mercoledì 21 agosto 2024

A Franco Farolfi - Pier Paolo Pasolini

 

A Franco Farolfi - Parma

[Casarsa, 19 giugno 1943]

Pier Paolo Pasolini

Caro Franco, evidentemente noi parliamo due linguaggi diversi. Ormai io mi sono talmente inoltrato nel mio sogno, che non so come la mia voce raggiunga quelli che non mi accompagnano. Ora, sono abbastanza calmo: i gesti dell'aprire la luce e cercare la carta hanno fermato la furia dei miei pensieri; ma sono ancora fresco della notte casarsese, consumata soffrendo per queste strade che calco da anni. Io vorrei parlarti, ora; ma non ti arriveranno che parole, e per di più falsate dalla sincerità che mi sento costretto ad usare con te. Tutta la tua risposta alla mia lettera batte una strada che già io conosco, come le mille altre che prevedo: ma non posso rassegnarmi. Fermati un momento su queste parole, e immagina che in un momento di sincerità assoluta, senza affetto e senza pose, te le gridi con quanta voce ho in corpo. E tu invece mi parli, e così gli altri con cui accenno a questi argomenti, di una possibilità a rassegnarsi e a non pensare che gli uomini abbiano avuto in dono dalla natura. Tutta la tua lettera è equilibrata su questa possibilità illogica di rassegnazione. Ebbene, si vede che come nella materia tutti gli squilibri sono compensati, così nelle cose dello spirito, forse, esiste un tale equilibrio per cui una cosa non pensata o mal pensata, poniamo, da una gran quantità di spiriti, deve essere pensata e sofferta da una minoranza, ma con tanta intensità e fedeltà da compensare la sproporzione. Tu non crederai, ma se, come pensi, Schopenhauer avrà avuto momenti di stasi (mangiare, prender moglie), io tali momenti non li ho. Ogni immagine di questa terra, ogni volto umano, ogni battere di campane, mi viene gettato contro il cuore ferendomi con un dolore quasi fisico. Non ho un momento di calma, perché vivo sempre gettato nel futuro: se bevo un bicchiere di vino, e rido forte con gli amici, mi vedo bere, e mi sento gridare, con disperazione immensa e accorata, con un rimpianto prematuro di quanto faccio e godo, una coscienza continuamente viva e dolorosa del tempo. Ma non sono né malato, né pazzo: sono normale e sereno, non solo nell'aspetto e nei gesti esteriori, ma anche dentro di me. E credevo - te l'ho scritto – che tale -serenità- fosse dovuta ad un fondamentale e sano equilibrio del mio spirito. Ma probabilmente devo la mia salvezza (non diventare un maniaco, non consumarmi) alla mia fantasia, che sa trovare un'immagine concreta ad ogni sentimento, e così mi sembra, l'imprigiona, gli impedisce di lavorare sfrenatamente nel mio cervello. 

Così al doloroso e continuamente sofferto urgere dei sentimenti, corrisponde metodicamente in me, un riordinamento poetico, che se non altro serve a mettere tra due argini, a tramortire la corrente di quel mio sentimento sempre in moto. L' altra volta ti ho detto qual è  pressapoco l'argomento dei miei pensieri. Non crederai se ti dico che mi costringo a piangere ogni volta che sento suonare a morto, e chiedo notizie di quel morto, o ricostruisco la sua vita (fanciullo, giovanetto, bagni nel fiume, la Processione con la candela in mano), e mi par impossibile non vedere tutta la vita da oltre il punto della morte, vederla già passata e compiuta, gesto per gesto, una catena di giorni tutti immaginabili, di sorpresa in sorpresa, di meraviglia in meraviglia: trovarsi al punto della morte, e non aver avuto ancora il tempo di chiudere perfettamente il periodo della fanciullezza.

Stamattina, con l'alba, sono stato svegliato da alcune voci: voci calde, precise, chiare, dolci. Erano voci di giovanetti diciottenni che facevano complimenti amorosi alla figlia di mia cugina, nata ieri, fanciulla di un giorno, e da me sognata ormai giova- netta; e con lei, il mio volto vecchio... Da non pensarci?  Ridicolo? Ma non abbiamo gli esempi lucidi, crudeli, davanti ai nostri occhi, di gente che ci ha visto nascere, ed ora in disparte ci guarda esser giovani? Non so rassegnarmi. Mai, in nessun momento del mio giorno, l'Estate che passa; il frumento, ieri e l'altro ieri biondeggiante sulla terra, ed ora segato e trebbiato; l'improvviso ricordo di Sergio fanciullo che faceva il bagno con me nel fiume, ed ora è giovane brutto e grigio. Affondiamo in una palude di volti, mani, riccioli, voci. Sono enormi, illogiche, inesprimibilmente assurde le relazioni che legano gli uomini fra di loro: immagini, per esempio, che relazione può passare fra un ufficiale morto (di cui ho visto le esequie, con la fanfara e le corone), e due fanciulli che giocano in un prato (che contemporaneamente vidi)? È la stessa relazione che lega me ad una vespa.

Vedi come tutte le cose che la possibilità a rassegnarsi ed accettare rende ovvie agli  uomini, per me sono astrusamente e dolorosamente aperte ai pensieri: la mia esistenza è un continuo brivido, un rimorso, o nostalgia. Ho passato perfino un'ora intera a guardarmi le mani, perché sono stato preso dallo scrupolo che in punto di morte l'uomo non sa che mani ha avuto: si è sempre rassegnato ad averle, si è troppo abituato ad esse; non pensa che tra le infinite mani, quelle sono le sue.

Mi sono risvegliato abbastanza contento, e concludo. Quanto a cercare dell'esistenza una giustifica- zione logica, cioè filosofica, non la cerco nemmeno. Non mi interessano quelle cose astratte che sono Dio, Natura, Parola. I filosofi non mi interessano affatto se non in certi brani poetici. Non trovo nulla di più vano e doloroso che prendere a prestito un linguaggio usato da secoli e servirmene per una nuovamente astratta costruzione filosofica. Tanto più che io trovo una specie di consolazione ed equilibrio attraverso le immagini poetiche, come dicevo. L'unica filosofia che io senta moltissimo vicina a me è l'esistenzialismo, con il suo poetico (e ancora vicinissimo a me) concetto di «angoscia», e la sua identificazione esistenza-filosofia. (Leggi il libro di E. Paci L'Esistenzialismo - C.E.D.A.M. Padova, dove troverai credo una bibliografia.)

Ieri sera ho visto (chissà come è capitato qua) «La tragedia di Jegor»,¹ che dev'essere quel film di cui mi parlavate tu e Umberto. Stavo poco bene e la vista di quel film mi ha completamente risanato. Era tanto che non provavo un entusiasmo così puro e disinteressato per opere altrui (né per -Gli Angeli del male- né per «Il porto delle nebbie»). L'ingenuità e retoricità del contenuto, che molte volte sono quasi buffe, si riscattano attraverso una tecnica  così originale, fresca, poetica (quasi tutti primi piani), come da molto non mi capitava di vedere. Scrivi presto, ti abbraccio, salutami i tuoi

Pier Paolo

Autografa.

Presso CSPPP, in fotocopia.

Pubblicata in Lettere a Franco Farolfi, cit., pp. 23-25 е 16.

1 Film del regista russo Grigorij Lvovič Rošal' ispirato a Le notti bianche di Dostoevskij.

 

 

 

 

 

 

 

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