Chandra
Candiani, se il primo esercizio è vivere
GEOGRAFIE
SENTIMENTALI. Una
intervista a proposito della sua nuova silloge in versi «Pane del bosco»,
pubblicata da Einaudi. Sabato l’autrice sarà ospite di Torino Spiritualità che
si apre oggi. Tema di quest’anno è «Agli assenti». «Quando stavo a Milano, se
mi sentivo intimorita o a disagio, per esempio in metrò, facevo un piccolo
gesto segreto per chiamare il lupo al mio fianco destro e il puma al sinistro.
L’immaginario femminile è un luogo abitabile, è costruzione di mondi dove
ricaricarsi, si fa tappa nella notte del mondo, si sente compassione, sacra
ira, urlo e cucitura»
Chandra Candiani
/ foto di Melina Mulas
Nuovo!
«Sia alto il tuo
cuore». Scrive così Chandra Candiani nel suo Pane del bosco (Einaudi,
pp. 140, euro 12,50), ultima raccolta in versi composta di poesie dal 2020 al
2023. L’esortazione tuttavia arriva da un ontano bianco, un albero che grida
mentre qualcuno corre via da un aggressore meschino e privo di lealtà. Come
spesso accade leggendo Candiani, poeta milanese che di recente ha scelto di
lasciare la sua città natale per trasferirsi in una casa tra i boschi su un
alpeggio piemontese, la realtà è un
esercizio di visione e ascolto, di connessione e attenzione.
Se nel libro precedente, le favole
di Sogni del fiume, abbiamo osservato quanto la soglia
dell’impossibile riesca a convocare l’essenziale, è nelle altre sillogi (in
particolare da La bambina pugile a Fatti vivo) e
nelle sue meditazioni (Il silenzio è cosa viva e Questo immenso
non sapere) che abbiamo inteso quanto Candiani abbracci la molteplicità dell’abitare
questo mondo, anche quando è già (e sempre) un altro.
Sabato 30 settembre l’autrice sarà ospite di Torino Spiritualità (Teatro
Gobetti, ore 17) in conversazione con Armando Buonaiuto, curatore del festival
(la nuova edizione si apre oggi per proseguire fino a domenica).
«Pane del
bosco» ci orienta nei sentieri della sua poetica che tiene per mano la natura e
le sue creature. Prima di tutti gli incontri, ci sono però il bosco e il pane
che sembrano suggerire il ritorno a un luogo originario e di nutrimento che si
scopre con la meraviglia della prima volta. Che inizio è stato?
L’inizio di una nuova fase della vita, la vecchiaia, che è infanzia della mente
e stanchezza del corpo. Dispormi al bosco, al trasferimento in un luogo
imprevedibile, alla mia età, faceva stupire tante persone, perplesse ma anche
preoccupate. Ma io, senza saperlo, cercavo un posto dove morire non fosse
tragedia, ma abbandono. La mente perde convinzioni arrugginite qui, idee
solidissime si sgretolano, ma non si tratta solo dell’immersione in un luogo
che degli umani se ne infischia, è anche l’entrata nella vecchiaia. Ho voglia
di aprire le mani, di lasciar andare la rigidità delle opinioni, di scorrere.
Mi dispongo a un nutrimento che è disintossicazione dall’abituale e
dall’aggressività mascherata d’altro che percepisco fortemente nel mondo. Qui
tutto è diretto, solo quello che è. Così la vecchiaia: ogni ruga un tracciato,
ogni dolore una storia, ogni gioia un abbandono all’attimo.
Molte sono le
cose che accadono a «Lei» che fa il suo ingresso in un bosco, per esempio perde
il nome e anche quando dice «Io» o «Tu» si rivolge al circostante in un dialogo
tra differenze. Quella perdita non è allora una rinuncia bensì una rinascita
che spiega bene nella poesia «Essere amata da un bosco». Che apprendistato è il
tempo di questo amore ricevuto?
«Lei» mi ha anticipato nel primo bosco dove ho vissuto per tre anni, un bosco
vicino a un paese, meno assoluto di questo dove vivo ora. «Lei» è quella parte
del femminile che vive da sempre nelle selve e non le lascia mai. È stato un
apprendistato all’estraneità vissuta con cuore e corpo aperti. Mi sono affidata
a Lei che conosce da sempre le piante, sa gridare ai tori, accarezzare gli
asini, schivare le domande moleste degli umani: «Lei è di qui?» «No, sono di
là». Non ero capace, come tante e tanti, di ricevere, non capivo cosa fare in
un bosco, cosa dare e prendere. Dovevo «lasciare i sapienti,/ zoppicare e
balbettare». Ho tolto e tolto, è rimasta l’apertura della pelle e dell’anima a
quel che c’è. Togliersi è un grande passo per esserci. Perdere il desiderio di
piacere è una libertà meravigliosa e il morso di un asino te lo insegna fino
alle ossa.
Animali,
alberi, bambini intravisti nell’arco di un anno diviso per stagioni che
dall’estate arriva alla primavera. È un popolo intero che abita la gratitudine
di attraversare la terra, i fiumi, le foglie, le voci più indistinte. Ci sono
api, libellule simmetriche, rondini, gatti e altri esseri ancora. La raccolta
si apre però con la regalità di un puma e di un lupo. E di quest’ultimo ha già
scritto perché molto le sta a cuore. In che modo il lupo le è stato accanto?
Cosa dice di lei e del suo legame con la poesia?
Quando vivevo a Milano, se mi sentivo intimorita o a disagio, per esempio in
metrò, facevo un piccolo gesto segreto per chiamare il lupo al mio fianco
destro e il puma al sinistro. Funzionava sempre. Mi dava dignità e baldanza. Il
lupo mi ha portato il dono della sacra ira, dono di vecchia e di antenate.
L’ira non è la rabbia, nel Buddhismo tibetano esistono divinità irate, sono
guardiani della soglia, protettori. Non ho più voglia di «inghiottire carboni
ardenti» ma nemmeno veleno in carta di caramella, dico ‘stop’ con tutte le mie
forze. Qui l’hanno visto il lupo e mi dispongo all’incontro, inchinandomi a chi
conosce come sopravvivere nell’aperto. Il lupo protegge la mia poesia, non la
vuole rispettabile, né erudita, la vuole cruda e vera. Puma e lupo mi insegnano
ad aspettare la Voce, a non voler dire o scrivere io, ad attenderle le parole
che bussano.
Nel suo
specchio dell’infanzia, le bambine sono protagoniste in alleanza vitale tra
loro. Anche quando ricordano le ferite che le precedono, le scorgiamo in
sodalizio con la forza e la fragilità del mondo e della condizione umana. Non
sembrano sognatrici eppure nei loro pensieri c’è sempre una dimensione
ulteriore, in cui all’insufficienza della realtà, con la sua violenza e la sua
ingiustizia, rispondono con la semplicità dell’amare.
Le bambine sanno amarsi e amare, sanno scegliersi e scegliere, sono bosco.
L’immaginario femminile è un luogo abitabile, è costruzione di mondi dove
ricaricarsi e poi si torna, si fa tappa nella notte del mondo e si sente
compassione, sacra ira, urlo e cucitura, baratro e volo. Ho perso due sorelle e
due amiche in questi trasferimenti da mondo a mondo. Dolore che sbrana ma porta
al fiume del tempo e ci si specchia cambiate e si sa che occorre riconoscenza
per quel che è stato e disponibilità ad avventurarsi in quel che è ora. Sto
cercando di essere la migliore amica di me stessa. Non è facile, sono così
selvatica che scappo anche da me. La poesia di Ida Travi è per me l’opera
magica che mi accompagna in questo trasloco temporale. Nella sua poesia, gli
esseri sono parlanti, portano il peso spaventosamente leggero della parola, e
trasmettono la nostalgia di un quotidiano altrove che è una mappa di mondi da
sempre perduti, non un sentimento. Ho ascoltato l’intervista brevissima a una
donna africana appena ripescata dal mare, una regina di sale. Ha detto solo due
frasi: «Perché non ci salvate? Non avete bisogno di noi?» È la seconda frase
che mi ha toccato fino alle urla del cuore. «Non avete bisogno di noi?» era
stupita. Sì, io sì ho bisogno assoluto di te.
Il tema di
Torino Spiritualità è «Agli assenti». Nelle sue poesie e nelle sue prose
poetiche ha scritto molto riguardo la morte, come di una conversazione perpetua
che lambisce la vita. Ma l’assenza non racconta solo della morte, racconta,
come scrive in «Pane del bosco» del «dolore interrogato», di una crepa che si
apre e in cui si entra. La si assaggia l’assenza, significa «assaporare il
furore dell’abbandono».
Gli assenti non sono gli scomparsi. Sono presenti in un modo altro, sottile,
poetico, da tradurre, briciole di un pane spezzato, nutrimento bruciante che
chiede di abbandonare convinzioni e compiutezze. Niente è compiuto, tutto è in
viaggio e dimorare nel non permanere di tutto e di tutti fa un male
incicatrizzabile ma permette di aprire le soglie dell’Assenza e di farne
Presenza oltre il conosciuto. Ci vuole la magia, se perdiamo la magia per noi è
davvero finita. Impariamo dai felini, basta che passi un gatto dovunque siamo e
tutto il mondo cambia. Il sacro non è solenne, è misterioso, giocoso,
sfuggente, imprevedibile, imprendibile e ci chiede la vita. Tanti hanno creduto
che nel verso di una poesia che parla di «un sorriso invivibile» ci fosse un
refuso per «invisibile» o altro ancora. No, esistono cose «invivibili» perché
ci chiedono la vita, stare senza garanzie davanti al rischio dell’altro. Non
avete bisogno di noi? Sì, ho bisogno di voi. Vi salverò tutte con le mie mani
bucate. E nella testardaggine d’essere incontrerò gli assenti e la morte non
avrà l’ultima parola.
Nella poesia
«Eravamo nessuno» fa un omaggio a Cristina Campo nominando «la tigre assenza».
Cosa la lega a lei?
La sua non compiacenza, la selvatichezza, la solitudine, la differenza di
ricerca, la somiglianza di non placarsi nel trovare, ma nell’andare in cerca di
abissi, sostare sull’orlo e sapere che non ce la faremo mai. Mancheremo sempre
la poesia come manchiamo ogni volta che ci accontentiamo di spiegazioni. Lo
spiegabile non è vivente. Ida Travi: «Fa in modo che le parole non facciano
pensare a una poesia, ma lo siano».
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