Medea
Christa Wolf
Nel romanzo di Christa Wolf,
Medea è una donna forte e libera, una «maga» depositaria di un «sapere del
corpo e della terra». È questo «secondo sguardo» che le fa scoprire un orribile
segreto nascosto nel sottosuolo del palazzo reale di Corinto. Medea dovrà
pagare per aver svelato il crimine su cui si fonda il potere. Non saprà né
vorrà difendersi perché – dopo aver abbandonato la natia Colchide, anch’essa
macchiata di sangue innocente – non ha più radici né ideali che la sostengano.
In Medea ritroviamo la riscrittura radicale del mito già
presente in Cassandra.
La figura di Medea ci è stata
consegnata da Euripide soprattutto come la madre che ha ucciso i propri figli,
la violenza irrazionale contrapposta alla razionalità patriarcale della civiltà
greca. Christa Wolf ribalta questa versione con una vera e propria indagine
riallacciandosi alle fonti antecedenti Euripide.
La Medea non-violenta di Christa Wolf
Il mito di Medea è ripreso
dalla scrittrice tedesca Christa Wolf in un romanzo uscito in Germania nel 1996
(Medea. Stimmen), e prontamente pubblicato in Italia (Medea. Voci,
trad. di Anita Raja, e/o, Roma, 1996). Il sottotitolo del romanzo (Voci)
allude alla tecnica narrativa della plurivocalità adottata: ogni capitolo è
narrato in prima persona da sei diversi personaggi (Medea; Giasone; Agamede:
maga e guaritrice, un tempo allieva di Medea; Acamante: astronomo di Corinto e
consigliere del re Creonte; Leuco: secondo astronomo e allievo di Acamante;
Glauce: la figlia del re Creonte, promessa sposa a Giasone). Oltre a
vivacizzare la narrazione attraverso una pluralità espressiva, l'intersecarsi
delle voci dei personaggi mette in rilievo il conflitto tra due mondi lontani e
incomponibili; un conflitto tra culture che nel romanzo della Wolf diventa
riflessione sulle origini stesse dell'idea di potere.
Una rilettura del mito
La storia di Medea raccontata
dalla Wolf modifica radicalmente la versione del mito della tragedia euripidea.
E' in primo luogo il tratto più inquietante della donna-maga, l'infanticidio
(presente anche nelle riletture del mito di Grillparzer, Alvaro e Pasolini),
che viene rifiutato, nell'adozione di una versione pre-euripidea del racconto,
secondo la quale i bambini furono lapidati dai Corinzi infuriati contro Medea,
ritenendola responsabile (con le sue arti magiche) della peste che aveva
colpito la città (perfetto esempio di capro espiatorio). In una intervista del
1997, Christa Wolf spiega come nacque l'idea di dedicare un romanzo alla figura
della principessa della Colchide. Dal testo dell'intervista estrapoliamo due
passi che forniscono alcune importanti indicazioni per l'interpretazione del
romanzo.
Ho cominciato a interessarmi a Medea nel
1990. Lo stesso anno in cui la DDR [Repubblica democratica tedesca] stava
sparendo dalla storia. Ho cominciato a domandarmi perché nella nostra società
tutto viene consumato e nello stesso tempo si va sempre alla ricerca di un
capro espiatorio. I miei primi appunti su Medea sono del 1991. Di lei conoscevo
come tutti la versione di Euripide (..) [la Wolf riassume la nota vicenda, fino
all'epilogo tragico] [Medea] narra Euripide, folle di gelosia e di orgoglio
ferito uccide la figlia del re, quindi i propri figli. Non potevo crederci.
Mentre pensavo a Medea mi venne in aiuto il caso. Una studiosa di Basilea,
curatrice del sarcofago di Medea presso il museo locale mi spedì un suo
articolo dal quale risulta che Euripide per primo attribuisce a Medea
l'infanticidio, mentre fonti antecedenti descrivono i tentativi di Medea di
salvare i tre figli portandoli al santuario di Era. (...) Fin dall'inizio
pensavo che Medea fosse troppo legata alla vita per aver voluto uccidere i
propri figli. Non potevo credere che una guaritrice, un'esperta di magia, originata
da antichisismi strati del mito, dai tempi in cui i figli erano il bene supremo
di una tribù, doveva uccidere i propri figli.
Medea e gli altri personaggi
del romanzo raccontano il momento del trapasso da una cultura matriarcale a una
cultura patriarcale.
La figura di Medea diventa
occasione per una riflessione sulla 'diversità' femminile. La cultura della
maga della Colchide si nutre dei riti misteriosi del corpo e della fertilità: è
una cultura matriarcale che rifiuta la violenza, proprio perché legata ai
valori 'femminili' del concepimento e del parto.
Alle domande ignare di
Medea cercai di spiegarle che Creonte in quanto re non è Creonte o un qualunque
altro uomo, non è affatto una persona, ma una carica, appunto il re.
Ciò che era utile non
doveva necessariamente essere buono.
Buono era ciò che favoriva
il dispiegamento di tutto l'esistente. Dunque la fertilità, dissi.
Legata a una cultura del
corpo, alla visione di un'esistenza immersa nella realtà organica della vita,
Medea non riesce a comprendere come un uomo possa essere trasformato in
simbolo, divenire - in altri termini - qualcosa di altro da sé, qualcosa di diverso
dalla naturale espressione degli affetti, del calore e delle emozioni che ne
determinano la persona.
La riduzione della realtà
magmatica e varia ad un ordine (razionale?) appare come la negazione del
«buono» che, per la cultura di Medea, coincide con il «dispiegamento di tutto
l'esistente».
Libera espansione vitale, la
cultura di Medea non può che appoggiarsi sui valori (femminili) della fertilità
e - per conseguenza - del rispetto della vita, nel rifiuto della violenza e di
ogni pretesa di imporre un ordine alle cose che voglia semplificare la
molteplicità che le caratterizza.
...la negazione sistematica
delle infinite modulazioni della vita,
costretta all'ordine
unidimensionale di un sistema di valori (il potere; la ricchezza; la gerarchia
sociale) rigido.
Il delitto che fonda il
potere
Il racconto di Acamante -
utilizzando il privilegio del racconto mitico di condensare in un evento un
messaggio di alto valore simbolico - descrive una sorta di momento fondativo
del potere e della violenza gestita dalle pubbliche istituzioni. Il passaggio
dal mondo primitivo (alla cui profondità ancestrale appartiene Medea) a un
sistema socio-politico più organizzato, implica l'imporsi di un'organizzazione,
di una mentalità pragmatica e organizzata, che sembra preludere alla
progressiva perdita di valore della vita e dell'esperienza del singolo, a
favore dell'efficacia razionale del sistema. Alla partecipazione commossa per
ogni forma di vita che caratterizza la sensibilità primitiva, si sostituisce un
estinguersi della pietà destinata ad essere tanto più marcato quanto più
il 'sistema' sociale sarà complesso, e rigidamente regolato dalla prassi, dalla
logica imposta dalla tecnica. Le parole di Acamante che concludono il brano
proposto escludono l' ingenua nostalgia per un eden perduto. Uomo di potere e
intellettuale (meglio diremmo: tecnocrate) Acamante avverte con dolorosa
consapevolezza la forza ineluttabile della realtà, l'impossibilità di
ribellarsi al «corso del tempo».
Se il superamento del passato
significava, fino
all’89, prendere le distanze
dal nazismo, dagli anni ‘90 in poi passa a significare,
nella Germania unita,
prendere le distanze dall’esperienza socialista dell’ex Ddr.
Germania divisa (Colchide =
Est, Corinto =Ovest)
Il volto di qualsiasi potere,
la questione della propria identità, la ricerca di un capro espiatorio per
giustificare la propria storia.
...i problemi
dell’integrazione tra cittadini dell’Est e delI’Ovest la ossessionavano, mentre
alla mente le si ripresentava la figura di una Medea grande e perdente, in
nessun luogo e in nessun modo mai integrata.
«Il passato non è morto; non
è nemmeno passato. Ce ne stacchiamo e agiamo come se ci fosse estraneo.»
(Christa Wolf, Trama
d'infanzia)
La sua Medea non è divina,
non è maga, non ha ucciso nessuno: non coincide con quella di Euripide, ma
neppure con quella delle versioni più antiche.
Medea é straniera ed
intellettuale, moralmente perseguitata ma capace di trovare autonomia di parola
e libertà di espressione.
“Tutti i crimini che ho
commesso fino ad oggi siano ritenuti atti di pietà... Ora sono veramente Medea,
la mia indole si è accresciuta grazie al male”
Quidquid admissum est adhuc, pietas vocetur... Medea nunc sum; crevit ingenium malis
“Tutto ciò che ho praticato
finora, lo chiamo opera d’amore... Medea sono adesso, cresciuta è la mia natura
grazie alla sofferenza”.
“Va’ per gli spazi alti del
cielo ad attestare che non ci sono dei là dove tu passi”
Per alta vade spatia
sublimi aetheris, testare nullos esse, qua veheris, deos.
Medea è una peregrina, che
gli dei non assistono.
essere costretta a
procedere
Medea segue Merope per
scoprire, dietro di lei, un segreto che in fondo conosce da sempre: ogni potere
fonda se stesso sul crimine.
“scrivere è punto cieco
d’ogni ricerca, d’ogni interrogazione di fronte ai lati dell’esperienza di
vita…è discesa...per vedere in faccia l’orrore e cercare di tornare in
superficie col gusto rinnovato dello stare in vita, malgrado tutto”
C’è una terra dell’oro in
senso metaforico, che è Colchide, e una terra dell’oro in senso monetario, che
è Corinto: nella Coichide c’era l’oro. Vero oro.
Corinto è ossessionata dalla
brama dell’oro...
E la cosa che ci sbigottì di più:
il valore di un cittadino di Corinto si misura della quantità di oro che
possiede.
Vi è poi la chiave di lettura
divulgata dai media all’indomani del pubblicazione del romanzo: l’allegoria
della società tedesca post-unitaria cui si è già fatto cenno, con tutte le
possibili polemiche nei confronti del processo di integrazione tra tedeschi dell’est
(Colchi) e dell’ovest (Corinzi). Si tratta di lettura riduttiva, finalizzata
forse qualche anno fa alla diffusione dell’opera. Dove non sono contrapposte
una Colchide dai solidi valori ed una Corinto capitalista, dal momento che
entrambe appaiono colpevoli: la Colchide è una terra piena di morti e di
sangue, terribile quanto la Grecia.
“Dicono di Medea che ha
ucciso i suoi due figli: ma non è vero, glieli hanno uccisi quelli di Corinto.
Dicono che era gelosa di Giasone, ma non è vero, amava riamata un altro. Dicono
che ha ucciso la nuova sposa di lui, Glauce, ma non è vero, la ragazza si è
gettata nel pozzo. Dicono che aveva ucciso il fratello, Absirto, ma non è vero,
lo aveva ucciso il padre per impedirgli di succedergli. Dicono che è una maga,
ma non è vero, aiuta i malati a guarire. Dicono che è libera, selvaggia,
indomita, straniera.
Soltanto questo è vero.
A distanza di pochi anni,
l’opera della Wolf appare più ricca e complessa rispetto a come fu recepita nel
1996, e ancora nel ‘97,quando fu conferita alla scrittrice la laurea honoris
causa dall’Università di Torino (26/5). I problemi ed i fantasmi che in parte
la hanno nutrita, in parte offuscata, sono lontani. Essa si impone oggi come un
testo innovativo, che nel nuovo millennio darà certamente adito a ulteriori
dibattiti.
“In Colchide? Mi illudo se
dentro di me insisto che là era diverso? Come
ultimamente io mi eserciti a
rievocare il ricordo della Colchide, a riempirlo di colori, come se mi
rifiutassi di assistere semplicemente allo svanire della Colchide, dentro di me.
O come se ne avessi bisogno, non so a che scopo... Ma il confìne del mondo è la
Colchide. La nostra Colchide alle propaggini meridionali del Caucaso selvaggio,
il cui erto profilo montuoso è inscritto dentro ciascuno di noi, lo sappiamo
gli uni degli altri, non ne parliamo mai, parlarne accresce la nostalgia fino
all’intollerabile. E tuttavia io lo sapevo che non avrei mai cessato di provare
nostalgia della Colchide, ma che significa sapere, è impossibile presagire
questa pena che non si placa mai, che consuma sempre, noi Colchi ce la leggiamo
negli occhi quando ci incontriamo per cantare le nostre canzoni e raccontare ai
giovani che stanno crescendo le storie dei nostri dei e della nostra stirpe,
che alcuni di loro non vogliono più udire perché ci tengono a passare per veri
Corinzi”
“frammenti del passato”
...ciascuno fu costretto a
conformarsi
“Noi in Colchide eravamo
vivificati dalle antichissime leggende secondo le quali il nostro paese era
governato da regine e re giusti, abitato da persone che vivevano in armonia e
tra le quali la proprietà era distribuita così equamente che nessuno invidiava
l’altro o attentava ai suoi beni o addirittura alla sua vita. Nei primi tempi a
Corinto, quando io, ancora inesperta, raccontavo questo sogno dei Colchi, sul
viso di chi mi ascoltava appariva sempre la stessa espressione, incredulità
mista a compassione, infine tedio e avversione, così che rinunciavo a spiegare
che a noi Colchi quell’ideale stava così tangibilmente davanti agli occhi che
lo prendevamo a misura della nostra vita”.
Tre caratteristiche di
Euripide: l’orgoglio, l’isolamento e l’essere portatrice di un problema che non
consente risposte.
Dihle vede tre configurazioni
in tre filoni principali entro il Fortleben di Medea: quello della
creatura demonica, quello del conflitto tra culture, quello della donna
innamorata che si vendica per gelosia (Dihle, 1976: 176-178). Negli ultimi
decenni sembra essersi aggiunto quello della donna perseguitata ed emarginata,
per nulla sovrumana, non innamorata né infanticida.
Medea, come in Euripide, è
isolata, vittima di un processo di emarginazione da parte dei Corinzi, di
Creonte e dei suoi. In più l’isolamento, qui, va di pari passo con un processo
di autoisolamento da parte di qualcuno che basta a se stesso.
“Era una bella mattina. Un
sogno dissoltosi al risveglio aveva aperto una chiusa, mi era affluito dentro
un senso di benessere, senza motivo, sempre così. Buttai indietro la pelle di
pecora sotto cui ho sempre dormito da quando sono andata via dalla Colchide,
balzai su dal mio giaciglio, il freddo dei pavimento d’argilla mi diede una scossa”
Tanto nella Medea di
Pier Paolo Pasolini quanto in quella di von Trier, la condizione di solitudine
della protagonista si deduce (anche) dal luogo dove è relegata, una casupola in
entrambi i casi, lontanissima da palazzo nel secondo dei due film. Anche le
messinscena degli ultimi anni insistono su questo punto: Medea vive in un container
oppure in una sorta di buca scavata nella viva terra. In Anouilh confinata in
un carrozzone da zingari, naturalmente fuori da Corinto. Nel XX secolo generalmente
si sottolinea la distanza tra Medea barbara e Giasone civile: la catapecchia
assegnata dai Corinzi alla figlia di re è segno concreto del disprezzo e dell’emarginazione.
...lei portò via quasi con
sollievo le sue cose, non era granchè.
Medea è orgogliosa, ma il suo
è un orgoglio al positivo, che permette alla donna di bastare a se stessa.
“...aveva perso ogni misura
anche Medea. Smodata era alla fine, proprio quale serviva ai Corinzi, una
furia. Come irruppe nel tempio di Era, i pallidi spauriti ragazzi per mano, e
spinse da parte la sacerdotessa che le sbarrava la strada, come condusse i bambini
all’altare e urlò rivolta alla dea quella che somigliava più a una minaccia che
a una preghiera: doveva proteggerle i bambini, visto che lei, la madre, non era
più in grado di farlo.”
In quale luogo, io? È
pensabile un mondo, un tempo, in cui io possa
stare bene? Qui non c’è
nessuno a cui lo possa chiedere. E questa è la
risposta”.
L’insistenza sui termini che
indicano barbarie e selvaggeria è tanto più notevole in quanto la Wolf, a
parole, volle prenderne le distanze, ben conscia del fatto che la connotazione
è in primis euripidea: “Si era nel pieno della guerra del Peloponneso…
Atene aveva davvero la necessità di emarginare gli stranieri, di stabilire
rispetto loro un confine. In nessun altro dramma imperniato sulla figura di
Medea ricorre così spesso il termine di barbara, come invece accade, in senso
negativo, per Euripide”.
Alla fine la Medea creata da
Christa Wolf si colloca in una dimensione di
acronia, si carica delle
domande e dei problemi senza risposta accumulatisi dai Greci in poi; esiste
oggi, una risposta?
In comune con Euripide vi è
ancora un elemento: non viene a conoscenza del destino di Medea. Si sa che si
salva, ma non come e dove; va verso un altrove, e questo è tutto.
In Euripide Medea è salvata
da un dio; perché? Nella Wolf, Medea degli dei ride, per lei non sono mai
esistiti - Non posso che ridere.
“Non posso che ridere. Adesso
gli sono superiore. Dovunque mi frughino, coi loro arti crudeli in me non
troveranno traccia di speranza, di paura. Niente di niente… Sono libera.”
Vi sono tasti su cui la Wolf
insiste particolarmente. Uno è il “selvaggio”, collegato a Medea e al suo mondo,
un altro è la capacità non comune della donna di reagire con calma e freddezza
agli eventi.
“Non sono più giovane, ma pur
sempre selvaggia, lo dicono i Corinzi, per loro una donna è selvaggia se fa di
testa sua.”
“Non sono più giovane, ma pur
sempre selvaggia, lo dicono i Corinzi, per loro una donna è selvaggia se fa di
testa sua.”
“Nel selvaggio oriente anche
le bestie sono indomabili e terribili…”
“Ma per favore, Giasone, in
fin dei conti sono dei selvaggi.
“Mi lasciai incitare dalla
musica selvaggia dei suoi tamburi…”
“Portava per la città i suoi
capelli selvaggi come un vessillo…”
“una donna che, con urla
selvagge, getta contro vento, in mare, le ossa di un morto…”
“la paura di se stessi, la
paura che li rendeva così selvaggi su cosa si
spettegolasse di più se non
sulla donna che essi chiamavano la bella selvaggia…”
“Mi dissi, io sono Medea la
maga, se è questo che volete. La selvaggia...”
“e cominciammo la nostra
danza, che divenne sempre più selvaggia...”
Vi è un forte iato, in questo
senso, tra oriente ed occidente: Medea, che appartiene all’est, continua ad
essere vista, una volta espatriata, come una barbara, una selvaggia. L’aggettivo
“selvaggia” è tempestosamente presente, ad accompagnare gesti e situazioni:
sono selvaggi i capelli, l’oriente, le urla, le notti di festa o di danza, la
straniera. Medea però conosce anche l’autocontrollo, la tranquilla lucidità
(una dote che dovrebbe connotare i Greci).
Dunque non c’è da un lato la
violenza degli affetti (i primitivi), e dall’altro la meditata riflessione (gli
esseri civili), non esiste una dicotomia in Medea, in essa convivono opposti
sentimenti.
Nella Wolf ella non
giganteggia statuaria, capace di scegliersi un itinerario di male; è invece una
donna alla quale sono state tolte tutte le illusioni, che non cede alla paura né
alla stanchezza. Porta con sé il bisogno di un’intesa, di una fratellanza tra
uomo e donna, di un colloquio paritario. Non sogna davvero un Eden perduto.
Aspira a un bene comune che sarebbe
realizzabile. Molto prima delle battute finali sopra citate, la Wolf
avverte che gli interrogativi non vengono risolti, che non esistono certezze.
“Non avrei dovuto lasciare la
Colchide. Non aiutare Giasone a conquistare il Vello. Non persuadere i miei a
venir via. Non sottopormi a quella lunga brutta traversata, non passare tutti
questi anni a Corinto come una barbara mezzo temuta, mezzo disprezzata. I
bambini, si. Ma che cosa troveranno loro. Su questo disco che chiamiamo terra
non esistono più, mio caro altro che vincitori e vittime. E che cosa troverò
io, ora vorrei sapere, quando verrò sospinta oltre il suo bordo”
“mi cautelo prima che mi
succeda qualcosa”
Niente ho voluto di tutto
quel che è accaduto. Ma cosa avrei potuto fare.
La vera passione di Medea, si
è detto, sta nella brama di indagine, nel desiderio inesausto di cercare e di
capire; sta anche nel desiderio vivo di partecipare alle relazioni, ai
problemi, ai casi altrui, in una città votata alle distruzioni, carestie,
morti.
“Mi teneva strettissima, lo
ricordo ancora, mi parlava piano, quando ci avvicinammo a quel posto e le mani
mi divennero umide e i piedi si puntarono contro il suolo, mi acquietò con le
sue parole, no, fu più che acquietamento, fu uno dei suoi giochi di prestigio,
adesso me ne rendo conto, perché all’improvviso non percepii niente più che un
grande silenzio, e quando i suoni ritornarono sedevo accanto a lei sulla panca
di pietra all’altra estremità
del cortile del palazzo, all’ombra del vecchissimo ulivo, dovevo dunque aver
camminato, dovevo aver oltrepassato quel posto senza piombare nello stato che
temevo tanto, quasi mi sembrava di doverlo recuperare, perché tutto fosse in
ordine, ma lei disse che ora non era più necessario, mi mise la testa sul suo
grembo, mi accarezzò la
fronte e parlò piano della bambina che un tempo ero stata e che un ricordo
intollerabile legava a quel posto nel cortile, un ricordo che avevo dovuto
dimenticare, cosa normale, per poter sopravvivere, anche se nella testa della bambina
no, lì le cose dimenticate erano cresciute mentre diventava grande, una macchia
scura che aumenta, mi capisci Glauce, fino a impossessarsi della bambina, della
fanciulla, ah, la capivo, la capivo fin troppo bene, lei mi gettava la corda, dovevo
calarmi appesa alla sue domande, voleva condurmi davanti ai posti pericolosi dove
da sola non riuscivo a passare, voleva rendersi insostituibile, avrei dovuto capirlo.”
La serie di monologhi
affidata a personaggi differenti acquista facilmente collocazione
drammaturgica, sottolinea le difficoltà di dialogo tra interlocutori che hanno
ognuno una propria versione di una storia.
GIASONE: Argonauta, capitano
dell’«Argo».
AGAMEDA: Della Colchide. Un
tempo allieva di Medea.
ACAMANTE: Di Corinto. Primo
astronomo del re Creonte.
LEUCO: Di Corinto. Secondo
astronomo del re Creonte.
GLAUCE: Di Corinto. Figlia
del re Creonte e di Merope.
Le domande hanno perso senso
strada facendo.
Siamo noi che ci degniamo di
scendere fino agli antichi, sono loro che vengono a noi? Fa lo stesso.
La donna selvaggia.
l’intera Colchide era piena
di oscuri segreti, e quando io arrivai qui a Corinto, profuga nella
scintillante città del re Creonte, pensai con invidia: costoro non hanno
segreti. E loro stessi ne sono convinti, è questo che li rende così persuasivi,
ti trasmettono quest’idea con ogni sguardo, con ciascuno dei loro movimenti
misurati: ecco, esiste un luogo al mondo dove l’essere umano può essere felice,
e solo in seguito mi resi conto che se la prendono molto se metti in dubbio la
loro felicità.
«Come accade la vita? È
una questione di cui mi sono proccupata presto. La vita è identica al tempo che
passa ineluttabilmente e tuttavia misteriosamente? Mentre scrivo questa frase,
passa del tempo; contemporaneamente inizia – e passa – un minuscolo pezzo della
mia vita. [...] Strano allora che non riusciamo a coglierla. Sfugge all’occhio
che osserva, anche alla mano che annota diligente».
C. Wolf, Un Giorno
all’anno. 1960-2000, e/o, Roma 2006
“Nessuno scrittore è in
grado di restituire la consistenza reale della vita vissuta”
...niente andrà secondo i
piani. Meglio dunque arrendersi al movimento casuale di ciò che accade.
“Seguita a spaventarmi la
quantità di cose che dimentichiamo se non si annota tutto” continua Wolf “e la rapidità con cui succede.
D’altra parte: fissare tutto è irrealizzabile: bisognerebbe smettere di vivere”.
Il racconto nasce per
rispondere all’iniziativa del giornale Moscovita Isvestija che invitava
gli scrittori di tutto il mondo a «descrivere con la maggiore esattezza
possibile una giornata di quell’anno, e precisamente il 27 settembre». Ma la
maggiore esattezza possibile fino a che punto si può spingere?
la lingua è sempre
l’espressione di una percezione del mondo
Se cambia il mondo deve
cambiare anche il linguaggio
“A intervalli regolari che
sembrano abbreviarsi, il nostro udito, la vista, l’olfatto, il gusto si
comportano diversamente da quanto avveniva poco tempo prima.
Nel modo di avvertire il mondo circostante si è verificato un mutamento che
giunge a sfiorare l’intangibilità del ricordo; ancora una volta vediamo
il mondo - ma cosa significa il mondo? - sotto una luce diversa.
I vincitori possono dare
libero corso ai loro sentimenti, gli altri, I vinti, devono tenerli chiusi
dentro di sé.
“col suo culto superstizioso
del risultato misurabile”
...appartenenti in ogni
caso a una cultura di second’ordine.
Ma invece di cercare a tutti
i costi di integrarsi nell’aberrazione dei sistemi dominanti, prendono la
parola e scrivendo e vivendo “puntano all’autonomia”. La presa della
parola, la creazione di un linguaggio proprio, costituiscono il movimento
fondamentale per la libertà.
Ferite
Nel 1973 Ingeborg Bachmann muore, a Roma, per le conseguenze delle ustioni riportate nel corso di
un incendio nella sua casa di via Giulia. Quando tre anni dopo Wolf pubblica Trama
d’infanzia, pone come epigrafe del Capitolo 8 un verso della poetessa che
recita: “Con la mia mano bruciata scrivo del fuoco”.
Riferimenti, citazioni, riflessioni su Bachmann percorrono tutti i racconti, i
romanzi e i saggi di Wolf, ma questo colpisce particolarmente. Per scrivere del
fuoco bisogna ustionarsi. La lingua passa ancora dal corpo e dalle sue
ferite.
Rahel Varnhagen, animatrice
di uno dei salotti del romanticismo tedesco. “Sono convinta che essere
feriti là dove siamo più sensibili e dove ci è più insopportabile faccia parte
della vita: l’essenziale è come ne usciamo”.
Unter den Linden è un'espressione tedesca che
significa "sotto i tigli". Si riferisce a un viale di
Berlino che ospita alcuni dei monumenti più importanti della città.
La strada reale Unter den
Linden, che attraversa Berlino da est a ovest, si trasforma in un doppio
onirico. Come succede spesso nei sogni, i piani si confondono, e momenti di
lucidità si alternano ad altri di totale spaesamento. C’è una ragione per cui è
lì, qualcuno lo ha richiesto, ma non sa molto di più. In ogni caso la
protagonista va avanti, sapendo che “Ogni mondo ha le sue regole, bisogna
muoversi in quelle regole”.
L’unico modo giusto per
attraversare il sogno è con l’atteggiamento spensierato del bambino nelle
favole.
La ferita per rimarginarsi
esige una ricomposizione, un attraversamento del dolore.
Tutt’a un tratto capii:
quella ero io…Ora tutto mi si chiariva di colpo. Dovevo ritrovare me stessa:
era il senso della convocazione. Cellula dopo cellula il mio corpo si riempì di
nuova gioia. Una quantità di vincoli mi abbandonò per sempre. Non c’era infelicità
che avesse impresso il suo sigillo una volta per tutte sulla mia fronte. Come
avevo potuto essere così accecata da sottopormi a una sentenza sbagliata?
Leuco, alto, snello, piuttosto
maldestro, dal cranio ovale, che sta allo scherzo ma non è in grado di
scherzare a sua volta.
Non sono più giovane, ma pur
sempre selvaggia, lo dicono i corinzi, per loro una donna è selvaggia se fa di
testa sua. Le donne dei corinzi mi sembrano animali addomesticati, resi con
cura mansueti, e mi fissano come un’apparizione estranea, noi tre allegri
all’estremità del tavolo attiravamo tutti gli sguardi, tutti gli sguardi
invidiosi e sdegnati della società di corte e anche, ebbene sì, quelli
imploranti del povero Giasone.
...non c’è posto che offuschi
la nitidezza della percezione quanto un posto al seguito del re.
...il magnifico luminoso
palazzo del re Creonte edificato ancora una volta specularmente sopra l’abisso,
sull’oscurità.
La città ha fondamenta sopra
un misfatto.