolari che ho conosciuto nel corso della
vita, non ultima quella che, esattamente quando Tacchino irradiava tutto il suo
fulgore dal volto rosso e raggiante, proprio allora, in quel momento critico,
aveva inizio la fase quotidiana nella quale, a mio avviso, le sue capacità
professionali erano gravemente compromesse per ciò che restava delle
ventiquattro ore della giornata. Non che allora rimanesse a girarsi i pollici,
o mostrasse avversione al lavoro: lungi da ciò. Anzi: il guaio era che si
affaccendava troppo. Cadeva in preda a una strana furia arruffata e
pasticciona. Era sbadato nell'intingere la penna nel calamaio. Le macchie sui
documenti cadevano tutte allora, dopo le dodici. Invero nel pomeriggio non era
soltanto sventato e tristemente incline a fare macchie, ma, in alcuni giorni,
ne combinava di peggio e si faceva rumoroso. In queste occasioni la sua faccia
accesa avvampava ancora di più, quasi che sull'antracite avessero ammucchiato
carbone tipo cannel. Con la sedia faceva chiasso a non finire; rovesciava lo
scatolino della sabbia; nell'aggiustare le penne, per l'impazienza, le faceva a
pezzi e le buttava per terra, preso dalla rabbia; si alzava, si sporgeva oltre
il tavolo, metteva a soqquadro le carte in modo addirittura indecoroso: insomma
davvero uno spettacolo triste in un uomo della sua età. Era tuttavia per me un
collaboratore prezioso, che fino a mezzogiorno si dimostrava, come pochi,
persona pronta, equilibrata e assidua, capace di svolgere una grande mole di
lavoro di qualità non facilmente uguagliabile. Ecco perché chiudevo un occhio
sulle sue bizzarrie, sebbene di tanto in tanto, invero, gli rivolgessi le mie
rimostranze. Lo facevo con molto tatto, perché, mentre al mattino era il più
civile, garbato,
rispettoso degli uomini, nel pomeriggio, se
provocato, rischiava di ricorrere a parole un po' avventate, anzi insolenti.
Ora tenendo, come facevo, in grande considerazione i suoi servizi mattutini, e
deciso - a non perderli - tuttavia, sentendomi nello stesso tempo a disagio per
i suoi modi pomeridiani così esuberanti - ed essendo un uomo pacifico, poco
propenso a suscitare con i miei rimproveri reazioni disdicevoli da parte sua,
mi decisi, un sabato pomeriggio (al sabato era peggio che negli altri giorni),
ad accennargli, con molto garbo, che, forse, ora che invecchiava, avrebbe ben
potuto ridurre l'orario di lavoro; insomma non era necessario che venisse in
ufficio dopo le dodici, ma, una volta finito il pranzo, gli sarebbe convenuto
ritornarsene a casa a riposarsi fino all'ora del tè. Niente da fare: insistette
nel dedicarmi i suoi servizi pomeridiani. il
volto gli si infervorò da far paura, mentre con piglio oratorio mi assicurava -
gesticolando con un lungo righello all'altro capo della stanza - che, se erano
utili i suoi servizi mattutini, non erano forse indispensabili quelli
pomeridiani?
((Con tutto il rispetto, signore», disse
Tacchino in questa occasione, ((mi considero il suo braccio destro. Al
mattino mi limito a ordinare in grande spiegamento le mie schiere, ma nel
pomeriggio mi metto alla loro testa e audacemente attacco il nemico, così», e
con il righello vibrò una violenta stoccata.
((Ma
le macchie, Tacchino», insinuai timidamente.
((Vero, signore, ma con
tutto il rispetto, guardi questi capelli! Sto invecchiando. Di sicuro non si
può rimproverare a questi capelli grigi una macchia o due in un pomeriggio
caldo, signore. La vecchiaia, anche quando imbratta una pagina, è onorevole.
Con rispetto, signore, tutti e due stiamo
invecchiando».
Difficile resistere a quell'appello alla mia
solidarietà. Capivo in ogni caso che di andarsene non se ne parlava. Risolsi,
perciò, di lasciarlo stare, decidendo tuttavia di provvedere a che nel
pomeriggio trattasse documenti di minor conto.
Pince-Nez, il secondo
della lista, era un giovanotto di circa venticinque anni, giallognolo, con
basette e, nell'insieme, con un'aria piratesca. Ho sempre ritenuto che fosse la
vittima di due influssi malefici: l'ambizione e la cattiva digestione.
L'ambizione si manifestava in una certa insofferenza per i compiti di mero
copista, che inammissibilmente usurpavano gli affari strettamente
professionali, come la stesura originale di documenti legali. Quanto alla
cattiva digestione, ne erano sintomi una saltuaria irascibilità e ringhiosa
irritabilità che gli facevano arrotare i denti in modo udibile per errori
commessi nel copiare: imprecazioni inutili, sibilate più che scandite a parole
nell'incalzare del lavoro, e soprattutto la perpetua scontentezza per l'altezza
della scrivania. Sebbene avesse un'inclinazione ingegnosa alla meccanica,
Pince-Nez non riuscì mai ad adattare il tavolo alle proprie esigenze. Metteva
sotto pezzi e pezzettini di vario genere, blocchetti di cartone: per ottenere
uno squisito equilibrio arrivò all'estremo tentativo di utilizzare strisce di
carta assorbente piegata. Ma inutili erano tutti i colpi di genio. Se, per dar
sollievo alla schiena, alzava il ripiano del tavolo ad angolo acuto portandolo
quasi sotto il mento e vi lavorava come chi usasse per scrivere il tetto
spiovente di una casa olandese, allora dichiarava che così gli si bloccava la
circolazione delle braccia. Se allora abbassava il tavolo fino alla vita e vi si
piegava sopra per scrivere, ecco che insorgeva un acuto dolore alla schiena.
Insomma, la verità era che Pince-Nez non sapeva quello che voleva. Oppure, se
qualcosa voleva, era di sbarazzarsi una volta per tutte del tavolo da scrivano.
Fra le manifestazioni della sua morbosa ambizione c'era una propensione
entusiastica a ricevere le visite di certi individui loschi, intabarrati in
malconce
palandrane, che egli chiamava suoi clienti.
Ero al corrente, in verità, che non soltanto si dava da fare, a volte, in una
circoscrizione elettorale, ma di tanto in tanto sbrigava qualche faccenduola in
tribunale e non era sconosciuto sui gradini delle Tombe. Ho, tuttavia, buone
ragioni di ritenere che almeno un individuo - uno che veniva a trovarlo in ufficio
- e che lui con grandi arie si ostinava a chiamare suo cliente, altri non fosse
se non un esattore che gli stava alle costole, e il presunto titolo di credito,
una cambiale. Ma con tutte le sue manchevolezze e i fastidi che mi procurava,
Pince-Nez, come il suo compatriota Tacchino, mi era molto utile: scriveva con
mano rapida e nitida e, quando gli garbava, non gli mancavano maniere da
gentiluomo. E da gentiluomo si vestiva sempre, dando così, incidentalmente,
lustro al mio studio. Con Tacchino, invece, dovevo adoperarmi perché non mi
facesse sfigurare. I suoi abiti erano spesso unti e puzzavano di trattoria;
d'estate portava pantaloni larghi e sformati; le giacche erano esecrabili; il
cappello, poi, meglio non toccarlo. Ma se il cappello mi era indifferente
perché la naturale urbanità e la deferenza da impiegato inglese lo inducevano a
toglierselo nell'istante in cui varcava la soglia, la giacca, invece, era
tutt'altro affare. Ne ragionai con lui, a proposito dell'argomento giacca, ma
senza risultato. La verità era, credo, che un uomo con uno stipendio così
modesto non poteva permettersi di esibire simultaneamente una faccia smagliante
e una giacca smagliante. Come osservò una volta Pince-Nez, i soldi di Tacchino
andavano quasi tutti in inchiostro rosso. Un giorno d'inverno regalai a
Tacchino una mia giacca dall'aria molto rispettabile grigia, imbottita, dava un
delizioso calduccio e si abbottonava dalle ginocchia su su fino al collo.
Pensavo che Tacchino, apprezzando quel favore, avrebbe mitigato la sventatezza
e la chiassosità pomeridiane. Macché: credo davvero che l'abbottonarsi in
quella giacca morbida che pareva una coperta avesse su di lui un effetto
pernicioso - per lo stesso principio che la troppa biada fa male ai cavalli.
Infatti proprio come di un cavallo impetuoso e recalcitrante si dice che senta
la biada, così Tacchino sentiva la giacca. Lo rendeva insolente. Era un uomo
che la prosperità guastava.
Sebbene sulle abitudini in cui indulgeva di
Tacchino io avessi le mie opinioni personali, nei confronti di Pince-Nez ero
davvero convinto che, a prescindere dai suoi difetti, sotto altri punti di
vista fosse perlomeno un giovanotto morigerato. Anzi, la natura stessa pareva
avergli fatto da oste, e alla nascita gli aveva istillato, da capo a piedi, un
temperamento così irritabile, di tipo alcolico, da rendere superflue tutte le
successive libagioni. Quando ricordo come, nella quiete immobile del mio
ufficio, Pince-Nez a volte si alzava dalla sedia con impazienza e, chinandosi
sul tavolo, spalancava le braccia, afferrava l'intera scrivania, la spostava,
la sbattacchiava grattando il pavimento con un movimento sinistro, quasi che il
tavolo avesse una sua volontà perversa, tesa a ostacolarlo e tormentarlo,
capisco chiaramente come per Pince-Nez acqua e cognac fossero del tutto
superflui.
Per mia fortuna, visto che la causa specifica
ne era la cattiva digestione, l'irritabilità e il conseguente nervosismo di
Pince-Nez si manifestavano soprattutto al mattino, mentre nel pomeriggio era
relativamente tranquillo. Quindi, poiché gli attacchi parossistici di Tacchino
maturavano soltanto intorno al mezzogiorno, non dovevo mai vedermela con le
loro eccentricità contemporaneamente. Le crisi si alternavano, come le
sentinelle nei turni di guardia. Quando era in servizio Pince-Nez, Tacchino era
in licenza, e viceversa. In quelle circostanze era una buona intesa naturale.
Zenzero, il terzo della
lista, era un ragazzotto di circa dodici anni. Il padre, carrettiere, nutriva
l'ambizione di vedere, prima di morire, il figlio seduto sul seggio di un
tribunale invece che sul sedile di un carro. Ecco perché me lo mand0 in ufficio in qualità di
studente di legge, fattorino, addetto a pulire e spazzare, al salario di un
dollaro alla settimana. Aveva una piccola scrivania per sé, ma non la usava
molto. A chi gli ispezionasse il cassetto si parava davanti una collezione di gusci
di noce di ogni genere. Per questo ragazzo sveglio, infatti, tutta la nobile
scienza del diritto stava in un guscio di noce. Non infima fra le mansioni di
Zenzero - e quella che svolgeva con la massima alacrità - era il compito di
approvvigionare di dolci e mele Tacchino e Pince-Nez. Copiare documenti legali
è proverbialmente un compito arido e secco, ragion per cui i miei due scrivani
erano desiderosi di inumidirsi spesso la bocca con mele Spitzenberg che si
potevano acquistare in varie bancarelle nei pressi della dogana e della posta.
Molto di frequente inoltre mandavano Zenzero a comprare quelle particolari
focaccine - piccole, piatte, rotonde, molto speziate - che avevano suggerito
quel soprannome. Nelle mattine fredde, mentre il lavoro era torpido, Tacchino
ingoiava dozzine di queste focaccine, quasi fossero cialde sottilissime - ne
danno addirittura sei o otto per un centesimo - mentre lo scricchiolio della
penna si mescolava al rumore della bocca che sgranocchiava quelle focaccine
croccanti. Fra i clamorosi sbagli pomeridiani commessi da Tacchino nella sua
smania pasticciona ce ne fu uno che per un pelo non mi indusse a licenziarlo:
gli capit0 di inumidire fra le labbra una cialda allo zenzero e
appiccicarla su un'ipoteca a mo' di sigillo. Ma mi intenerì con un inchino di
orientale cerimoniosità e con queste parole:
«Con rispetto, signore, è stato un gesto
generoso rifornirla, a mie spese, di cancelleria».
Ora la mia attività originaria - quella di
redigere atti notarili, di spulciare sulla regolarità dei titoli, di stendere
oscuri documenti di varia natura - ebbe un considerevole incremento dopo che
fui nominato all'Alta Corte di Equità. C'era quindi molto lavoro per i copisti.
Non soltanto dovevo mettere sotto il torchio gli impiegati già con me, ma
dovevo procurarmi altro aiuto.
In risposta a un annuncio, una bella mattina,
si par0 immobile sulla soglia del
mio ufficio un giovane - la porta infatti era aperta, perché era estate. Rivedo
ancora quella figura: pallidamente linda, penosamente decorosa,
irrimediabilmente squallida! Era Bartleby.
Dopo qualche cenno sulle sue qualifiche, lo
assunsi, felice di avere nella mia squadra di copisti un uomo dall'aspetto così
singolarmente mite, che - pensavo - forse avrebbe avuto un benefico influsso
sull'irrequietezza di Tacchino e l'irruenza di Pince-Nez.
Avrei dovuto già accennare alle porte
pieghevoli di vetro smerigliato che dividevano in due il mio ufficio: da una
parte c'erano i miei scrivani, dall'altra c'ero io. A seconda dell'umore aprivo
le porte oppure le chiudevo. Decisi di assegnare a Bartleby un angolo accanto
alle porte pieghevoli, ma dalla mia parte, in modo da avere a portata di voce
quell'uomo tranquillo, se, per caso; si fosse dovuto sbrigare qualche
lavoretto. Sistemai dunque la sua scrivania in quella parte della stanza,
accanto a una finestrina laterale che in origine offriva uno scorcio sul retro,
affacciandosi su certi cortili sporchi e muri di mattoni, ma che allora, a
seguito di successive costruzioni, non si affacciava più su nulla, sebbene
lasciasse entrare un po' di luce. A meno di tre piedi dai vetri della finestra
c'era un muro, e la luce veniva da molto in alto, filtrando tra due alti
edifici, quasi
piovesse dal pertugio di una cupola. Per
rendere ancora più soddisfacente la sistemazione, mi procurai un alto paravento
verde pieghevole che poteva escludere completamente Bartleby dalla mia vista,
pur lasciandolo a portata di voce. Così, in certo modo, convivevano solitudine
e compagnia.
In un primo tempo Bartleby eseguì una
straordinaria mole di lavoro. Quasi fosse ingordo di avere qualcosa da copiare,
pareva volesse rimpinzarsi di documenti. Non c'era pausa per digerirli.
Scriveva giorno e notte, copiando alla luce del sole e al lume della candela.
Mi avrebbe entusiasmato quella sua dedizione, se fosse stato allegramente
operoso. Continuava invece a macinare lavoro in silenzio, esangue, con moto
meccanico.
È, naturalmente, parte essenziale del lavoro
dello scrivano accertarsi che la copia sia esatta, parola per parola. Se in un
ufficio vi sono due o più scrivani, si assistono a vicenda in questo controllo,
uno leggendo la copia, l'altro tenendo l'originale. È una faccenda noiosa,
spossante, soporifera. Non faccio fatica a pensare che sarebbe intollerabile
per un temperamento sanguigno. Non riesco a immaginare, ad esempio, il focoso
poeta Byron lietamente seduto insieme a Bartleby a controllare un atto legale
di, diciamo, cinquecento pagine, scritte con grafia fitta e raggrinzita.
Di tanto in tanto, se c'era fretta, avevo
l'abitudine di aiutare a confrontare qualche breve documento, chiamando allo
scopo Tacchino o Pince-Nez. Uno dei motivi per mettere Bartleby così a portata
di mano dietro il paravento era stato quello di disporre dei suoi servigi in
lavoretti del genere. Era con me, credo, da tre giorni - non c'era stata ancora
la necessità di esaminare le sue copie - quando, dovendo completare in gran
premura una faccenduola, di punto in bianco chiamai Bartleby. Nella fretta e
nella naturale aspettativa di un'immediata obbedienza, me ne stavo seduto con
la testa china sull'originale posato sulla mia scrivania, la mano destra di
lato, nervosamente tesa nel porgere la copia, in modo che, emergendo dal suo
cantuccio, Bartleby potesse afferrarla e procedere all'esame senza il minimo
indugio.
In questo atteggiamento sedevo dunque quando
lo chiamai, spiegando rapidamente quello che volevo da lui, cioè esaminare
insieme a me un breve documento. Figuratevi la mia sorpresa, anzi la mia
costernazione, quando, senza muoversi dal suo angolino, con voce singolarmente
soave, ma ferma, Bartleby rispose: ((Preferirei di no)).
Rimasi per qualche tempo seduto, trasecolato,
in assoluto silenzio, chiamando a raccolta le mie facoltà attonite. Subito mi
venne da pensare che gli orecchi mi avessero ingannato, oppure che Bartleby
avesse completamente frainteso quello che volevo. Ripetei la richiesta con
quanta chiarezza mi era possibile, ma con altrettanta chiarezza giunse la
risposta di prima: ((Preferirei di no)).
((Preferirei di no!)), ripetei in un'eco,
alzandomi di furia e attraversando la stanza d'un balzo. ((Come sarebbe a dire? Le
ha dato di volta il cervello? Su, mi aiuti a controllare questo foglio con
l'originale - prenda)), e glielo buttai.
((Preferirei di no)), disse.
Lo fissai con aria
risoluta. Il volto era smunto nella sua compostezza; gli occhi grigi, fiochi e
tranquilli. Non una grinza gli increspava il viso. Se ci fosse stato un sintomo
anche minimo di disagio, di rabbia, di insofferenza, di impertinenza, in altre
parole se ci fosse stato in lui qualcosa di normalmente umano, lo avrei
cacciato con brutalità dal mio ufficio. Ma così come stavano le cose, tanto
valeva che decidessi di buttar fuori della porta il pallido busto in gesso
di Cicerone. Restai a fissarlo per qualche
tempo, mentre continuava a scrivere, quindi mi rimisi alla scrivania. «È ben
strano)),
pensai. «Che fare?)).
Ma il lavoro incalzava: conclusi di dimenticare intanto la faccenda
riservandola a un attimo di calma in futuro Chiamai quindi Pince-Nez che venne
dall'altra stanza, e rapidamente controllammo il documento.
Alcuni giorni più tardi
Bartleby terminò quattro lunghi atti, altrettante copie di una settimana di
testimonianze prestate davanti a me nell'Alta Corte di Equità. Si rese necessario
controllarli. Si trattava di una causa importante che imponeva la massima
accuratezza. Sistemato tutto, chiamai Tacchino, Pince -Nez, Zenzero, che erano
nella stanza attigua, con l'intenzione di dare a ciascuno dei miei quattro
impiegati una copia del documento, mentre io avrei letto l'originale.
Obbedendo al mio ordine, Tacchino, Pince-Nez,
Zenzero si erano seduti in fila, l'uno accanto all'altro, ciascuno con la sua
copia in mano, quando chiamai Bartleby a raggiungere questo interessante gruppetto.
«Bartleby! Si sbrighi,
aspetto)).
Percepii il lento stridio delle gambe della
sedia contro il pavimento nudo, e subito dopo apparve in piedi all'imbocco del
suo eremo.
«Che cosa le serve?)), chiese mite.
«Le copie, le copie)), risposi in fretta.
«Stiamo per confrontarle. Ecco...)), e gli porsi il quarto esemplare.
«Preferirei
di no)),
disse e lievemente scomparve dietro il paravento.
Rimasi di sale per qualche istante, lì, in
piedi, alla testa della colonna degli impiegati seduti. Riavendomi, avanzai
verso il paravento e gli chiesi ragione di una condotta tanto inconsueta.
«Perché rifiuta?))
«Preferirei di no)).
Con chiunque altro sarei esploso, e, senza
sprecare altro fiato, l'avrei cacciato con ignominia dal mio cospetto. Ma c'era
in Bartleby qualcosa che non soltanto stranamente mi disarmava, ma anche, in
modo curioso, mi toccava e sconcertava. Cominciai a ragionare con lui.
«Sono le sue copie che ci accingiamo a
controllare. Le risparmia fatica, perché un unico controllo serve per tutte e
quattro. Si fa sempre così. I copisti sono tenuti a controllare le loro copie.
Non è così? Non intende dire niente? Risponda!))
«Preferisco di no)), rispose con voce
flautata. Mi parve che, mentre mi rivolgevo a lui, egli soppesasse con
attenzione ogni mia frase, ne comprendesse pienamente il significato, non
potesse confutare l'ineluttabile conclusione, ma che, nello stesso tempo, una
qualche suprema considerazione lo costringesse a rispondere in quel modo.
«Lei è deciso allora a non adeguarsi alla mia
richiesta, una richiesta conforme all'uso comune e al comune buon senso?))
Mi fece brevemente capire che su quel punto
la mia valutazione era corretta. Sì, la sua decisione era irrevocabile.
Non è infrequente che un
uomo, urtato in modo inconsueto e violentemente irragionevole, cominci a
dubitare delle proprie convinzioni fondamentali. Comincia, per così dire, a
congetturare in modo vago che, per quanto strano, la ragione e il diritto
stiano forse dall'altra parte. Di conseguenza, se sono presenti persone
neutrali, si rivolge a costoro in cerca di un sostegno per la mente che
vacilla.
«Tacchino)), dissi, «che ne pensa? Non ho ragione?))
((Con
rispetto, signore», rispose Tacchino nel suo tono più blando, ((penso di sì».
((Pince-Nez, che cosa se
ne pensa lei?»
((Penso che lo butterei
fuori a calci».
(Il lettore attento e sensibile intuirà che,
essendo mattina, la risposta di Tacchino è formulata con espressioni cortesi e
pacate, ma che Pince -Nez replica con malumore. Ovvero, per ripetere una frase
detta in precedenza, il cattivo umore di Pince -Nez era in servizio, mentre
quello di Tacchino era in licenza.)
((Zenzero»,
dissi desideroso di raccogliere il consenso anche più insignificante, ((che cosa ne pensi tu?»
((Penso, signore, che sia
un po' sfasato», rispose Zenzero con
un sogghigno. ((Ha
sentito quello che dicono», chiesi volgendomi verso il paravento. ((Su, venga qui e faccia il
suo dovere».
Non si degn0 di rispondere. Rimasi a
ponderare per un attimo, risentito e perplesso, ma ancora una volta, incalzato
dal lavoro, decisi di rimandare a un momento di calma la valutazione del
dilemma. Con qualche difficoltà riuscimmo a venirne a capo di quel lavoro di
controllo, sebbene, ogni una o due pagine, Tacchino con deferenza esprimesse
l'opinione che si trattava di procedura assai inconsueta, mentre Pince -Nez,
agitandosi sulla sedia con nervosismo dispeptico, digrignava a denti stretti e
sibilava di tanto in tanto improperi contro il cocciuto idiota dietro il
paravento. E da parte sua (di Pince-Nez) quella era la prima e l'ultima volta
che avrebbe fatto il lavoro di un altro senza essere pagato.
Bartleby, nel frattempo, se ne stava nel suo
eremo, dimentico di tutto tranne che del documento davanti a sé.
Trascorsero alcuni giorni che videro lo
scrivano impegnato in un altro lunghissimo lavoro. La stranezza del suo
comportamento da un po' di tempo a quella parte mi port0 a osservare da vicino i
suoi modi. Notai che non andava mai a pranzo, anzi che non andava mai da
nessuna parte. Per quanto ne sapessi, non mi risaltava che fosse mai uscito
dall'ufficio: eterna sentinella nel suo angolo. Osservai che verso le undici
del mattino Zenzero avanzava verso il pertugio nel paravento di Bartleby, quasi
fosse stato convocato da un cenno invisibile da dove ero seduto io. Il ragazzo
allora usciva, facendo tintinnare qualche moneta, e riappariva con una manciata
di focaccine che depositava nell'eremo, ricevendo due dolcetti per il fastidio.
((Vive di focaccine, allora», pensai. ((Non fa mai un vero e
proprio pranzo; sarà vegetariano. Macché, non mangia mai verdure, mangia
soltanto focaccine allo zenzero». Cominciai allora a rincorrere con il pensiero
fantasie sui presumibili effetti che avrebbe potuto produrre sull'organismo
umano un nutrimento esclusivamente a base di focaccine allo zenzero. Si
chiamano così perché uno dei principali ingredienti, e quello che dà il sapore,
è lo zenzero. Ora che cos'è lo zenzero? Una cosa piccante, speziata. Bartleby
era piccante e speziato? Nient'affatto. Lo zenzero quindi non aveva alcun effetto
su Bartleby. Probabilmente egli preferiva che non ne avesse.
Nulla esaspera una
persona seria quanto la resistenza passiva. Se l'individuo cui si resiste non è
di temperamento disumano e chi gli resiste è una persona innocua nella sua
passività, allora, il primo, quando è di buon umore, si sforza, nella sua
immaginazione, di capire con la carità quanto si dimostra impossibile da
spiegare con la ragione. Così, per lo più, consideravo Bartleby e le sue
maniere. ((Poveraccio», pensavo. ((Non ha intenzioni malvagie; è chiaro che non vuole essere
insolente; basta guardarlo per capire che le sue eccentricità - sono
involontarie; Mi è utile. Riesco ad andarci
d'accordo. Se lo mando via, è probabile che capiti con un principale meno
indulgente; sarà trattato male, rischia addirittura di morir di fame. Sì. Ecco
che, a basso prezzo, posso crogiolarmi nell'autocompiacimento. Mostrarmi amico
di Bartleby, assecondarlo nella sua ostinazione mi costerà poco o niente,
mentre io accumulo nell'animo quello che finirà per dimostrarsi un dolce
bocconcino per la mia coscienza)). Ma non sempre ero di questo umore. La
passività di Bartleby a volte mi irritava. Mi sentivo stranamente pungolato a
venire ai ferri corti con lui in un nuovo contrasto - a far scattare una
qualche scintilla di rabbia che rispondesse alla mia. Ma tanto valeva che
cercassi di accendere il fuoco strofinando le nocche contro un pezzo di sapone
Windsor. Ma un pomeriggio in me prevalse l'impulso malvagio, e ne seguì questa
breve scena:
((Bartleby)), dissi, ((quando quei documenti
saranno stati copiati tutti, li confronterò insieme a lei)).
((Preferirei di no)).
((Come? Non vorrà
incaponirsi in quel suo ostinato capriccio?)).
Nessuna risposta.
Spalancando le porte
pieghevoli lì vicino, esclamai, rivolto a Tacchino e
Pince -Nez:
((Bartleby, per la seconda volta, dichiara di
non voler esminare le sue copie. Che ne pensa, Tacchino?)).
Era di pomeriggio, ricordatevene. Tacchino se
ne stava seduto irradiando luce e calore come una pentola di rame; la testa
calva fumava; le mani turbinavano fra le carte macchiate.
((Che ne penso?)), ruggi Tacchino. ((Ecco che cosa penso: vado
dietro a quel paravento a fargli due occhi neri!)).
Così dicendo, Tacchino, alzatosi in piedi,
assunse una posizione da pugile. Stava per slanciarsi a mantenere la promessa,
quando lo trattenni, allarmato per aver incautamente suscitato la sua
combattività postprandiale.
((Si sieda, Tacchino)), dissi, ((e ascolti quello che ha
da dire Pince -Nez. Che ne pensa, Pince-Nez? Non avrei buone ragioni per
licenziare Bartleby su due piedi?))
((Con sua licenza, signore, è lei che deve
decidere. Ritengo che la sua condotta sia assai inconsueta e, invero, ingiusta
nei confronti miei e di Tacchino. Ma forse si tratta di un capriccio momentaneo)).
((Ah!)), esclamai. ((Strano, lei ha cambiato
idea allora... ne parla con molta indulgenza)).
((Tutto
merito della birra)),
intervenne Tacchino. ((La comprensione è effetto della birra... io e
Pince-Nez abbiamo pranzato insieme oggi. Guardi quanto sono comprensivo io,
signore. Devo andare a fargli due occhi neri?))
((A Bartleby, immagino. No, non oggi, Tacchino)), risposi. ((Giù quei pugni, la prego)).
Chiusi le porte e di nuovo mi avvicinai a
Bartleby. Mi sentivo ancora più pungolato a sfidare la sorte. Ardevo dalla
voglia che mi si rivoltasse di nuovo contro. Ricordai che Bartleby non usciva
mai dall'ufficio.
((Bartleby)), dissi, ((Zenzero è fuori; le
spiace fare un salto all'ufficio postale?)) (Erano tre minuti di strada). ((Veda se c'è qualcosa per
me)).
((Preferirei di no)).
((Non vuole andare?))
((Preferisco di no)).
Barcollando andai alla scrivania e mi sedetti
in profonda riflessione. Rispuntò in me un'animosità cieca. Potevo espormi a un
altro ignominioso rifiuto da parte di quel disgraziato macilento e
squattrinato? Dal mio dipendente? Che altra richiesta assolutamente ragionevole
di sicuro rifiuterà ancora?
«Bartleby! )).
Nessuna risposta.
«Bartleby)), a voce più alta.
Nessuna risposta.
«Bartleby)), con un ruggito.
Proprio come gli spettri
obbediscono alle leggi delle invocazioni magiche, al
terzo appello Bartleby sulla soglia del suo
eremo.
«Vada di là e dica a
Pince-Nez di venire da me)).
«Preferisco di no)), disse piano con voce
rispettosa, e lieve sparì.
«Molto bene, Bartleby)), dissi nel tono
tranquillo, serenamente severo e controllato che annuncia l'irremovibile
decisione di un incombente terribile castigo. In quel momento avevo una mezza
intenzione del genere. Ma, dopo tutto, avvicinandosi l'ora di cena, pensai che
fosse meglio prendere il cappello e ritornare a casa per quel giorno, assai
combattuto, perplesso e turbato.
Devo confessarlo? La
conclusione di tutta la faccenda fu questa: divenne ben presto un dato di fatto
nel mio ufficio che lì aveva la sua scrivania uno scrivano giovane e pallido di
nome Bartleby; che egli copiava per me alla tariffa normale di quattro
centesimi al foglio (cento parole), che era in permanenza esentato dal
controllare il proprio lavoro e che tale incombenza era trasferita a Tacchino e
Pince-Nez, in omaggio, senza dubbio, alla loro superiore perspicacia; inoltre
che mai, per nessuna ragione, il detto Bartleby doveva essere spedito a
sbrigare neanche il più banale incarico e che, per quanto lo si supplicasse di
svolgerlo, era scontato che «avrebbe preferito di no)) - in altre parole che avrebbe rifiutato di punto in
bianco.
Con il passare delle
giornate mi riconciliai con Bartleby. La sua perseveranza, l'indipendenza da
ogni vizio, la sua industriosità indefessa (tranne quando, in piedi, dietro il
paravento, sceglieva di sprofondarsi in fantasticherie), l'immobilità,
l'inalterabile compostezza in ogni circostanza, facevano di lui un acquisto
prezioso. Ed ecco una cosa fondamentale: era
sempre lì, il primo al mattino, ininterrottamente durante la giornata,
l'ultimo alla sera. Avevo nella sua onestà una fiducia assoluta. I più preziosi
documenti li sentivo perfettamente al sicuro in mano sua. Talvolta - senza
dubbio - non riuscivo con tutta la buona volontà a non andare in escandescenze
contro di lui. Era, infatti, oltremodo difficile tenere sempre a mente quelle
strane abitudini, quei privilegi, quegli inauditi esoneri, che costituivano il
tacito patto in base al quale Bartleby rimaneva nel mio ufficio. Di tanto in
tanto, nella fretta di sbrigare un affare urgente, senza pensarci chiamavo
Bartleby in tono secco e spiccio a mettere il dito su un pezzo di nastro rosso
che ero in procinto di annodare per tenere insieme certi documenti. Superfluo
dire, naturalmente, che da dietro il paravento veniva la sua consueta risposta:
«Preferirei di no)), e allora come avrebbe
potuto un essere umano, con le comuni debolezze insite nella nostra natura,
trattenersi dall'imprecare amaramente davanti a tanta caparbietà... tanta
irragionevolezza? Comunque, a ogni successivo rifiuto che ricevevo, le
probabilità che ripetessi l'inavvertenza tendevano a diminuire.
Va detto a questo punto che, secondo
l'abitudine di quasi tutti gli avvocati con lo studio in stabili densamente
popolati, destinati a uffici, molte persone
avevano la chiave della mia porta. Una
l'aveva una donna che viveva in soffitta, e ogni settimana ripuliva da cima a
fondo i miei locali e ogni giorno li scopava e spolverava. Un'altra la teneva
Tacchino per comodità. La terza la portavo a volte io in tasca. La quarta non
sapevo chi l'avesse.
Ora, una domenica mattina, capitandomi di
andare alla chiesa della Santissima Trinità per ascoltare un famoso predicatore
e trovandomi in zona piuttosto in anticipo, pensai di fare un salto in ufficio.
Per fortuna avevo la chiave con me, ma, nell'infilarla nella toppa, mi stupii
di non riuscirci perché qualcosa vi si opponeva dall'interno. Alquanto
sorpreso, chiamai ad alta voce, quando, con mia costernazione, una chiave girò
all'interno e, nella fessura della porta socchiusa, mi trovai di fronte
Bartleby che, con il viso smunto, in maniche di camicia e in una tenuta deshabillè stranamente lacera, mi diceva
con tutta calma di rammaricarsene, ma in quel momento aveva molto da fare e
preferiva non ammettermi. Aggiunse, quindi, poche parole per consigliarmi di
fare il giro dell'isolato due o tre volte, perché in capo a quell'intervallo
avrebbe probabilmente concluso le sue faccende.
Ora l'apparizione assolutamente inattesa di
Bartleby che occupava il mio studio la domenica mattina, con la sua signorile nonchalance cadaverica, ma nello stesso
tempo risoluta e controllata, ebbe un tale effetto su di me che di slancio
sgattaiolai via dalla mia porta e feci come desiderava. Ma non senza vari
fremiti di ribellione impotente contro la mite sfrontatezza di
quell'indecifrabile scrivano. Era infatti soprattutto la sua stupefacente
docilità che non soltanto mi disarmava, ma; per così dire, mi rendeva
impotente. Ritengo, infatti, una sorta di impotenza l'atteggiamento di chi
tranquillamente permette al suo impiegato di dargli degli ordini e di mandano
via dai suoi locali. Senza contare che mi sentivo molto inquieto: che cosa
poteva fare Bartleby nel mio ufficio, in maniche di camicia e per il resto
impresentabile, la mattina di una domenica? C'era qualcosa che non quadrava?
No, era fuori questione. Neppure per un momento si poteva pensare che Bartleby
fosse una persona immorale. Ma che cosa ci faceva lì? Copiare? No, neppure
questo; quali che fossero le sue eccentricità, Bartleby era una persona
eminentemente decorosa. Sarebbe stato l'ultimo uomo a sedersi alla scrivania in
uno stato prossimo alla nudità. Inoltre era domenica, e qualcosa in Bartleby
vietava di supporre che potesse trasgredire, con un'occupazione secolare, la
dignità della giornata.
Il mio animo, tuttavia, non era tranquillo, e
in preda a una irrequieta curiosità, ritornai infine davanti alla porta. Senza
difficoltà infilai la chiave ed entrai. Bartleby non si vedeva. Guardai intorno
con ansia, sbirciai dietro il suo paravento, ma era chiaro che se ne era
andato. Esaminando con attenzione il luogo, conclusi che chissà da quanto tempo
Bartleby doveva mangiare, vestirsi, dormire nel mio ufficio; il tutto senza un
piatto, senza un letto, senza uno specchio. Il sedile imbottito di un vecchio
divano traballante, in un angolo, mostrava la lieve impronta di una forma
sparuta che lì si era coricata. Arrotolata sotto la sua scrivania trovai una
coperta; sotto la grata vuota del camino, una scatola di lucido e una spazzola;
su una sedia, una bacinella di latta con del sapone e un asciugamano cencioso;
in un giornale alcune briciole di focaccine e un pezzetto di formaggio. ((Sì», pensai, ((è evidente che Bartleby
si è installato qui, una sistemazione da scapolo, tutto per conto suo».
Immediatamente mi sentii pervadere dal pensiero: ((Che squallida solitudine,
che isolamento ci sono qui, sotto i miei occhi! La sua povertà è grande, ma la
sua solitudine, che cosa orribile! Pensaci. Alla domenica Wall Street è deserta
come Petra; la notte, alla
fine di ogni giornata, è il vuoto. Questo
edificio, che nei giorni feriali brulica di operosità e di vita, di notte
rimanda l'eco del nulla, e durante tutta la domenica è abbandonato. E Bartleby
ha scelto questo luogo come propria casa; unico spettatore di una solitudine
che ha visto gremita - una specie di novello, innocente Mario, che medita fra le
rovine di Cartagine!».
Per la prima volta in vita mia fui
sopraffatto da un senso di ineluttabile, struggente malinconia. Prima di allora
non avevo mai sperimentato altro che un triste languore non sgradevole. Il
vincolo della comune umanità mi trascinava irresistibilmente verso un cupo
sconforto. Una malinconia fraterna! Sì, io e Bartleby eravamo entrambi figli di
Adamo. Ricordai le vivide sete e i volti raggianti che avevo visto quel giorno,
persone agghindate a festa che, simili a cigni, veleggiavano lungo quel
Mississippi che è Broadway; e confrontandoli con il pallido copista, mi dissi: ((Ah, la felicità corteggia
la luce, ecco perché crediamo che il mondo sia lieto; ma l'infelicità si
nasconde e si isola, ecco perché crediamo che non ci sia infelicità». Queste
tristi fantasticherie - senz'altro chimere di un cervello malato e sciocco -
condussero ad altri pensieri, più circostanziati, sulle eccentricità di
Bartleby. Aleggiava intorno a me il presentimento di qualche strana scoperta.
Mi parve di vedere la pallida forma dello scrivano, avvolta in un sudario
gelido, giacere fra gente sconosciuta, incurante.
All'improvviso fui attratto dalla scrivania
chiusa di Bartleby, con la chiave in bella mostra nella toppa.
((Non
voglio fare nulla di male, non intendo soddisfare una crudele curiosità»,
pensavo. ((La
scrivania, inoltre, è di mia proprietà e anche quello che contiene. Così
prenderò il coraggio di guardare dentro». Tutto era disposto in ordine
metodico; i fogli in pile regolari. Gli scomparti erano profondi e, spostando i
fascicoli delle pratiche, tastai fino in fondo. Dopo un poco toccai qualcosa e
la trassi fuori. Era un vecchio fazzoletto di cotone, pesante e annodato.
Aprendolo vidi che era il suo salvadanaio.
Mi sovvenni allora dei
sommessi misteri che avevo notato in quell'uomo. Rammentai di non averlo mai
sentito parlare se non per rispondere; di non averlo mai visto leggere - no,
neppure un giornale - sebbene di tanto in tanto avesse abbastanza tempo per sé;
ricordai che per lunghi intervalli se ne stava in piedi accanto alla sua
pallida finestra dietro il paravento a guardare fuori il muro cieco di mattoni;
ero sicuro che non andasse mai a una mensa o a una trattoria, mentre il suo
volto esangue indicava chiaramente che non beveva mai birra, come faceva
Tacchino, e neppure tè o perfino caffè, come gli altri esseri umani; che non
andava mai in alcun posto particolare di mia conoscenza; che non usciva mai a
fare una passeggiata, a meno che non ci fosse andato in quel momento; che aveva
sempre evitato di dirmi chi fosse, da dove venisse, se avesse parenti al mondo;
che, seppure così scarno ed emaciato, non si lamentava mai di star male. E
soprattutto rammentavo una certa aria inconsapevole di pallido - come
chiamarlo? - pallido sussiego, anzi un alone di austero riserbo, che mi aveva
intimorito fino a ridurmi a quella docile accettazione delle sue eccentricità,
quando avevo ormai paura di chiedergli di rendermi il più insignificante
servizio, sebbene potessi capire, dalla protratta immobilità, che dietro il
paravento se ne stava probabilmente in piedi, perso in una di quelle sue
fantasticherie trasognate davanti al muro cieco.
Rimuginando tutte queste cose e collegandole
alla recente scoperta che del mio ufficio Bartleby aveva fatto il suo alloggio
permanente e la sua casa, non dimentico della sua morbosa suscettibilità,
rimuginando tutto questo, prese a
insinuarsi
in me un sentimento di prudenza. Le mie prime emozioni erano state di pura
malinconia e di sincera, autentica pietà ma, a mano a mano che la solitudine e
l'isolamento di Bartleby crescevano nella mia immaginazione, quella stessa
malinconia trascolorava in paura, quella pietà in repulsione. E così vero, e
anche così terribile, che fino a un certo punto il pensiero o la vista dell'infelicità
impegnano i nostri migliori sentimenti, ma, in certi casi speciali, oltre a un
certo punto, non succede più. Sbagliano quanti asseriscono che invariabilmente
ciò deriva dall'innato egoismo del cuore umano. Discende piuttosto da una certa
impotenza a porre rimedio a un male estremo e organico. Per un essere sensibile
la pietà non di rado è sofferenza. E quando alla fine si intuisce che tale
pietà non si traduce in un efficace soccorso, il senso comune impone all'animo
di sbarazzarsene. Quanto vidi quella mattina mi convinse che lo scrivano era
vittima di un disordine innato e incurabile. Avrei forse potuto soccorrere il
corpo, ma non era il corpo a dolergli; era la sua anima che soffriva, e non
potevo raggiungere la sua anima.
Lasciai cadere il proposito di andare alla
chiesa della Santissima Trinità quel mattino. Mi sentivo in qualche modo
indegno dopo le cose che avevo visto. Mi incamminai verso casa pensando a cosa
avrei fatto con Bartleby. Alla fine mi risolsi su quanto segue: il mattino dopo
gli avrei rivolto alcune pacate domande sul suo passato, ecc. e, se avesse
rifiutato di rispondere in modo aperto e senza riserve (presumevo che avrebbe
preferito di no), gli avrei allora dato una banconota da venti dollari oltre a
quanto già eventualmente gli dovevo, dicendogli che i suoi servizi non erano
più richiesti, ma che, se in qualunque altro modo avessi potuto aiutarlo, sarei
stato felice di adoperarmi in tal senso; soprattutto se avesse desiderato
ritornare là dove era nato, non importa dove fosse, avrei volentieri
contribuito alle spese. Inoltre, se, una volta arrivato a casa, in un momento
qualsiasi si fosse trovato bisognoso di aiuto, una sua lettera avrebbe
certamente avuto risposta.
Giunse il mattino successivo.
((Bartleby)), dissi rivolgendomi
gentilmente a lui dietro il paravento.
Nessuna risposta.
((Bartleby)), dissi in tono ancora più gentile, ((venga qui. Non le
chiederò di
fare nulla che lei preferisca non fare...
desidero soltanto parlarle)).
A queste parole silenziosamente scivolò
fuori.
((Vuole dirmi, Bartleby,
dove è nato?))
((Preferirei di no)).
((Non vuole raccontarmi niente di sé?))
((Preferirei di no)).
((Quale ragionevole
obiezione ha per non parlarmi? Ho nei suoi confronti
sentimenti amichevoli)).
Non mi guardava mentre parlavo, ma teneva gli
occhi fissi sul busto di Cicerone, dietro alla mia sedia, circa a sei pollici
sopra la mia testa.
((Che cosa mi risponde, Bartleby?)), proseguii dopo aver
aspettato una sua risposta per un bel po' di tempo, mentre il suo volto
rimaneva immobile, salvo un tremore quasi impercettibile delle labbra pallide e
sottili.
((Per il momento
preferisco non rispondere)), disse e si ritirò nel
suo eremo.
Fu una mia debolezza, lo confesso, ma in quel
momento i suoi modi mi irritarono. Non soltanto mi sembrava che nascondessero
un certo pacato disprezzo, ma la sua caparbietà mi pareva ingratitudine,
considerando gli innegabili benefici e l'indulgenza che aveva avuto da me.
Ancora una volta me ne rimasi lì seduto a
rimuginare su quello che avrei dovuto fare. Mortificato com'ero per il suo
comportamento, e altrettanto risoluto a licenziarlo quando ero arrivato in
ufficio, avvertivo un timore superstizioso che mi si agitava in fondo al cuore,
vietandomi di mettere in atto quel proposito, dandomi del mascalzone se avessi
osato proferire una sola parola amara contro di lui, il più derelitto degli
uomini. Da ultimo, avvicinando con piglio confidenziale la mia sedia alla sua
dietro il paravento, mi sedetti dicendo:
((Bartleby, non importa se non mi racconta la
sua storia, ma mi consenta di supplicarla, da amico, di adeguarsi per quanto
possibile alle abitudini dell'ufficio. Mi prometta che, domani o il giorno
appresso, aiuterà a controllare i documenti: in breve, mi prometta che fra un
giorno o due comincerà a essere un po' ragionevole. Dica di sì, Bartlebyp.
((Per
il momento preferirei non essere un po' ragionevolep, fu la risposta
soavemente cadaverica.
Proprio in quel momento si aprirono le porte
pieghevoli, e si avvicin0 Pince-Nez. Aveva l'aria sofferente di chi ha
passato una notte particolarmente brutta, dovuta a una digestione peggiore del
solito. Colse le ultime parole di Bartleby.
((Preferirebbe di no,
eh?p,
ringhi0 Pince-Nez.
((Lo
preferirei io se fossi in lei,
signorep,
rivolto a me, ((lo
preferirei io; gli darei io le preferenze, a quel mulo cocciuto! Scusi,
signore, cos'è che preferisce non
fare adesso?p.
Bartleby
non batté ciglio.
((Signor Pince -Nez, preferirei che lei si ritirasse per il
momentop, dissi.
In qualche modo, da un po' di tempo, avevo
preso involontariamente l'abitudine di usare la parola ((preferirep a ogni piè sospinto,
anche fuori luogo. Tremavo all'idea che la vicinanza dello scrivano avesse già,
e in modo grave, compromesso il mio equilibrio mentale. Quali altre e peggiori
aberrazioni non avrebbe potuto produrre? Questa apprensione aveva avuto la sua
parte nella decisione di prendere drastiche misure.
Mentre Pince-Nez si allontanava con aria
acida e scontrosa, si avvicin0 beato e ossequioso Tacchino.
((Con rispetto, signorep, disse, ((ieri mi sono messo a
pensare al nostro Bartleby. Secondo me, se solo lo preferisse, un quarto di
buona birra al giorno farebbe molto nel curarlo e metterlo in sesto per aiutare
a controllare i documentip
((Così anche lei è rimasto contagiato dalla
parolap,
dissi leggermente eccitato.
((Con
rispetto, signore, quale parola?p, chiese Tacchino ficcandosi nel ristretto
spazio dietro il paravento e, così facendo, mandandomi a urtare lo scrivano. ((Quale parola, signore?p
((Preferirei
essere lasciato solo quip, disse Bartleby, quasi offeso per
quell'invasione nel suo spazio privato.
((Ecco la parola, Tacchinop,
dissi, ((eccola!p.
((Oh, preferire?
Oh, sì... strana parola. Non la uso mai io. Ma, signore, come stavo dicendo, se
preferisse...p
((Tacchinop, lo interruppi, ((si ritiri, per favorep. ((Certamente, signore, se lei preferisce cosìp. Mentre apriva la porta pieghevole per ritirarsi, Pince
-Nez, lanciandomi un'occhiata dalla sua scrivania, mi chiese se preferissi che
un certo documento venisse copiato su carta azzurra o bianca. Non sottoline0 con accento malizioso la parola ((preferirep. Era chiaro che gli era
sfuggita dalle labbra in modo involontario. ((Devo sbarazzarmi senz'altro di questo demente, che ha
già, in certa
misura, turbato la lingua, se non il cervello
mio e dei miei impiegati», pensai fra me. Ma ritenni prudente non
spiattellargli lì per lì il licenziamento.
Il giorno successivo notai che Bartleby non
faceva nulla salvo starsene in piedi alla finestra, perso nella fantasticheria
ispiratagli dal muro cieco. Quando gli chiesi perché non scrivesse, rispose di
aver deciso di non scrivere più.
((Come, anche questo adesso? Cos'altro?»,
esclamai. ((Non
vuole più scrivere?»
((No».
((Per quale ragione?»
((Non capisce da sé la
ragione?», rispose con indifferenza.
Lo guardai fisso e
notai che i suoi occhi apparivano spenti e vitrei. Mi venne
subito
da pensare che l'impareggiabile diligenza, durante le prime settimane del suo
impiego presso di me, nel copiare accanto a quella buia finestra gli avesse
temporaneamente affaticato la vista.
Ne fui commosso. Gli
espressi il mio rammarico; accennai al fatto che naturalmente faceva cosa
saggia ad astenersi dallo scrivere per un po'; lo incitai a cogliere
quell'occasione per fare qualche salutare attività all'aria aperta. Cosa,
tuttavia, che egli non fece. Alcuni giorni dopo, durante un'assenza degli altri
impiegati, mi saltò in mente, avendo grande premura di spedire certe lettere
per posta, che Bartleby, non avendo nulla al mondo da fare, sarebbe stato di
sicuro meno inflessibile del solito e avrebbe portato le lettere all'ufficio
postale. Ma rifiutò con aria irremovibile e assente. Così, con notevole
disagio, ci andai di persona.
Passarono altri giorni. Se gli occhi di
Bartleby migliorassero o meno, non saprei. Di primo acchito avrei detto di sì.
Ma quando gli chiesi conferma, non mi accordò risposta. In ogni caso non
copiava niente. Alla fine, su mia sollecitazione, mi rispose di aver smesso di
copiare per sempre.
((Cosa!»,
esclamai. ((Supponiamo
che i suoi occhi guariscano perfettamente - meglio di prima - non vorrà più
copiare?»
((Ho smesso di copiare», rispose e scivolò via.
Rimase, come prima, a
essere un infisso nel mio studio. Anzi - se possibile - divenne più che mai un
infisso. Che cosa fare? Non voleva fare nulla nell'ufficio: perché allora
doveva stare lì? Per dirla schietta, era diventato una pietra al collo, un'inutile
collana, greve da sopportare, per giunta. Eppure mi faceva pena. Non esagero
dicendo che mi metteva a disagio. Se appena avesse fatto il nome di un solo
parente o amico, gli avrei scritto immediatamente sollecitandolo a portare quel
povero disgraziato in qualche posto adatto. Ma sembrava solo, assolutamente
solo nell'intero universo. Un relitto nel mezzo dell'Atlantico. Alla lunga le
tiranniche esigenze del lavoro travolsero ogni altra considerazione. Con tutto
il tatto possibile dissi a Bartleby che, in capo a sei giorni, doveva
assolutamente lasciare l'ufficio. Lo consigliai di adoperarsi, nel frattempo,
per trovarsi un altro alloggio. Mi offrii di aiutarlo in questa fatica, purché
facesse il primo passo per il trasloco. ((E
quando alla fine mi lascerà, Bartleby», aggiunsi, ((provvederò a che lei non se ne vada del tutto sprovvisto.
Sei giorni da adesso, se ne ricordi».
Alla fine di quel periodo guardai dietro il
paravento, ed ecco Bartleby, sempre lì.
Mi abbottonai la giacca, mi feci forza,
avanzai lentamente verso di lui, gli toccai la spalla e dissi: ((È venuto il momento; deve
lasciare questo posto. Mi spiace per lei, ecco il danaro, ma deve andarsene».
((Preferirei di no», rispose sempre con le
spalle voltate.
((Lei deve andarsene».
Rimase in silenzio.
Ora io avevo illimitata
fiducia nell'onestà di quell'uomo. Spesso mi aveva
consegnato
monetine da sei centesimi e qualche scellino che avevo sbadatamente lasciato
cadere, perché sono incline a essere distratto in queste cosucce. Quello che
seguì non parrà, allora, fuori dell'ordinario.
((Bartleby»,
dissi, ((le
devo dodici dollari per il lavoro svolto. Eccone trentadue; i venti in più sono
per lei. Vuole prenderli?», e gli tesi le banconote.
Non si mosse.
((Li lascio qui allora», dissi mettendoli sul
tavolo sotto un fermacarte. Prendendo quindi cappello e bastone, e avviandomi
alla porta, mi volsi tranquillamente aggiungendo: ((Quando avrà portato via
le sue cose dall'ufficio, Bartleby, chiuda la porta - ormai se ne sono andati
tutti per oggi, tranne lei. E, per favore, infili la chiave sotto lo zerbino,
dove domattina io possa trovarla. Non la vedr0 più: addio, dunque. Se in
futuro, nel suo nuovo alloggio, potr0 esserle utile, non manchi di avvertirmi per
lettera. Addio, Bartleby, e buona fortuna».
Ma egli non rispose neppure una parola;
simile all'ultima colonna di un tempio in rovina, rimase in piedi, muto e
solitario nel mezzo della stanza altrimenti deserta.
Incamminandomi verso
casa meditabondo, la vanità ebbe la meglio sulla pietà. Non potevo non essere
compiaciuto per come avevo magistralmente condotto le cose nel liberarmi di
Bartleby. Magistralmente - così mi esprimo - e tale deve apparire a ogni
pensatore spassionato. La bellezza della mia tattica sembrava risiedere nella
sua perfetta, pacata sobrietà. Nessuna arroganza volgare, nessuna spacconata di
alcun tipo, nessun sopruso collerico, nessun andirivieni concitato per lo
studio, sbottando in ordini rabbiosi perché Bartleby facesse fagotto con le sue
cianfrusaglie da straccione. Niente del genere. Senza alzar la voce per
ordinargli di andarsene - come forse avrebbe fatto un uomo meno perspicace -
partivo dal presupposto che andarsene
doveva, e su quel presupposto si fondava tutto quello che avevo da dire. Più
riflettevo su come erano andate le cose, più ne ero incantato. Il mattino dopo,
tuttavia, al risveglio, avevo i miei dubbi - in qualche modo il sonno aveva
smaltito i fumi della vanità. Uno dei momenti in cui si è più lucidi e saggi è
subito dopo il risveglio, al mattino. Mi sembrava ancora di essermi comportato
con sagacia... ma soltanto in teoria. Come sarebbe stato in pratica - ecco
l'intoppo. Era davvero un pensiero meraviglioso supporre che Bartleby se ne
fosse andato, ma, dopo tutto, era esclusivamente una mia supposizione, non certo
di Bartleby. Il grosso nodo non era che fossi io a supporre, bensì che fosse
lui a preferire. Era un uomo di preferenze più che di supposizioni.
Dopo colazione mi incamminai verso lo studio
dibattendo le probabilità a favore e quelle contro. Un attimo pensavo che la
mia tattica si sarebbe rivelata un penoso fallimento e che avrei trovato
Bartleby piantato nel mio ufficio come al solito; un attimo dopo mi pareva
certo che avrei trovato vuota la sua sedia. Così continuavo a cambiare
opinione. All'angolo di Broadway e Canal Street vidi un gruppo di gente
piuttosto agitata, impegnata in un'accesa discussione.
((Scommetto che non lo fa», disse una voce mentre passavo.
((Che non se ne va? D'accordo!», dissi. ((Fuori i soldi».
Stavo istintivamente mettendo mano alla tasca
per tirar fuori la mia posta, quando mi ricordai che quello era giorno di
elezioni. Le parole che avevo udito
non avevano alcun rapporto con Bartleby, ma
con il successo o l'insuccesso di un tale candidato alla carica di sindaco.
Assorto com'ero nei miei pensieri, avevo immaginato, per così dire, che tutta
Broadway condividesse il mio turbamento e dibattesse il mio problema. Li
superai, grato che il frastuono della strada avesse nascosto la mia momentanea
distrazione.
Come avevo deciso, giunsi davanti alla porta
dell'ufficio prima del solito. Rimasi lì ad ascoltare per un attimo. Tutto era
tranquillo. Doveva essersene andato. Provai la maniglia. La porta era chiusa a
chiave. Sì, la mia tattica aveva compiuto il miracolo: doveva, sul serio,
essersi dileguato. Eppure un pizzico di melanconia si mescolava a questo: ero
quasi dispiaciuto per quel brillante risultato. Stavo frugando sotto lo zerbino
alla ricerca della chiave che senz'altro Bartleby aveva lasciato lì per me,
quando per caso con il ginocchio urtai un pannello, producendo un suono come di
chi bussa, e da dentro, in risposta, mi giunse una voce: ((Un momento, sono occupato)).
Era Bartleby.
Ne fui folgorato. Per un attimo rimasi in
piedi come quel tizio che, pipa in bocca, era stato ucciso tanto tempo prima in
Virginia da un fulmine, in un terso pomeriggio d'estate. Alla sua finestra,
aperta e tiepida, era stato ucciso e lì era rimasto, affacciato nel languido
pomeriggio, finché qualcuno, toccandolo, non lo aveva fatto cadere.
((Non se n'è andato?)), mormorai alla fine. Ma ancora una volta obbedendo a
quello strano ascendente che aveva su di me l'imperscrutabile scrivano, dal
quale ascendente, pur con tanta insofferenza, non riuscivo a sottrarmi del
tutto, scesi piano le scale, uscii in strada e, mentre giravo intorno
all'isolato, soppesai il da farsi in quell'inaudito dilemma. Buttarlo fuori con
la forza non potevo; trascinarlo via a suon di insulti non si addiceva;
chiamare la polizia era un'idea che non mi andava; eppure lasciargli assaporare
il suo cadaverico trionfo su di me... neanche questo potevo ammettere. Che
fare? Oppure, se non si poteva fare niente, mi restava qualche altra supposizione in questa faccenda? Sì,
come prima, in prospettiva, ero partito dal presupposto che Bartleby se ne
sarebbe andato, così ora, in retrospettiva, potevo partire dal presupposto che
andato se ne fosse. Sviluppando coerentemente tale supposizione, sarei potuto
entrare in ufficio di gran fretta e, fingendo di non vedere Bartleby, andargli
addosso come se fosse stato aria. Questa tattica avrebbe avuto, in grado
straordinario, tutto l'aspetto di una espulsione. Non era possibile che
Bartleby riuscisse a sopportare una tale applicazione della dottrina dei
presupposti. Ma, ripensandoci, il successo del piano pareva piuttosto dubbio.
Decisi di discutere ancora la faccenda con lui.
((Bartleby)), dissi entrando nell'ufficio con
un'espressione pacatamente severa, ((sono profondamente dispiaciuto. Sono
addolorato, Bartleby. Avevo un'opinione migliore di lei. L'avevo ritenuta un
gentiluomo con il quale sarebbe bastato fare un semplice accenno in un
qualsiasi frangente delicato - un'allusione, insomma. Ma, a quanto sembra, mi
sono ingannato. Come?)), aggiunsi con un sussulto di sincera
sorpresa. ((Non
ha ancora toccato quel denaro)), indicandoglielo là dove lo avevo lasciato
la sera prima.
Non rispose nulla.
((Intende
lasciarmi oppure no?)), chiesi a questo punto con impeto
improvviso, avvicinandomi a lui.
((Preferirei non lasciarla)), rispose sottolineando leggermente il non.
((Quale diritto al mondo ha mai di restare qui?
Paga l'affitto? Mi paga le tasse? Questa casa le appartiene?)).
Non rispose nulla.
«È disposto a riprendere a scrivere adesso? I
suoi occhi sono guariti? Potrebbe copiarmi un breve documento questa mattina?
Oppure aiutarmi a controllare qualche riga? Oppure fare un salto all'ufficio
postale? In una parola, fare una cosa qualsiasi che giustifichi il suo rifiuto
di lasciare l'ufficio?».
In
silenzio si ritrasse nel suo eremo.
Mi trovavo in uno stato
tale di risentita irritazione che ritenni prudente trattenermi per il momento
dal dire altro. Io e Bartleby eravamo soli. Mi sovvenne la tragica fine dello
sventurato Adams e dell'ancor più sventurato Colt nell'ufficio solitario di quest'ultimo;
come il povero Colt, portato da Adams a un punto di esasperazione estrema,
abbandonandosi imprudentemente a un furore selvaggio, fosse trascinato a
commettere il suo fatale gesto senza esserne consapevole, un gesto che nessuno
avrebbe potuto deplorare più di lui che lo aveva compiuto. Spesso, nel
riflettere sul caso, mi aveva assalito il pensiero che se l'alterco fosse
scoppiato nella pubblica via o in un'abitazione privata, non si sarebbe
concluso in quel modo. Era stata la circostanza di trovarsi da solo
nell'ufficio deserto, al primo piano di uno stabile mai benedetto dall'influsso
umanizzante dei rapporti familiari, un ufficio dall'assito nudo, indubbiamente
polveroso e squallido - ecco che cosa doveva aver contribuito a esacerbare la
rabbia disperata dello sfortunato Colt.
Ma quando in me sorse
questo rancore, quando in me si svegli0 il vecchio Adamo, per tentarmi contro Bartleby, lo
abbrancai e lo respinsi. Come? Limitandomi a ricordare il comando divino: «Un
nuovo comandamento io do a tutti voi, che vi amiate l'un l'altro».? Sì, fu
questo a salvarmi. A prescindere da nobili considerazioni, la carità spesso
opera alla stregua di un principio saggio e prudente - una grande salvaguardia
per chi la possiede. Gli uomini hanno ucciso per gelosia, per rabbia, per odio,
per egoismo, per orgoglio spirituale, ma nessun uomo, per quanto ne sappia, ha
mai ucciso per la dolce carità. Per mero interesse personale allora, in
mancanza di un motivo migliore, tutti, specie le persone colleriche, dovrebbero
praticare la carità e la filantropia. In ogni modo, nell'attuale situazione,
cercai con tutte le forze di soffocare la mia esasperazione nei confronti dello
scrivano interpretando benevolmente la sua condotta. «Poveretto, poveretto!»,
pensai. «Non ha cattive intenzioni, senza contare che ne ha conosciuti di
momenti difficili e bisogna aver pazienza con lui».
Mi sforzai anche di trovare subito qualcosa
da fare e, nello stesso tempo, di dare sollievo al mio sconforto. Cercai di
cullarmi nella fantasia che, nel corso della mattinata, in un momento che gli
fosse andato a genio, Bartleby, di sua spontanea volontà, sarebbe emerso dal
suo cantuccio per imboccare con decisione la direzione della porta. Niente da
fare. Venne la mezza; Tacchino cominci0 a
irradiare luce dal volto, a rovesciare il calamaio, a farsi insofferente;
Pince-Nez si acquiet0 in una cortese
compostezza; Zenzero prese a rosicchiare la mela del pranzo; Bartleby, in piedi
davanti alla finestra, era immerso in una delle sue più profonde fantasticherie
sul muro cieco. Lo si crederà? Dovrei ammetterlo? Quel pomeriggio lasciai
l'ufficio senza rivolgergli altra parola.
Trascorsero alcuni giorni, durante i quali,
negli intervalli liberi, leggiucchiavo il trattato di Edwards Sulla volontà e quello di Priestley Sulla necessità. Date le circostanze,
quei libri mi ispirarono sentimenti salutari. A poco a poco mi abbandonai alla
convinzione che i miei affanni, riguardanti lo scrivano, fossero stati
predestinati dall'eternità e che Bartleby mi fosse stato assegnato per qualche
misterioso scopo da una onnisciente Provvidenza, imperscrutabile per un
semplice mortale come me. ((Sì
Bartleby, stattene lì, dietro il tuo paravento», pensavo. ((Non
ti perseguiter0 più; sei innocuo e
silenzioso come una di queste vecchie sedie. In breve, non mi sento mai così
solo come quando so che sei lì. Perlomeno lo vedo, lo percepisco, intuisco lo
scopo predestinato della mia vita. Mi basta. Altri forse avranno ruoli più
nobili da interpretare, ma la mia missione nel mondo, Bartleby, è di darti una
stanza d'ufficio per tutto il tempo che ti andrà di rimanervi».
Sono convinto che avrei persistito in questa
saggia e beata disposizione, se non fosse stato per le osservazioni gratuite e
impietose lanciatemi dai colleghi che venivano nel mio studio. Spesso accade
che la contiguità con animi poco liberali finisca con il logorare i migliori
propositi degli animi generosi. Riflettendoci tuttavia, non era strano, a ben
pensarci, che quanti entravano nel mio ufficio, colpiti dall'aspetto peculiare
dell'inesplicabile Bartleby, fossero tentati di buttare lì qualche commento
perfido su di lui. A volte veniva nello studio questo o quel procuratore, che
aveva affari con me, e, non trovando nessuno tranne lo scrivano, si adoperava
per ottenere da lui qualche indicazione su dove io fossi, ma Bartleby,
indifferente a quelle vane chiacchiere, se ne rimaneva immobile, in piedi in
mezzo alla stanza. E il procuratore, dopo averlo contemplato in quella
posizione per qualche tempo, se ne andava senza aver saputo nulla.
Oppure, quando si svolgeva un arbitrato, con
l'ufficio gremito di avvo cati e testimoni, mentre il lavoro urgeva, qualche
legale presente, immerso nelle sue occupazioni, vedendo Bartleby che non faceva
assolutamente nulla, gli chiedeva di andare di corsa nel suo ufficio (del
legale) a prendergli qualche documento. Al che Bartleby tranquillamente
rifiutava, restandosene con le mani in mano come prima. Il legale, a questo
punto, sgranando gli occhi, si volgeva verso di me. Che cosa potevo dire? Alla
fine mi resi conto che nella cerchia delle mie conoscenze professionali circolavano
sussurri di sorpresa per la strana creatura che tenevo nello studio. Questo mi
preoccup0 molto. E mentre si faceva
strada il pensiero che potesse magari essere un uomo longevo e continuare a
occupare i miei locali, a rifiutare la mia autorità, a mettere in imbarazzo i
miei visitatori, a screditare la mia reputazione professionale, a gettare
un'ombra sinistra sull'ufficio, tenendo l'anima stretta coi denti fino
all'ultimo centesimo dei suoi risparmi (non c'era dubbio, infatti, che
spendesse al massimo cinque centesimi al giorno), e finisse con il
sopravvivermi, avanzando pretese sulla proprietà degli uffici per usucapione
con la sua occupazione perpetua; mentre tutti questi cupi presagi mi si
affollavano in mente sempre più pressanti, e mentre i miei amici, irriducibili,
di continuo mi imponevano le loro osservazioni sul fantasma dell'ufficio, un
grande mutamento si oper0 in me. Decisi di
raccogliere tutte le mie energie e liberarmi, una volta per tutte, di
quell'intollerabile incubo.
Prima di elaborare un piano complicato adatto
allo scopo, mi limitai a suggerire a Bartleby l'opportunità di una sua partenza
definitiva. In tono calmo e grave gli sottoposi l'idea, invitandolo a valutarla
con matura ponderazione. Ma, dopo essere stato tre giorni a meditarvi, mi
comunic0 che rimaneva invariata la
sua originaria decisione; in breve, preferiva ancora alloggiare da me.
((Che cosa far0?»,
mi dissi abbottonandomi la giacca fino all'ultimo bottone. ((Che
cosa far0? Che cosa dovrei fare?
Che cosa in coscienza sarei tenuto a
fare di quest'uomo, anzi di questo fantasma? Sbarazzarmene, dovevo; andarsene,
dovrà. Ma come? Non lo butterai fuori, quel pover'uomo, pallido, passivo - non
butterai fuori una creatura tanto inerme? Non ti disonorerai commettendo una
tale crudeltà? No, non lo far0, non posso farlo. Lo
lascio piuttosto vivere e morire qui,
per
murare poi le sue spoglie nella parete. Che cosa farai allora? Puoi blandirlo,
ma non lo smuoverai. I soldi che gli dai per convincerlo li lascia sotto il
fermacarte sul tuo tavolo. E evidente, insomma, che preferisce aggrapparsi a
te.
((Allora è necessario prendere misure
drastiche, straordinarie. Cosa! Non vorrai farlo ammanettare da un poliziotto,
affidando a un carcere comune la sua esangue innocenza? E poi per quali motivi
potresti ottenere una cosa simile? È un vagabondo? Come! Un vagabondo, uno
senza fissa dimora, lui che si rifiuta di muoversi? È proprio perché non è un vagabondo che cerchi di farlo
passare per vagabondo. Troppo
assurdo. Nessun mezzo di sostentamento evidente: ecco che l'ho in pugno. No,
sbagliato di nuovo: ha di che vivere;
senza dubbio, l'essere vivi è l'unica prova inconfutabile che si ha di che
vivere. Niente da fare, allora. Poiché non sarà lui a lasciare me, sarò io a
lasciare lui. Cambierò ufficio; andrò altrove; lo avvertirò nei dovuti modi
che, se mai lo troverò nei nuovi locali, procederò contro di lui per violazione
di domicilio)).
Il giorno successivo,
agendo di conseguenza, così mi rivolsi a lui: ((Trovo che questo ufficio sia troppo lontano dal
municipio, senza contare che l'aria non è buona. Insomma ho intenzione di
traslocare la prossima settimana e non avrò più bisogno dei suoi servigi.
Glielo dico oggi perché possa trovarsi un altro posto)).
Non rispose nulla, e null'altro fu detto.
Nel giorno fissato, noleggiati carri e
uomini, andai in ufficio e, avendo soltanto pochi mobili, in poche ore fu
portata via ogni cosa. Per tutto il tempo lo scrivano se ne rimase in piedi
dietro il paravento che ordinai di portar via per ultimo. Fu tolto e, piegato
come un enorme foglio, lo lasciò inquilino immobile di una stanza spoglia. Mi
fermai sulla soglia guardandolo per un momento, mentre dentro di me qualcosa mi
rimordeva.
Ritornai indietro con la mano in tasca e il
cuore in gola.
((Addio, Bartleby, me ne vado... addio e Dio la
protegga in qualche modo. Prenda)), facendogli scivolare qualcosa in mano. Ma
finì a terra e allora - strano a dirsi - dovetti fare uno sforzo per strapparmi
da lui, e sì che avevo tanto desiderato sbarazzarmene.
Nel mio nuovo studio, per un giorno o due,
tenni la porta chiusa a chiave, trasalendo a ogni rumor di passi nel corridoio.
Ritornando in ufficio, dopo un'assenza anche brevissima, indugiavo sulla soglia
per un attimo, tendendo l'orecchio con attenzione, prima di infilare la chiave.
Ma erano paure superflue. Bartleby non venne mai da me.
Pensavo che tutto andasse per il meglio,
quando venne a trovarmi uno sconosciuto dall'aria sconvolta, chiedendomi se
fossi io la persona che ultimamente aveva occupato i locali al n.- di Wall
Street.
In preda a cupi presentimenti risposi di sì.
((Allora,
signore)),
disse lo sconosciuto che risultò essere un avvocato, ((lei è responsabile
dell'uomo che si è lasciato dietro. Rifiuta di copiare, rifiuta di fare
qualsiasi cosa; dice che preferisce di no, rifiuta di lasciare i locali)).
((Ne sono desolato, signore)), risposi fingendomi
calmo, sebbene tremassi dentro di me, ((ma l'uomo cui lei allude non è niente per me
- non è un mio parente, non è neppure un apprendista per il quale lei potrebbe
ritenermi responsabile)).
((In nome del cielo, chi
è?))
((Non sono in grado di dirglielo. Non so nulla
di lui. In passato lo assunsi come copista, ma da un po' di tempo non fa niente
per me)).
((Lo sistemerò io,
allora... buon giorno, signore)).
Trascorsero parecchi giorni, e non ne seppi
più nulla. Se anche a volte mi sentivo spinto da un impulso caritatevole ad
andare a trovare il povero Bartleby, tuttavia mi tratteneva una certa
ripugnanza per chissà che cosa.
((Ormai è sistemato)), pensai alla fine,
quando, per tutta la successiva settimana, non ebbi altre notizie di lui. Ma,
arrivando nello studio il giorno dopo, trovai, in attesa davanti alla mia
porta, varie persone agitatissime.
((Eccolo... arriva)), gridò il portavoce che
riconobbi come l'avvocato venuto da me in precedenza.
((Deve portarselo via immediatamente, signore)), gridò avvicinandosi a
me un signore distinto, che sapevo essere il proprietario dello stabile al n. -
di Wall Street. ((Questi
signori, miei inquilini, non lo tollerano più. Il signor B.)), indicando l'avvocato, ((l'ha messo fuori del suo
ufficio, e lui adesso si ostina a funestare l'intera casa, sedendosi sulla
ringhiera delle scale di giorno e dormendo nell'ingresso di notte. Ne sono
tutti preoccupati; i clienti se ne vanno; serpeggia la paura di una sommossa.
Bisogna intervenire e senza perdere tempo)).
Atterrito da quel torrente di parole,
indietreggiai e sarei stato contento di chiudermi a chiave nel mio nuovo
studio. Invano continuai a insistere che Bartleby non era niente per me - non
più di chiunque altro. Invano: risultavo essere io l'ultima persona che aveva
avuto a che fare con lui e dovevo rendere conto della terribile situazione.
Timoroso dunque di finire sui giornali (come minacciò oscuramente uno dei
presenti), considerai la faccenda e, dopo un po', dissi che, se l'avvocato mi
avesse concesso di parlare allo scrivano in privato nel suo ufficio
(dell'avvocato), quel pomeriggio mi sarei adoperato al massimo per liberarlo
del fastidio all'origine delle sue recriminazioni.
Salendo le scale verso la mia vecchia tana,
ecco Bartleby che in silenzio se ne stava seduto sulla ringhiera del
pianerottolo.
((Che cosa fa qui,
Bartleby?)), chiesi.
((Sto seduto sulla
ringhiera)), rispose mitemente.
Gli
feci cenno di entrare nell'ufficio dell'avvocato che subito se ne andò.
((Bartleby)), dissi, ((si rende conto che mi
fa tribolare ostinandosi a occupare
l'ingresso, dopo essere stato licenziato
dall'ufficio?))
Nessuna risposta.
((Ora una delle due: o lei fa qualcosa, oppure
qualcosa va fatto a lei. In che
lavoro le piacerebbe impegnarsi? Vorrebbe
riprendere a copiare per qualcuno?))
((No, preferirei non fare
cambiamenti)).
((Vorrebbe fare il
contabile in una drogheria?))
((Si sta troppo al chiuso. No, non mi va di
fare il contabile, ma non faccio il
difficile)).
((Troppo al chiuso?)), esclamai. ((Ma se lei se ne sta sempre rinchiuso!))
((Preferirei non fare il
contabile)), aggiunse come a
sistemare subito quella
piccola questione.
((Le andrebbe di lavorare
in un bar? In quel mestiere non si sforza gli occhi)).
((Non mi piacerebbe
affatto, anche se, come ho già detto, non faccio il
difficile)).
L'insolita loquacità mi diede un'ispirazione.
Ritornai alla carica.
((Le piacerebbe allora
viaggiare per tutto il paese a riscuotere crediti per i
commercianti? Le
farebbe bene alla salute)).
((No, preferirei fare
qualcos'altro)).
((Che ne direbbe di andare
in Europa al seguito di qualche giovane
gentiluomo per intrattenerlo con la sua
conversazione... Le andrebbe?))
((Per
niente. Non mi pare che ci sia niente di stabile. Mi piace stare fermo in un
posto. Ma non faccio il difficile».
((E fermo in un posto allora se ne starà»,
esclamai perdendo la pazienza e sbottando di rabbia per la prima volta nella
storia dei miei esasperanti rapporti con lo scrivano. ((Se lei non se ne va da
questo stabile prima di sera, sarò costretto - anzi sono costretto - a... a... ad andarmene io stesso!», conclusi in
modo piuttosto incongruo, non sapendo con quale minaccia spaventarlo per scuoterlo
da quella sua immobilità, inducendolo a obbedire. Disperando nell'esito di
altri sforzi, stavo per lasciarlo precipitosamente, quando mi venne un ultimo
pensiero... un'idea che non avevo mai del tutto accantonato in precedenza.
((Bartleby», dissi con il tono più gentile che
in tutta quella concitazione mi riuscì di assumere, ((vuole venire con me - non
nel mio ufficio, ma nel mio appartamento - e restare lì finché non avremo
trovato con comodo una sistemazione conveniente? Su, andiamoci adesso, subito».
((No, per il momento preferirei non cambiare nulla».
Non replicai ma, scansando tutti con una fuga
subitanea e rapida, mi precipitai fuori da quello stabile, risalii di corsa
Wall Street verso Broadway e, saltando sul primo omnibus, mi trovai presto al
sicuro dagli inseguimenti. Non appena fui di nuovo calmo, capii distintamente
di aver fatto tutto il possibile sia per venire incontro alle esigenze del
padrone di casa e degli inquilini, sia per appagare il mio desiderio e obbligo
morale di aiutare Bartleby e proteggerlo da una dura persecuzione. Mi sforzai
allora di scrollarmi di dosso ogni ansia e di mettermi tranquillo; la coscienza
approvava quel tentativo, sebbene non proprio come avrei voluto. Ero così
timoroso di essere stanato dall'esasperato proprietario e dagli adirati
inquilini che, affidando l'ufficio a Pince-Nez per qualche giorno, mi diressi
in carrozza verso la parte alta della città, attraversando i sobborghi, arrivai
a Jersey City e Hoboken, al di là del fiume, visitai in gran fretta Manhattanville
e Astoria. Insomma vissi quasi tutto il tempo in carrozza.
Quando varcai di nuovo la soglia dello
studio, ecco sulla mia scrivania un messaggio del padron di casa. Lo aprii con
mani tremanti. Mi informava che lo scrivente aveva fatto intervenire la polizia
e condurre Bartleby alle Tombe per vagabondaggio. Siccome io su di lui ne
sapevo più di ogni altro, mi pregava di recarmi in quel luogo e fare
un'adeguata deposizione dei fatti. Questi ragguagli ebbero su di me reazioni
contrastanti. Dapprima ne fui sdegnato, ma, alla fine, giunsi quasi ad
approvare la decisione. Il temperamento sbrigativo ed energico del padron di
casa lo aveva indotto ad adottare una procedura che non credo mi sarei mai
deciso a seguire, eppure, estremo rimedio in quelle circostanze tanto insolite,
sembrava l'unica soluzione.
Come appresi più tardi, il povero scrivano,
avvertito che doveva essere tradotto alle Tombe, non aveva opposto la minima
resistenza, ma vi si era adeguato con la sua pallida, imperturbabile man
suetudine.
Alcuni presenti, per compassione e curiosità,
si erano uniti al gruppo e, capeggiato da un poliziotto a braccetto di
Bartleby, il silenzioso corteo aveva sfilato attraverso le concitate strade in
mezzo al frastuono e al caldo e all'allegria di mezzogiorno.
Lo stesso giorno in cui
ricevetti quel messaggio, mi recai alle Tombe, ovvero, per esprimermi con
precisione, al carcere giudiziario. Cercato il funzionario competente,
dichiarai lo scopo della mia visita e venni a sapere che di fatto l'individuo
descritto era lì trattenuto. Assicurai allora il funzionario che Bartleby era
un uomo di assoluta probità, da commiserare profondamente, seppur
eccentrico
al di là di ogni dire. Esposi tutto quello che sapevo e conclusi suggerendo di
tenerlo in reclusione con tutta l'indulgenza possibile, finché non si fosse
trovata una soluzione meno aspra, sebbene invero non sapessi quale potesse
essere. Se poi non si fosse deciso niente, lo avrebbe accolto l'ospizio dei
poveri. Chiesi quindi di parlargli.
Non essendo imputato di nessun grave reato e
avendo sempre un'aria docile e innocua, gli avevano concesso di aggirarsi
liberamente per la prigione e soprattutto nei cortili erbosi interni. Fu quindi
lì che lo trovai, da solo, in piedi nell'angolo più tranquillo, con il volto
verso un alto muro, mentre tutto intorno, attraverso le strette feritoie delle
finestre della prigione, mi parve di scorgere gli occhi di ladri e assassini
che sbirciavano.
((Bartleby! ))
((La conosco)), disse senza voltarsi, ((non ho nulla da dirle)).
((Non
sono stato io a portarla qui, Bartleby)), dissi profondamente addolorato
dall'implicito sospetto. ((E per lei questo non dovrebbe essere un posto
tanto abbietto. Non le viene imputata nessuna azione riprovevole per trovarsi
qui. E guardi: non è poi così triste come si potrebbe pensare. Guardi: c'è il
cielo, c'è l'erba)).
((So dove mi trovo)), rispose, ma non volle aggiungere altro, e così lo
lasciai.
Mentre imboccavo di nuovo il corridoio, un
omaccione dall'aria sanguigna, con un grembiule, mi si avvicinò e, indicando
con il pollice sopra la sua spalla, disse: ((E un suo amico?))
((Sì)).
((Vuole
morire di fame? Se sì, basta dargli la razione che passa il carcere, ed è fatta)).
((Lei, chi è?)), chiesi non sapendo come
catalogare una persona che in un tale posto parlava in modo così poco
ufficiale.
((Sono
il vivandiere. I signori qui che hanno amici mi pagano, così io gli porto cose
buone da mangiare)).
((È vero?)), chiesi volgendomi verso il secondino.
Lo confermò.
((Allora)), dissi facendo scivolare qualche moneta
d'argento nelle mani del vivandiere (perché così lo chiamavano), ((le chiedo di prestare
particolare attenzione al mio amico qui. Gli faccia avere il miglior pranzo che
riesce a trovare. E con
lui sia più gentile che
può)).
((Che
ne dice di presentarmi?)), chiese il vivandiere guardandomi con
un'espressione che sembrava significare l'impazienza di mostrarmi le sue buone
maniere.
Pensando che potesse giovare allo scrivano,
accondiscesi e, chiedendo al vivandiere come si chiamasse, mi avvicinai con lui
a Bartleby.
((Bartleby, ecco un amico.
Vedrà che le sarà molto utile)).
((Servitor suo, signore, servitor suo)), disse il vivandiere con
un profondo inchino dietro il suo grembiule. ((Spero che sarà di suo
gusto qui, signore. Bel giardino... locali freschi... spero che rimarrà con noi
per un po'... cercherò di renderglielo piacevole. Cosa vuole per pranzo oggi?))
((Preferisco non pranzare oggi)), disse Bartleby
voltandosi dall'altra parte. ((Mi farebbe male, non sono abituato a pranzare)). Così dicendo, si portò
lentamente sul lato opposto del cortile e si mise davanti al muro cieco.
((Cosa
vuoi dire?)),
disse il vivandiere rivolgendosi a me con sguardo attonito. ((E un po' tocco, vero? ))
((Penso che sia un po' dissennato)), dissi con tristezza.
((Dissennato? Dissennato, dice? Beh, parola
mia, ecco cosa pensavo: che quel suo amico lì era un falsario. Sempre pallidi e
con l'aria da signori, quelli, i falsari. Mi fanno pena, signore, non posso
farne a meno. Conosceva Monroe Edwards?)), aggiunse in tono mesto e tacque. Quindi,
appoggiando la mano sulla mia spalla con gesto accorato, sospirò: ((È morto tisico a
Sing-Sing. Così non conosceva Monroe?))
((No,
non ho mai frequentato falsari. Ma non posso restare oltre. Abbia cura del mio
amico laggiù. Non ci perderà. Arrivederla)).
Alcuni giorni dopo, di nuovo ammesso alle
Tombe, percorsi i corridoi alla ricerca di Bartleby, ma senza trovarlo.
((L'ho
visto da poco uscire dalla sua cella)), disse un secondino, ((forse se n'è andato a
gironzolare in cortile)).
Mi
avviai in quella direzione.
((Cerca
l'uomo che non parla?)), chiese un altro secondino superandomi. ((È disteso laggiù... dorme
nel cortile. Non sono neanche venti minuti che l'ho visto sdraiarsi)).
Il cortile, tranquillissimo, era precluso ai
detenuti comuni. Le mura intorno, straordinariamente spesse, lo isolavano da
ogni suono esterno. Lo stile egizio del complesso mi incombeva addosso con il
suo cupore. Ma sotto i piedi cresceva una soffice erbetta prigioniera. Il cuore
delle piramidi eterne - sembrava - dove, all'interno, per qualche strano
incantesimo, attraverso le fenditure, dai semi lasciati cadere dagli uccelli
fosse germogliata l'erba.
Rannicchiato in una strana posa ai piedi del
muro, con le ginocchia piegate, disteso sul fianco, la testa appoggiata sulle
pietre fredde, vidi il devastato Bartleby. Non si muoveva nulla. Mi fermai,
quindi mi accostai a lui, mi chinai e vidi che i suoi occhi opachi erano
aperti; per il resto, sembrava immerso in un sonno profondo. Qualcosa mi spinse
a toccarlo. Tastai la mano e un brivido pungente mi guizzò su per il braccio e
giù per la schiena fino ai piedi.
Il faccione rotondo del vivandiere sbucò
dietro di me. ((Il
suo pranzo è pronto. Neanche oggi vuoi mangiare, eh? E che? Vive senza
mangiare?))
((Vive senza mangiare)), dissi e gli chiusi gli occhi.
((Ehi! Dorme, eh?))
((Con i re e i consiglieri)), mormorai.
Non occorrerebbe dire molto di più in questa
storia. L'immaginazione può facilmente dare l'idea dello spoglio rituale del
seppellimento del povero Bartleby. Ma prima di accomiatarmi dal lettore,
lasciatemi dire che, se questo racconto ha suscitato la curiosità di sapere chi
fosse Bartleby e che vita avesse condotto prima che lo conoscesse il presente
narratore, posso soltanto rispondere che io pienamente condivido tale
curiosità, ma sono del tutto incapace di soddisfarla. Eppure a questo punto
sono incerto se divulgare l'eco di una diceria che giunse al mio orecchio
alcuni mesi dopo la morte dello scrivano. Su quali basi poggiasse non sono mai
riuscito ad accertare; quindi, non sono in grado di dire quanto ci sia di vero.
Ma poiché questa vaga notizia, comunque riportata, non mi sembra priva di una
sua suggestione, forse lo stesso parrà agli altri; così ne farò un breve cenno.
Ecco la notizia: Bartleby era stato un impiegato subalterno nell'ufficio delle
lettere smarrite a Washington, dal quale era stato all'improvviso licenziato
per un cambiamento nell'amministrazione. Quando penso a
questa diceria, a fatica riesco a esprimere le emozioni che mi pervadono.
Lettere smarrite, lettere morte! Non suona come uomini morti? Pensate a un
uomo, per natura e sventura, incline a una languida disperazione: esiste un
lavoro più adatto ad accentuarla che maneggiare continuamente queste lettere
morte e metterle in ordine per darle alle fiamme? Ogni anno ne vengono bruciate
a carrettate. Qualche volta dal foglio piegato il pallido impiegato estrae un
anello - il dito al quale era destinato, forse, imputridisce nella tomba; una
banconota inviata in un moto di pronta carità... e colui che ne avrebbe tratto
sollievo non mangia più e non soffre più la fame; parole di perdono per coloro
che morirono nello sconforto; di speranza per coloro che morirono disperati;
buone nuove per coloro che morirono soffocati da sventure inconsolabili.
Apportatrici di vita, queste lettere rovinano verso la morte.
O
Bartleby! O umanità!
(tratto da I Grandi
Classici della letteraratura straniera, L’Espresso – Garzanti)
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