giovedì 12 agosto 2021

Primo Levi «Dal fascismo ad Auschwitz c’è una linea diretta»

 

Primo Levi «Dal fascismo

ad Auschwitz

c’è una linea diretta»

 

l colloquio

L’intervista ritrovata

Il grande scrittore in una conversazione inedita del 1973

con un giovane studente. «Oggi “Se questo è un uomo”  lo riscriverei

completamente, per mettere in luce le responsabilità italiane nella Shoah»

Lo scrittore Primo Levi

 

Primo Levi, come mai ha voluto

scrivere «Se questo è

un uomo»?

«Perché ero appena ritornato

dalla prigionia,

e avevo un tremendo bisogno di

raccontare queste cose, un bisogno

che diventava ossessione.(…) Nel

lager cercavo di immagazzinare

tutto, di mettere tutto in una specie

di tasca».

Allora vedevi già con un occhio più distaccato

quel che ti succedeva...

«No, non era possibile. Nel lager

c’era il problema di sopravvivere.

Sì, avevo una vaga idea di sopravvivere

per scrivere, questo sì, mi ricordo

di averlo detto a qualcuno.

Addirittura quando ero in laboratorio

e avevo una matita e un quaderno

ho scritto qualche pagina».

Che poi hai perso...

«L’ho persa, l’ho scritta così, per

l’urgenza di scrivere, sapendo benissimo

che poi l’avrei persa».

Certo.

«Ma era molto importante per me

allora la possibilità di diventare un

testimone, lo sentivo già allora.

Non solo io, ma un po’ tutti, tutti

quelli con cui si parlava dicevano:

“È importante sopravvivere per poterlo

raccontare perché il mondo le

sappia queste cose”. Avevamo piena

consapevolezza: però non è che

questo ci permettesse di fare gli

esploratori del lager.Non era possibile,

c’erano questioni immediate,

come quello di trovare un pezzo di

pane, di proteggersi, di aver salva

la vita. Quindi io e altri immagazzinavamo

tutto voracemente, tutte

le esperienze. Anzi, ci interrogavamo

a vicenda per sapere ciascuno

la storia degli altri. Ed effettivamente

cadevano su un terreno buono,

perché queste cose sono indimenticabili.

Io ancora adesso mi ricordo

le facce di gente vista

trent’anni fa».

Le facce?

«Le facce. Tanto che quando mi è

successo, come mi è successo, di ritrovarne

qualcuno, l’ho subito riconosciuto,

e lui me. Ho riconosciuto,

ho ritrovato Pikolo, quello del

canto di Ulisse... Jean...»

E questa discussione su Ulisse, si è

svolta veramente?

«Non c’è niente di inventato nel libro.

Non c’è nulla di inventato. non

una parola.(...) L’unica autocritica

che potrei fare è quella che non ho

messo in luce abbastanza questa

validità politica del libro».

Parli di “Se questo è un uomo”?

«Se non lo avessi scritto allora lo

scriverei adesso».

Ma lo scriveresti con le stesse intenzioni?

«No».

Come un documento?

«No: lo scriverei, in primo luogo,

con lo stile di un uomo che ha

trent’anni di più, e trent’anni di più

vogliono dire molta esperienza in

più e molta vitalità in meno. Quindi

non so cosa verrebbe fuori: verrebbe

fuori una cosa completamente

diversa. Soprattutto però lo scriverei

oggi con riferimento preciso

al fascismo di oggi che nel libro non

c’è. Quando ho scritto Se questo è

un uomo il fascismo era finito, non

c’era più, era chiaro come il sole

che non c’era. Era finito di fatto, era

stato sepolto, come partito politico

non c’era né in Italia né in Germania.

Ma se lo scrivessi oggi... userei

il mio libro come uno strumento».

Lo strumentalizzeresti, diciamo…

«Sì, già lo userei come strumento.

Lo faccio quando vengono i ragazzi

a parlarmi. Tendo a mettere in chiaro

che c’è una linea diretta che parte

dalle stragi di Torino del ’22,

Brandimarte (capo delle squadre

d’azione fascista: è lui a guidare la

strage che a Torino, il 18 dicembre

del 1922, porta alla morte di 14 antifascisti

e alla distruzione della Camera

del Lavoro. Nel novembre del

1971, al funerale, un reparto di 27

bersaglieri del 22° reggimento fanteria

della divisione Cremona, al comando

di un ufficiale, rende gli

onori militari alla sua salma, ndr),

e finisce ad Auschwitz. C’è una continuità

abbastanza evidente».

Sì, c’è una continuità, ma hai detto che

lo sterminio riguardava i tedeschi,

no?

«Stiamo parlando di qualcosa che

è stato inventato in Italia e perfezionata

in Germania»

Ah! è stata inventata in Italia…

«Le prime stragi fasciste sono italiane...

sono torinesi».

Pensavo che…

«Lo sterminio industriale è tedesco.

Ma la violenza a scopo politico

in questo secolo è un’invenzione

italiana».

Ho capito.

«Il fascismo è un brevetto italiano,

eh!»

Purtroppo...

«Torinese, voglio dire. Insomma la

strage del ’22…. Era una caccia,

una caccia per le strade. Non so se

hai letto qualcosa in proposito...».

Sì, qualcosa...

«Brandimarte (...), è morto nel suo

letto (...).È stato assolto per insufficienza

di prove».

Sì, ma c’è tanta gente ancora che gira...

«Sì, veterani».

Sì, sì.

«Federali. Capi di gabinetto, capi

giunta, Almirante: appunto, se scrivessi

oggi, metterei più in chiaro

questa cosa (...).Quando ho scritto

Se questo è un uomo ero convinto

che meritasse la pena di documentare

certe cose perché erano finite.

Adesso non sono più finite, bisogna

parlarne di nuovo».

Allora diciamo che lo scriveresti sotto

un profilo meno scientifico, più...

«No, penso che non toglierei niente,

però aggiungerei molto».

Ah! capisco, e perché non lo fai?

«Perché non si può scriveredue volte

lo stesso libro. (...) Come ti dicevo

prima, che c’è una linea diretta

fra Brandimarte e Auschwitz. Questa

linea non finisce ad Auschwitz,

continua in Grecia, è continuata in

Algeria con i francesi. È continuata

in Unione Sovietica, puoi dire di

no?» (...)

Aproposito di “Se questo è unuomo”

e di “La tregua”: credi che servano,

diciamo, per educare ad una certa coscienza?

«Dipende dall’insegnante. Il fatto

stesso che venga scelto quel testo,

testimonia che l’insegnante

ha delle buone intenzioni, cosa

poi ne nasca non so dirtelo. Ho

l’impressione che in generale -

perché vengono molti ragazzi

qui, o mi telefonano per avere delle

informazioni - che queste cose

vengono sentite, appunto, come

passato remoto, una cosa un capitolo

arcaico,comei garibaldini insomma,

come la rivoluzione francese,

una cosa molto, molto lontana.

Infatti è abbastanza lontana

nel tempo, ma... solo nel tempo è

lontana»... (...)

Con che spirito l’hai scritta “La tregua”?

«Ho scritto La tregua nel ‘61-‘62

quando era appena crollato il mito

della Russia monolitica, della

Russia paese del socialismo, della

Russia perfetta, paradiso secondo

i comunisti e inferno secondo

gli americani, o secondo i nostri

democristiani. Erano due visioni

talmente manichee, talmente assurde,

sia l’una sia l’altra, che mi

sembrava molto importante raccontarla

così come io l’avevo vista».

 

 

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