giovedì 31 ottobre 2024
martedì 29 ottobre 2024
mercoledì 23 ottobre 2024
lunedì 21 ottobre 2024
mercoledì 16 ottobre 2024
Signore e signori (Talking Heads) Alan Bennett - Appunti
Signore e signori (Talking Heads)
I Monologhi
Il titolo originale dell'opera Talking
Heads, traducibile come "teste parlanti", evidenzia il fatto che
nella produzione originale della BBC l'artista che enunciava il monologo veniva
inquadrato a mezzo busto, e si limitava a raccontare la storia senza ricorrere
a luci, scenografie e costumi.
Le trame sono brevi, drammatiche,
ironiche ed esprimono una realtà quotidiana apparentemente insignificante,
accentuata dalla sceneggiatura minimale.
Temi ricorrenti sono la morte, la
malattia, il senso di colpa e l'isolamento.
I monologhi si ambientano per lo più
a Leeds, anche se Bennett
ha sottolineto che non si tratta della "vera" Leeds, ma una versione
alternativa che esiste nella sua testa, formata da ricordi e posti che nella
realtà non sono mai esistiti o non esistono più.
Trama
·
Una donna come tante
Peggy Schofield si autodefinisce "impiegata
modello" e crede di essere il punto di riferimento per tutti i suoi
colleghi. Improvvisamente la sua salute peggiora fino a richiedere un ricovero
in ospedale: durante la degenza Peggy tenta di ricostruire la sua routine
lavorativa, trattando medici e infermieri come se fossero suoi dipendenti.
Viene presto rivelato da alcuni indizi che la donna era tutt'altro che
apprezzata dai suoi colleghi, i quali odiavano il suo essere ossessivamente
severa e autoritaria; questo aveva spinto il suo capo a licenziarla, cosa che
ha causato il suo tracollo. La malattia peggiora rapidamente, e sebbene tutti
intorno a lei sappiano che non le resta molto da vivere, Peggy continua a
essere convinta del contrario.
·
Una patatina nello zucchero
Graham Whittaker è un uomo di mezza età,
affetto da una cronica depressione, che vive con
l'anziana, dispotica madre Vera; i due hanno un rapporto di interdipendenza,
fatto di piccoli litigi e noiose abitudini. Tutto cambia quando Vera incontra
Frank, un suo fascinoso coetaneo, che comincia a corteggiarla scatenando la
gelosia di Graham. Frank finisce addirittura per chiedere a Vera di sposarlo,
suggerendole di lasciare Graham al proprio destino; questi scopre però che
Frank è sposato con una donna invalida, e per sfuggire alla tristezza del suo
matrimonio si concede spesso avventure con altre signore: Vera non è l'unica ad
aver ricevuto una proposta di matrimonio. Graham, trionfante, corre a
spifferare la verità a sua madre, che però sfoga su di lui tutta la propria
disperazione: nel drammatico litigio che ne consegue, Vera gli rivela di aver
sempre saputo dell'omosessualità che lui si ostina a reprimere,
arrivando a definirlo anormale. Il giorno dopo, tuttavia, Vera sembra aver
dimenticato la faccenda, e i due ritornano alla loro ipocrità normalità.
·
Un letto fra le lenticchie
Susan, la moglie di un vicario anglicano alcolizzata e depressa,
odia il suo vanesio marito e tutta la sua comunità parrocchiale, ipocrita e
perbenista. La svolta arriva quando la donna si concede una relazione
extraconiugale col droghiere indiano Ramesh, che la porta a uscire dalla
sua prosternazione psicologica e a riprendersi rapidamente. Il vicario crede
che la sua guarigione sia dovuta esclusivamente alla preghiera e al suo
supporto; solo Susan saprà la verità, e si scoprirà ancora più forte
nell'apprendere del matrimonio di Ramesh.
·
Una donna di lettere
Irene Ruddock è una donna single della
classe operaia che vive vicino a Bradford e non ha paura
di dire quello che pensa: scrive lettere indirizzate al pubblico ministero, alla polizia, al
farmacista e a chiunque ella creda affetto da "male sociale"; in
realtà, quelli che lei crede amorevoli suggerimenti vengono presi come insulti
da tutti i suoi corrispondenti. Dopo una serie di denunce, Irene viene mandata
in prigione, dove per la prima volta nella sua vita si sente libera e felice,
attorniata da gente in grado di rimediare davvero ai "mali sociali".
·
La sua grande occasione
Lesley è un'aspirante attrice ingenua e svaporata,
che dopo infruttuosi tentativi di lanciare la sua carriera crede di aver
trovato la sua grande occasione grazie all'ambiguo regista Gunther, che le ha
proposto il ruolo di Travis, disinibita protagonista di un film destinato al
mercato della Germania Ovest. In realtà è piuttosto chiaro che quello
girato sia un film pornografico di bassissima qualità, e che pur di
ottenere la parte Lesley abbia dovuto cedere alle avances sessuali di Gunther;
tuttavia, troppo entusiasta per accorgersene, l'attrice crede di aver offerto
la performance migliore della sua carriera, e si ostina ad attendere invano di
essere contattata da registi e produttori di grido.
·
In trincea
Muriel Carpenter si crede una donna
forte: pilastro della comunità, gran benefattrice e volontaria nelle mense dei poveri,
si prende cura di sua figlia Margaret, affetta da problemi psichici,
rafforzando questa convinzione. Quando suo marito Ralph muore, Muriel si
dimostra forte come ci si aspetta da lei; tuttavia, data l'inettitudine (o la
disonestà) di suo figlio Giles, tutto il patrimonio lasciatole in eredità viene
prontamente dissipato. Intanto Margaret migliora rapidamente, lasciando
intendere che il suo distrubo fosse dovuto agli abusi sessuali di suo padre;
abbandonata da entrambi i figli, Muriel si trova improvvisamente sul lastrico e
deve ricorrere alle stesse cure che ella prestava ai poveri. Tuttavia continua
a non perdersi d'animo, e scopre di potersi adattare a qualsiasi evento
nefasto.
·
Una fetta biscottata sotto il divano
Doris è una vedova di settantacinque
anni, ossessivamente precisa e ordinata. La donna ha una brutta caduta e non
riesce ad alzarsi, forse per via di una frattura, e si lamenta delle pulizie
effettuate dalla sua governante Zulema; dai suoi discorsi diventa presto
evidente che il suo costante assillo potrebbe essere stato il vero motivo della
morte prematura del marito. Sola e ferita, concepisce un pensiero che la
terrorizza: l'unico posto che le rimane nella società, ormai, è un ospizio. Per
questo motivo, quando un poliziotto viene a sincerarsi delle sue condizioni, lo
manda via dicendo di star bene. Viene lasciato intendere che di lì a poco Doris
morirà, ma almeno non andrà incontro a un destino da lei stessa ritenuto
terribile.
L’amore ci ha
fatto trionfare (…) come se l’amore fosse un antibiotico ad ampio spettro.
Ciò che emerge è la solitudine dei
personaggi che parlano.
A dover attraversare per forza la
solitudine, meglio sfruttarla. Esattamente come Alan Bennett, scrittore
attore ma soprattutto drammaturgo, che nella sua straordinaria carriera ha
sempre saputo ritagliare un ruolo principale per l’isolamento,
trasformandolo in arte: nessun dolore può risultare intollerabile, da non
poter far ridere, se presentato in un monologo dello sceneggiatore inglese.
Bennett accarezza con empatia e solidarietà, che non ha
eguali, le solitudini di tutti.
Senza gli altri, nella nostra mente da rifugio
eremitico, riusciamo sul serio a capire noi stessi, sembra suggerirci.
«Signore e signori» è una formula
che evoca la noia, e qui c'è sempre e soltanto un signore, o una signora.
UNA DONNA COME TANTE
PEGGY È UNA DONNA DI MEZZA ETA.
PARLA IN MACCHINA, DAVANTI A UN FONDALE
NEUTRO.
Lunedì sono stata bene. Martedì sono
stata bene. E anche mercoledì sono stata bene, almeno fino all'ora di pranzo,
dopodiché il mio caro piccolo trantran se n'è andato a carte quarantotto.
Una volta i tavoli dei dirigenti erano
delimitati dal cordone. Ora non più, ma loro continuano a riunirsi lì. «In
branco stanno più caldi» sintetizza Mr Rudyard.
Chi cresceva in provincia negli anni Quaranta
e Cinquanta imparava presto una lezione preziosa: la vita è una cosa che
succede quasi sempre altrove.
Il giorno dopo è fresca come una rosa.
Tutto dimenticato. O comunque non ne parla; solo mentre uscivano di casa ha
detto: “ Ti voglio bene sul serio, Graham”. “Anch’io ti voglio bene” ho
risposto. E lei: “Tanto, aveva una protesi acustica”. E poi: “Allora, cosa c’è
in programma oggi?”. “Pensavo di fare una capatina a Ripon”. !Oh, si, Ripon.
Carino. Potremmo andare a visitare la cattedrale. Li amiamo i vecchi edifici,
tu e io, vero?”.
Mi ha preso sottobraccio.
Quando sono rientrata Geoffrey stava
uscendo per il Vespro, venivo anch'io? Ho detto di no, e lui: Davvero? Va be', racconterò che
hai mal di testa». Perché? Uno dei grandi misteri della vita, o almeno della
mia vita, è: perché ci si aspetta che la moglie di un vicario vada in chiesa?
La moglie di un avvocato non è tenuta ad andare in tribunale, la moglie di un
attore non presenzia a ogni recita, quindi perché io devo essere sempre in
mostra? Tralasciamo poi la questione più ampia, cioè se una crede in Dio o no.
Si dà per scontato che la moglie di un vicario ci creda, ma in realtà la
questione non è mai posta, almeno non con Geoffrey. Capisco bene perché; i miei
capelli, il petto piatto, il sorriso smorto: basta guardarmi per pensare che
sono fatta su misura per Dio. E forse lo sono davvero. Eppure avrei preferito
che qualcuno mi consultasse. Non che conti qualcosa, chiaro. Finché sai gestire
una vendita di beneficenza con molto spirito, puoi credere in quello che ti
pare.
Un dio. Non il Dio.
Una donna di lettere
Alan Bennett
frammento
Assolvenza su Miss Ruddock davanti al muro
gigio di un istituto. Indossa una
uniforme, parla molto in fretta ed è
raggiante.
Dovrei
andare avanti col mio diario. Mrs Proctor ci fa tenere un diario, serve per il
corso di Critica letteraria. Le altre ragazze non sanno che cosa metterci
dentro, io non so che cosa lasciar fuori. I guaio è che non ho mai tempo per
scriverlo, sono indietro di tre giorni.
Sono
talmente occupata. La mattina c’è Terapia Occupazionale, e io ho scelto
Rilegatura e Sartoria. In Sartoria Mrs Dunlop mi ha sbattuto all'ultimo banco e
sto confezionando un abitino da
cocktail. Ho detto: «Ma non vado mai ai cocktail», E lei: «Be', adesso che hai
il vestito, puoi andarci», E per questo che siamo qui: nuovi orizzonti. E di
shantung, con un colletto a scialle. In Artigianato Lucille mi sta facendo una
collanona da metterci su.
Divido la stanza con Bridget, che è di
Glasgow. Faceva la prostituta a tempo perso e ha ammazzato il suo marmocchio,
per sbaglio, una volta che era ubriaca e furibonda. Faccino grazioso, non lo
diresti mai. Sua madre era cieca, ma faceva certi pasticcini da favola, e ha
tirato su una famiglia di nove persone in tre stanze. È proprio vero che
non si finisce
mai
di imparare. Comunque
ho fatto amicizia praticamcnte con tutti. Sono sempre in questo corridoio; spesso
la campanella suona mentre sto ancora facendo il mio giro di visite.
Ridono di me, lo so, ma senza cattiveria.
Lucille dice: «Sai che sei buffa, Irene. Non ti importa niente di essere in
prigione», «Prigione! » ho risposto, «Lucille, erano anni che non mi sentivo
cosi libera».
Certo che sono fortunata. Alle altre manca il
sesso. Uomini, uomini, uomini. Non parlano d'altro.
Nota bene, per me non e piú un mistero come
prima: Bridget mi ha illustrato la procedura step by step. In passato, se mai
mi fossi trovata a letto con un uomo, sarei stata un pesce fuor d'acqua, mentre
adesso almeno conosco i rudimenti, come dice Bridget. Chiaro che alla mia età
l'evento appare improbabile, ma è comunque piacevole aggiungere una nuova
freccia al proprio arco. Mi hanno anche insegnato a fumare. Non che voglia
diventare una fumatrice a tempo pieno, non sono il tipo e non voglio esserlo,
ma se per caso mi trovo in una situazione sociale che prevede la sigaretta,
tipo quando brindano in onore della Regina, adesso non faccio più brutta
figura. D'altronde la filosofia di questo posto e tutta qui: imparare cose
utili.
Al corso da segretaria vado alla grande,
Miss Macaulay dice che sono l'allieva migliore della classe avanzata. Batto a
macchina veloce come il vento. Miss Macaulay dice che non dobbiamo lasciarci sfuggire
l'occasione: se lei glielo chiedesse in ginocchio, forse (e sottolinea forse)
quelli dell'amministrazione potrebbero lasciarmi usare il computer. Poi il
piano è: Fase Uno, vado in semi libetà per qualche tempo, seguita dalla Fase
Due, un soggiorno in un istituto di riabilitazione dove sarò reintegrata nella
comunità. E finalmente Fase Tre, un posticino in un ufficio da qualche parte.
Ho domandato a Miss Macaulay: «Sarà un
problema essere stata in prigione? ». E lei: «Irene, con i tuoi requisiti non
sarebbe un problema essere stata nelle SS ».
Ma cosa non esce da quelle bocche! Viene proprio
da ridere. Hanno parole per cose che non sapevo nemmneno aessero un nome, devo
ammettere che adesso ogni tanto le mie parolacce le dico anch'io, ma solo
quando l'occasione lo richiede. L'altra sera ero seduta vicino a Shirley
durante l'ora di socializzazione. Shirley è molto obesa, credo per via delle
ghiandole, e stiamo cercando di mettere insieme una lettera al sua fidanzato. Insomma,
lei dice che è il suo fidanzato, ma ho dovuto ricominciare la lettera tre volte
perché prima lo chiamava Kenneth. poi Mark, e alla fine si è decisa per
Stephen. Il fatto è che balbetta, Shirley, e secondo me cercava solo un nome
che riuscisse a pronunciare. Non credo nemmeno che ce l'abbia un fidanzato,
vuole soltanto darsi un tono. E poi non dovrebbe essere qui, non ha tutte le
rotelle a posto, ma pare che non sappiano dove altro metterla, appicca incendi
dappertutto. Comunque eravamo nella sua stanza a inventarci qualcosa da
scrivere al cosiddetto fidanzato, quando irrompe Geraldine la Nera, si
spaparanza sul letto, e comincia a intromettersi chiedendole se questo
fidanzato è biondo, se ha i riccioli, e altre domande personali molto
sconvenienti che con Shirley sarebbe il caso di evitare. E Shirley si confonde
e balbetta, e Geraldine se la ride, insomma ho deciso di buttare alle ortiche
la diplomazia e ho detto a Geraldine di andare a fare il culo.
Lei si mette a sghignazzare e si precipita
nel corridoio gridando: «Sapete che cos'ha detto Irene? Sapete che cos'ha detto
Irene?». Appena è uscita Shirley fa: «Non dovevi dire cosi ». «Lo so, ma a volte
è necessario», «No, Irene, non intendo che non dovevi dirlo. Ma l'hai detto
sbagliato. Non è: vai a fare il culo», E che cos'è?». « È: vai a fare in culo».
È proprio una pasta di ragazza.
Pausa.
A volte Bridget si sveglia in piena notte
urlando, perchè ha sognato il marmocchio che ha ucciso, allora vado a sedermi
vicino a lei e le tengo la mano finché non si riaddormenta. C'è la mia
sveglietta che fa tic tac e sento i pioppi vicino al campo giochi stormire nel
vento e forse sta piovendo e io sono qui
seduta.
E sono talmente felice.
DISSOLVENZA.
FINE.
Al
ritorno avevo una fame da lupi, perciò mi sono fatta un uovo sodo sul
fornellino e l’ho gustato con una fetta di Ryvita davanti alla finestra. Il
sole la illuminata per un’ora soltanto, un sogno. Ho riordinato la stanza,
sbrigato un paio di faccende, poi ho fatto un saltino in biblioteca, un giretto
da Boots, ed era già mezzogiorno, è incredibile come vola il tempo. Se penso a
tutto quello che facevo una volta, neanche capisco più come riuscivo.
La
gamba è un po’ intorpidita, ma sono riuscita a riaccomodarmi sulla sedia. Me ne
starò ferma qui, il tempo di rimettermi un po’ in sesto. Cadere ti scombussola.
Flussi di coscienza, scenografia
minimale, un solo punto di vista. Bennet.
Quotidiana normalità.
Personaggi, quasi tutti femminili, con i loro
difetti, le loro ossessioni, le loro vendette ed i loro vaneggiamenti.
...
possiamo fingere di essere chi vogliamo agli occhi degli altri, ma sotto sotto
siamo comunque tutti un po’ deboli, disgustosi e… imbarazzanti.
L’immagine
di un mondo chiuso, dalla mentalità ristretta, ma che risulta inevitabilmente
comico.
martedì 15 ottobre 2024
Una donna di lettere
Una donna di lettere
Alan Bennett
frammento
Assolvenza su Miss Ruddock davanti al muro
gigio di un istituto. Indossa una
uniforme, parla molto in fretta ed è
raggiante.
Dovrei
andare avanti col mio diario. Mrs Proctor ci fa tenere un diario, serve per il corso
di Critica letteraria. Le altre ragazze non sanno che cosa metterci dentro, io non
so che cosa lasciar fuori. I guaio è che non ho mai tempo per scriverlo, sono indietro
di tre giorni.
Sono
talmente occupata. La mattina c’è Terapia Occupazionale, e io ho scelto Rilegatura
e Sartoria. In Sartoria Mrs Dunlop mi ha sbattuto all'ultimo banco e sto confezionando un abitino da cocktail. Ho detto:
«Ma non vado mai ai cocktail», E lei: «Be', adesso che hai il vestito, puoi andarci»,
E per questo che siamo qui: nuovi orizzonti. E di shantung, con un colletto a scialle.
In Artigianato Lucille mi sta facendo una collanona da metterci su.
Divido la stanza con Bridget, che è di Glasgow.
Faceva la prostituta a tempo perso e ha ammazzato il suo marmocchio, per sbaglio,
una volta che era ubriaca e furibonda. Faccino grazioso, non lo diresti mai. Sua
madre era cieca, ma faceva certi pasticcini da favola, e ha tirato su una famiglia
di nove persone in tre stanze. È proprio vero che non si finisce mai di imparare. Comunque
ho fatto amicizia praticamcnte con tutti. Sono sempre in questo corridoio; spesso
la campanella suona mentre sto ancora facendo il mio giro di visite.
Ridono di me, lo so, ma senza cattiveria.
Lucille dice: «Sai che sei buffa, Irene. Non ti importa niente di essere in prigione»,
«Prigione! » ho risposto, «Lucille, erano anni che non mi sentivo cosi libera».
Certo che sono fortunata. Alle altre manca il
sesso. Uomini, uomini, uomini. Non parlano d'altro.
Nota bene, per me non e piú un mistero come
prima: Bridget mi ha illustrato la procedura step by step. In passato, se mai
mi fossi trovata a letto con un uomo, sarei stata un pesce fuor d'acqua, mentre
adesso almeno conosco i rudimenti, come dice Bridget. Chiaro che alla mia età
l'evento appare improbabile, ma è comunque piacevole aggiungere una nuova
freccia al proprio arco. Mi hanno anche insegnato a fumare. Non che voglia
diventare una fumatrice a tempo pieno, non sono il tipo e non voglio esserlo,
ma se per caso mi trovo in una situazione sociale che prevede la sigaretta,
tipo quando brindano in onore della Regina, adesso non faccio più brutta
figura. D'altronde la filosofia di questo posto e tutta qui: imparare cose
utili.
Al corso da segretaria vado alla grande, Miss
Macaulay dice che sono l'allieva migliore della classe avanzata. Batto a macchina
veloce come il vento. Miss Macaulay dice che non dobbiamo lasciarci sfuggire l'occasione:
se lei glielo chiedesse in ginocchio, forse (e sottolinea forse) quelli
dell'amministrazione potrebbero lasciarmi usare il computer. Poi il piano è:
Fase Uno, vado in semi libetà per qualche tempo, seguita dalla Fase Due, un
soggiorno in un istituto di riabilitazione dove sarò reintegrata nella comunità.
E finalmente Fase Tre, un posticino in un ufficio da qualche parte. Ho domandato
a Miss Macaulay: «Sarà un problema essere
stata in prigione? ». E lei: «Irene, con i tuoi requisiti non sarebbe un problema
essere stata nelle SS ».
Ma cosa non esce da quelle bocche! Viene proprio
da ridere. Hanno parole per cose che non sapevo nemmneno aessero un nome, devo ammettere
che adesso ogni tanto le mie parolacce le dico anch'io, ma solo quando l'occasione
lo richiede. L'altra sera ero seduta vicino a Shirley durante l'ora di socializzazione.
Shirley è molto obesa, credo per via delle ghiandole, e stiamo cercando di
mettere insieme una lettera al sua fidanzato. Insomma, lei dice che è il suo fidanzato,
ma ho dovuto ricominciare la lettera tre volte perché prima lo chiamava Kenneth.
poi Mark, e alla fine si è decisa per Stephen. Il fatto è che balbetta, Shirley,
e secondo me cercava solo un nome che riuscisse a pronunciare. Non credo nemmeno
che ce l'abbia un fidanzato, vuole soltanto darsi un tono. E poi non dovrebbe essere
qui, non ha tutte le rotelle a posto, ma pare che non sappiano dove altro metterla,
appicca incendi dappertutto. Comunque eravamo nella sua stanza a inventarci qualcosa
da scrivere al cosiddetto fidanzato, quando irrompe Geraldine la Nera, si spaparanza
sul letto, e comincia a intromettersi chiedendole se questo fidanzato è biondo,
se ha i riccioli, e altre domande personali molto sconvenienti che con Shirley sarebbe
il caso di evitare. E Shirley si confonde e balbetta, e Geraldine se la ride, insomma
ho deciso di buttare alle ortiche la diplomazia e ho detto a Geraldine di andare
a fare il culo.
Lei si mette a sghignazzare e si precipita nel
corridoio gridando: «Sapete che cos'ha detto Irene? Sapete che cos'ha detto Irene?».
Appena è uscita Shirley fa: «Non dovevi dire cosi ». «Lo so, ma a volte è necessario»,
«No, Irene, non intendo che non dovevi dirlo. Ma l'hai detto sbagliato. Non è: vai
a fare il culo», E che cos'è?». « È: vai a fare in culo». È proprio una pasta
di ragazza.
Pausa.
A volte Bridget si sveglia in piena notte
urlando, perchè ha sognato il marmocchio che ha ucciso, allora vado a sedermi
vicino a lei e le tengo la mano finché non si riaddormenta. C'è la mia sveglietta
che fa tic tac e sento i pioppi vicino al campo giochi stormire nel vento e
forse sta piovendo e io sono qui
seduta.
E sono talmente felice.
DISSOLVENZA.
FINE.
mercoledì 9 ottobre 2024
le lune di giove
Le lune di Giove di Alice Munro
Appunti
Nel primo racconto, intitolato I Chaddeley
e i Fleming e diviso in due parti, Agganci e Il
sasso nel pascolo, l’arrivo di quattro cugine a casa della protagonista,
ancora bambina, in una località dell’Ontario occidentale, crea l’occasione per
la ricostruzione narrativa di un mondo perduto che la protagonista comprende
poi solo da adulta, quando con occhi diversi incontra a distanza di tempo una
della cugine e la rivede con gli occhi smaliziati e inconsapevolmente crudeli
che poteva aver avuto la propria madre anni prima; confronto impietoso tra le
attese magiche dell’infanzia, con il suo bagaglio proustiano di profumi,
sapori e atmosfere che si vorrebbe rivivere, e la realtà adulta. Come se
l’occhio della scrittrice oltrepassasse suo malgrado i confini posti dai
personaggi, i tentativi esteriori di costruire una personalità spesso nella
propria fragilità,
i caratteri vengono indagati e raccontati nelle loro piccole manie, nella
minuzie quotidiana che li rende irrimediabilmente transeunti e a volte
mediocri. Non si tratta mai, però, di una mediocrità morale, bensì
dell’insoddisfazione a volte malcelata di non aver raggiunto il proprio sogno, di aver involontariamente
tradito nel tempo le proprie aspettative, le fantasie giovanili
dell’immaginazione che per anni hanno conferito carne e sangue alla propria
esistenza, per poi estinguersi al confronto della realtà adulta, l’arido vero leopardiano.
Era il lavoro arimpire le loro vite, non la
conversazione; il lavoro, adar forma alla loro giornata.
"Dulse"
racconta la storia di Lydia, una redattrice di una casa editrice che è anche (silenziosamente,
forse persino segretamente) una poetessa. È nel mezzo di una crisi di mezza
età: ora ha circa 45 anni, è divorziata da 9 anni, i suoi figli hanno
"iniziato la loro vita" e ha da poco lasciato un uomo con cui viveva
da 18 mesi, lasciandola alla deriva, incerta della sua vita, incerta di se
stessa. Un giorno d'estate parte per una vacanza (o una fuga) e finisce
sull'isola di Grand Manan , a 1.300 miglia dalla sua casa di Toronto, al largo
della costa del Maine settentrionale. Affitta una stanza in una guest house in
un villaggio, e qui inizia "Dulse", che racconta delle sue
interazioni con i proprietari della guest house, con tre lavoratori della New
Brunswick Telephone Company che stanno posando i cavi, e con un uomo anziano
dagli Stati Uniti che è in visita per il suo amore per gli scritti di Willa Cather , che, con la sua compagna Edith Lewis, aveva un cottage sull'isola. Alcuni brevi flashback del periodo di Lydia
con Duncan, l'uomo con cui ha rotto a Toronto, offrono un contrasto con il
presente della storia. Il titolo deriva dal nome di un'alga comune sulla costa nord atlantica, che il più anziano
dei lavoratori della compagnia telefonica, Vincent, ama particolarmente: è un
cibo che la gente di lontano forse non apprezza, qualcosa per distinguere la
gente del posto da quella esotica, e alla fine della storia Vincent lascia un
sacchetto di dulse per Lydia, credendo che lei, in effetti, lo capisca e lo
apprezzi.
... Lei inoltre giudica male le possibilità della
vita. Lo fa perché non è stata in grado di immaginare di vivere al di fuori del
modello limitato che accettava come normale: si è sposata, ha avuto figli, ha
trovato un lavoro stabile. Questa, nel mondo di Lydia, è la vita.
Tuttavia, a questa età c'è una strana sensazione
che accompagna l'accumulo di esperienza, una sensazione vertiginosa quando si
ripensa ai decenni di vita alle spalle, e forse una delle cause delle crisi di
mezza età (o almeno dei momenti di pausa di riflessione di mezza età) non è
tanto la sensazione che la morte si stia avvicinando, ma che ora possiedi e
porti con te il peso di una storia sostanziale.
Il fatto che Lydia abbia a volte pensato a se
stessa come una poetessa mi sembra dimostri che a volte ha pensato a se stessa
al di fuori del ruolo di moglie e madre, ma ha rifiutato qualsiasi devozione
all'arte perché l'avrebbe portata a mettere in discussione le strutture della
sua vita. L'arte è una minaccia.
Lydia non sa a cosa potrebbe essere devota perché
non si è lasciata immaginare oltre a ciò che il mondo le ha detto che è
immaginabile.
Vincent ha una piccola devozione tutta sua: il
dulse, che mangia all'inizio di ogni mattina e alla fine di ogni sera. Forse è
da lì che Lydia deve iniziare, con qualcosa di semplice a cui impegnarsi.
Le imposte della casa color giallo
si sono di nuovo spalancate. Le vedo da quassù, seduta fra curiose teste di
narcisi che oscillano nella brezza pomeridiana, quasi a salutare quel rientro
della donna che, per la prima volta nella sua vita, ha trascorso il rigido
inverno lontano dalla sua abitazione.
Ieri le lancette dell’orologio hanno bruciato in pochi secondi sessanta minuti
di vita, risarcendo il furto con un allontanamento delle ombre della sera e il
ripristino delle corse del battello.
Gli alberi che promettono fiori ricordano l’avvento della nuova stagione e
anche Tartarugo è uscito insonnolito e interrato dalla sua tana sotto il pino.
Ci sono eventi la cui regolarità
rassicura e dà fiducia. Dopo la morte apparente che l’inverno porta con sé, il
risveglio dal lungo letargo dona un momentaneo senso di completezza e
infinitudine.
Che poi, si sa, ogni attimo è un potenziale agente di cambiamento e
trasformazione e nulla resta mai uguale a se stesso.
E’ questo il tempo migliore per
tornare alla lettura di un’autrice amica, Alice Munro.
Per me l’unica che riesce a
raccontare la donna con una raffinata sensibilità, catturando le più nascoste
sfumature dell’animo femminile, le inquietudini, i tormenti, le passioni, le
faticose scelte, le illusioni, i sogni, i disinganni, insomma … i pilastri su
cui ognuno di noi costruisce ciò che diventerà,
Il suo narrare smontando le scene tra il presente e passato ha una valenza
curativa, poiché dimostra come nell’età che avanza, quando più forte è la
necessità di fare bilanci, gli episodi della vita possano essere inquadrati in
prospettive più larghe, di maggior respiro e meno vincolati da sentimenti a
tinte forti, una prerogativa sconosciuta durante la giovinezza.
E lungo tutto il suo dispiegare non
trovano mai spazio acrimonia, rancore o vendetta. Le vicende accadono e poi si
interrompono come una sorta di istantanea da fissare in un album fotografico.
Si intuisce ciò che è accaduto prima, ciò che sta accadendo al momento attuale,
ma dell’evoluzione resta l’ignoto. Registri il peso del vissuto dei fatti
accaduti e ne ricavi la convinzione che comunque ce la si può fare,
indipendentemente dal punto finale dato alla storia.
Difficile scegliere un racconto
particolare di questo libro.
Preferisco cogliere alcune descrizioni che probabilmente ogni donna, prima o
poi, incontra nel suo cammino.
Per esempio in Festa di
fine estate emerge il cruccio di Roberta rispetto ad un’osservazione
poco gradevole fattale da George sul prendisole indossato “Hai le ascelle
flaccide”. “All’inizio non appena notava un deterioramento, si affannava a
cercare rimedio. Ora invece, ogni rimedio porta con sé ulteriori guai. Si
spalma freneticamente le rughe di crema, con il risultato che le si copre la
faccia di brufoli, come a un’adolescente. Affannarsi fino a raggiungere una
misura soddisfacente di girovita ha prodotto guance e collo avvizziti. Ascelle
flaccide; che ginnastica c’è per rassodare le ascelle? Che si può fare? E’
venuto il tempo di pagare il conto, e di che cosa poi? Della vanità.. Neanche.
Solo di aver avuto in passato certe superfici gradevoli e di aver permesso che
parlassero al tuo posto: solo di aver accettato che una pettinatura, un paio di
spalle, un bel seno, producessero un effetto speciale. Non ci si ferma in
tempo, non si sa cambiare; ci si vota alla futura mortificazione”. Eppure
Roberta ha compiuto scelte importanti. Un matrimonio fallito alle spalle, due
figlie e, improvvisamente, la decisione di abbandonare i suoi luoghi per
raggiungere George, che a sua volta ha troncato la professione di insegnante
per trasferirsi in un vecchio rustico di campagna.
“Roberta intendeva continuare a illustrare libri. Come mai poi non l’ha fatto?
Mancanza di tempo, di un posto dove lavorare: poco spazio, poca luce, non un
tavolo. Mai la netta sensazione di disporre di potere personale, adesso che la
vita per lei ha preso questa nuova piega.
Quel che hanno fatto per il momento … è stato sistemare il tetto nuovo e
serramenti in alluminio alle finestre, scaricare sacchi su sacchi di polverosa
argilla espansa isolante nello spazio fra i muri, foderare il sottotetto con
strati di lana di vetro gialla, pulire tutte le canne fumarie … cambiare le
grondaie fradice. … Dentro in compenso è buia e sa di muffa… Roberta vorrebbe
eliminare il linoleum e staccare quella tappezzeria inguardabile, ma ogni
operazione deve essere eseguita secondo un certo ordine, programmato da George…
C’è poi anche il terreno: meli e ciliegi che erano da potare, filari di lamponi
da tenere in ordine… In principio Roberta conservava in testa un’idea completa
del posto: dei lavori già fatti, di quelli in corso, e di quelli ancora da
realizzare. Ma ormai ha cambiato prospettiva, ha perso il senso del progetto
generale: se ne sta in cucina e fa quel che c’è da fare di ora in ora. … Ogni
tanto guarda dentro il freezer e si chiede chi mangerà tutta quella roba…
Intanto sente che le sue pretese diminuiscono”.
Così la giudica sua figlia Angela scrivendo sul diario: “L’ho vista cambiare a
poco a poco, da una persona che rispettavo profondamente, a una sull’orlo
dell’esaurimento nervoso. Se questo è amore, io non ne voglio sapere. … Ormai
non si gode più niente e, se potesse scegliere, chiederebbe di sdraiarsi in una
stanza buia con una benda sugli occhi, senza fare niente né vedere nessuno. E
questa sarebbe una donna intelligente che credeva nella libertà”.
E così la vede George: “La sua impressione è che si sia lasciata svuotare di
ogni goccia di linfa dalle figlie. Passa la vita a placarle, a riordinare le
loro cose; deve supplicarle se vuole che si rifacciano il letto e mettano a
posto la loro stanza; l’ha sentita chiedere che per favore portassero i piatti
sporchi nell’acquaio, per poterli lavare. … Sarà questo il sistema di allevare
i figli delle famiglie borghesi? Eccola là, pronta umilmente a sciogliersi in
complimenti per sua figlia .. Se mai una delle sue sorelle avesse osato
esibirsi in quel modo, la madre l’avrebbe presa a cinghiate”.
La passione può essere eterna?
Quanto si può resistere prima di dire basta ad una relazione ormai svuotata da
quell’intensità tipica dell’amore che sboccia? Che cosa significa perdere la
testa per qualcuno? E’ più forte l’amore o l’abitudine all’idea che te ne sei
fatta?
In Bardon, autobus n. 144 la
protagonista parla con se stessa: “Sto toccando il fondo. Me ne accorgo.
Probabilmente vuol dire che prima o poi ne sarò fuori. Sto sicuramente toccando
il fondo. Non possa farcela ad affrontare da sola tutto quello che mi angoscia;
ho bisogno di aiuto e l’unica persona da cui lo vorrei è X. Non posso
continuare a trascinarmi per la strada senza avere la certezza di esistere
nella mente e negli occhi di lui…. Mi siedo in un punto dal quale posso vedere
la via. Ho la sensazione che X sia nelle vicinanze … Non ha il mio indirizzo,
ma sa che sto a Toronto. Trovarmi non sarebbe poi tanto difficile. Allo stesso
tempo, penso che devo lasciar perdere. La decisione da prendere in fondo si
riduce a questo: vuoi essere pazza oppure no? …C’è un limite alla quantità di
sofferenze e di scombussolamento che si è disposti a sopportare in nome
dell’amore, come c’è un limite al disordine che siamo disposti a ignorare in
una casa. Non si può conoscere in anticipo, ma quando lo raggiungi, te ne accorgi.
Ne sono convinta…Quando cominci veramente a lasciar perdere, succede così. Ti
parte dentro una fitta di dolore segreta, inaspettata. E subito dopo, un senso
di leggerezza. Vale la pena di rifletterci, sulla leggerezza. Non si tratta
solo di sollievo. Contiene una forma strana di piacere, niente a che fare con
masochismo o vendetta, niente di personale, insomma. E’ il piacere spontaneo di
quando si constata che il progetto non corrisponde alla struttura, che
l’edificio non può stare su; è il piacere di riconsiderare dal principio tutto
ciò che esiste di contradditorio, persistente e irriducibile nella vita. Credo
sia questo”.
Dell’amica Kay ricorda gli
atteggiamenti causati dalle varie pene d’amore: “All’incontro successivo c’è
dentro fino al collo; va dalle chiromanti, infila il nome di lui nella metà
delle frasi che pronuncia; e ogni volta che lo nomina le si affloscia la voce,
abbassa gli occhi e sfodera un’aria di impotenza compiaciuta, che non si può
guardare. Poi attacca con la delusione, arrivano i dubbi, l’angoscia, la lotta
o per liberarsi o per impedire a lui di fare altrettanto; i messaggi lasciati
in segreteria telefonica. Una volta si era travestita da vecchia … e si era
messa a fare avanti e indietro, al freddo, davanti alla casa della donna che
sospettava avesse preso il suo posto. … Si ubriaca, si fa massaggiare, si
iscrive a corsi di ginnastixca, di nuoto terapeutico”.
E ancora in Storie
finite male “Sono divorziata da un pezzo, perciò è naturale che Julie
pensi di parlare con me di un problema del quale, a suo dire, non può discutere
con molte persone. Non si tratta neppure di un vero e proprio problema, quanto
di trovare risposta a una domanda… dovrebbe anche Julie provare a starsene da
sola? Secondo lei suo marito Leslie è un uomo freddo , ostinato, superficiale,
avaro d’affetto, onesto, sincero, nobile d’animo e vulnerabile. Dice che non lo
desidera mai veramente. Dice che potrebbe mancarle più del sopportabile o che
forse è la semplice idea di restare da sola a non sembrarle sopportabile. Dice
che non si fa nessuna illusione riguardo all’ipotesi di conquistare un altro.
Però qualche volta ha la sensazione che la sua vita, i suoi sentimenti,
qualcosa di lei insomma, stia andando completamente sprecato”.
Non mancano le storie di amicizia
fra donne.
Alice Munro è ormai, e si dice, vecchia. Ha perso amici e altri sono ospiti di
case di riposo. Conosce i rischi dell’invecchiamento e li cala nei suoi
racconti (vedi The bear came over the mountain).
In Mrs. Cross e Mrs Kidd assistiamo
al nuovo trascorrere dei giorni delle due donne nella clinica Hilltop Home,
dove “Mrs Cross è ricoverata da tre anni e due mesi e Mrs Kidd da tre anni meno
un mese”. Si conoscono da ottant’anni e “chi è nato dopo tende a credere che
abbiano tutto in comune. In effetti, soltanto loro riescono a ricordare che
cosa le distingueva allora e, in un certo senso, ancora le separa”. Mrs Kidd,
più colta ed aristocratica, è meno disposta a salire al secondo piano, dove
“C’era una decina di donne sedute a quel tavolo. Alcune mormoravano o
canticchiavano sottovoce tra sé e sé. Una faceva a brandelli un piccolo cuscino
ricamato a mano. … Non una che guardasse fuori dalla finestra, o verso le
altre.” Mrs Cross prende a cuore un cinquantanovenne che in seguito ad un ictus
non sa più parlare. Anche Mrs Kidd si dedica ad una nuova amica: Charlotte, sui
quarantacinque anni, con sclerosi multipla.
“Tra Mrs Cross e Mrs Kidd non c’era stato nessuno screzio, nessun effettivo
allontanamento. Continuavano a chaiccherare e giocare a carte, qualche volta.
Ma era diventato difficile. Non sedevano più allo stesso tavolo in sala da
pranzo, perché Mrs Cross doveva controllare se Jack avessebisogno che gli si
tagliasse la carne…. A quel punto, Charlotte prese il posto lasciato vuoto da
Mrs Cross”. E nei nuovi scambi di relazione, restano saldi tuttavia i ricordi
delle due donne e la narrazione degli incidenti che hanno determinato il loro
ricovero, per entrambe ricollegabili a problemi di cuore.
Indelebili anche la solidarietà e l’affettività mostrate nei momenti di
difficoltà: “Sei venuta senza sedia a rotelle”…”Posso farla a piedi .. Basta
che me la prenda tranquilla” …”Senti cosa faccio adesso .. Ti dò una spinta. E
ti faccio arrivare esattamente davanti alla porta di camera tua” … “Mrs Kidd
assestò alla sedia a rotelle una spinta dolce, precisa, equilibrata.. La sedia
avanzò senza scosse e andò a fermarsi nel punto esatto previsto … Nell’ultimo
tratto del percorso Mrs Cross aveva alzato gambe e braccia. .. Annuì un’unica
volta, soddisfatta, ammirata, si volse e scivolò al sicuro nella sua stanza.
Non appena l’ebbe persa di vista, Mrs Kidd si afflosciò a terra e si mise
seduta con la schiena appoggiata al muro e le gambe distese in avanti sul
linoleum fresco. Pregò che nessun ficcanaso passasse di lì mentre lei
recuperava le forze e si preparava per il viaggio di ritorno”.
Dedico queste storie alla mia amica
Daniela, perché le svolte sono importanti e, quando si sa usare un buon
obiettivo, dietro l’angolo, assieme all’imprevisto, c’è sempre un invito a
fotografare una nuova parte di sé.
“La
memoria è il modo in cui raccontiamo a noi stessi le nostre storie, e ne
raccontiamo agli altri una versione in qualche modo diversa … capire come
cambia la memoria nel tempo, i diversi inganni che inventa nelle diverse età
della vita …”
Che
birichina può essere la memoria, anche quando riguarda la nostra stessa vita
:))
Il
fatto è che quando aggiungiamo nuovi anni al nostro esistere diventa più facile
modificare il significato dei ricordi, dando loro una nuova realtà che può
celare omissioni, ricostruzioni, deformazioni, perfezionamenti della vera scena
vissuta.
Vi
è mai capitato, per esempio, di rivedere a distanza di decenni un luogo della
vostra infanzia e di percepirlo drasticamente “rimpicciolito” rispetto alla
grandiosità che un tempo lontano rivestiva?
O
ancora, di inserire in un racconto di saga familiare qualche caratteristica
narrata da altre voci che però sembra corrispondere a una vostra precisa
presenza proprio nel momento in cui quell’evento accadeva?
O,
con tutta onestà, di confidare a un amico qualche travaglio interiore
soffermandosi maggiormente su aspetti che evidenziano una propria ragione,
piuttosto che l’esposizione oggettiva dei fatti avvenuti?
O
di distinguere in modo confuso dove collocare esattamente il ricordo che ci
viene a trovare, se in contemporanea non viene offerto un aggancio di
riferimento sicuro?
Munro
ben conosce i meccanismi di una memoria che non è mai così affidabile come la
si vorrebbe credere e ne sono testimonianza i mirabili incisi che spesso
affiorano nelle trame delle storie che scrive.
Ed
ecco che nel racconto “Il percorso dell’amore”, che dà il titolo al
libro in lettura, a un certo punto Fame, nel visitare con un amico la vecchia
casa d’infanzia radicalmente mutata dopo la sua vendita, dice a Bob mentre guarda
la vecchia stufa a legna: “Una volta mia madre ha bruciato tremila dollari
dentro quella stufa”. Alla legittima curiosità dell’interlocutore e
all’osservazione che i soldi sono sempre il punto centrale, Fame replica: “No.
Il punto è che mio padre glielo lasciò fare. Mio padre restò lì a guardare
senza protestare mai. E se qualcuno avesse cercato di fermarla, lui l’avrebbe
difesa. Io lo considero un gesto d’amore”.
Due
pagine dopo: “Mio padre non è mai stato in cucina a guardare mia madre
consegnare le banconote alle fiamme. … Ma allora perché rivedo la scena con
tanta chiarezza, esattamente come la raccontai a Bob … Mio padre accanto al
tavolo … mia madre alimenta scrupolosamente il fuoco con le banconote … e mio
padre … sembra proteggerla”. Una delle due considera il gesto naturale
e necessario e l’altra è convinta che l’importante sia garantire a quella
persona la libertà di procedere. Capiscono che altri possono pensarla
diversamente. Non li riguarda. “… Faccio molta fatica a credere di
essermi inventata tutto. Sembra talmente vero da essere vero: è quello che
credo sul loro conto. … Ho smesso in compenso di raccontare la storia. … Non ho
smesso soltanto perché, a rigor di termini, non era vera. Ma perché ho capito
che dovevo rinunciare ad aspettarmi che la gente condividesse il mio punto di
vista.
Una
distorsione della memoria per confermare il percorso dell’amore?
“Lichene”.
Chi non ha mai vissuto, assistito, sognato, immaginato un tradimento? Una
storia così reale da sembrare uno spaccato di una delle tante serie di
spettacoli televisivi in cui i protagonisti sono i concorrenti della vita. In
Lichene un rapporto uomo/donna durato ventuno anni, continua nonostante gli
otto anni trascorsi dalla separazione.
Sono
donna, come potrei non partecipare a favore di Stella, “una donna piccola e
grassa, bianca di capelli, in jeans e maglietta sporca. Sotto, non porta nulla
che sostenga o contenga qualsiasi parte del corpo…”, che ha saputo
reinventarsi la vita da sola, i figli lontani, in una vecchia cascina bisognosa
di restauro con piccolo orto cintato: ”Ci sono piante che sta rinvasando e i
barattoli (di marmellata) di cui parlava… C’è l’attrezzatura per il vino e
infine, nel lungo soggiorno che affaccia sul lago, la sua macchina da scrivere,
circondata da mucchi di libri e pile di carta. … Oltre la Società
storica, aggiunge, frequenta un gruppo di lettura drammatica, un
coro parrocchiale, l’associazione vinificatori, nonché un circolo di persone
che organizzano a turno cene informali a prezzo fisso”.
E come
non chiedersi che cosa ancora la lega a David, presuntuoso presenile che da
sempre è a caccia di avventure diverse che alimentino il suo demon interno di
Non Amare le Donne?
La
sventurata di turno che sta per essere scaricata, Catherine, confida
nell’immediata complicità femminile che si instaura con Stella – grazie anche
all’effetto chimico dello psicofarmaco che usa – “ci sarà un cambiamento
nella mia vita. Sono innamorata di David, ma mi sono sepolta dentro questo
amore per troppo tempo”.
E
David nel frattempo sventaglia una foto al limite della pornografia della nuova
preda, giovane, eccitante, lussuriosa. Una sferzata di energia che l’ha persino
indotto a tingersi i capelli. E’ una bestia in calore, David. Cerca la giovane
ragazza telefonicamente e ansima, suda, si eccita nel non trovarla perché sa
che questo corrisponde a un suo tradimento. Una sgualdrina, in fondo,
ecco che cos’è.
Non
suscita certo pena David, anche di fronte alla sua ammissione che è disposto ad
accettare di tutto per sopportare il suo struggimento interiore “Questi
accessi di desiderio e dipendenza, venerazione e attaccamento morboso, queste
trasformazioni terrificanti sebbene auspicate, non sono vero amore. … Prima o
poi, se Dina (l’attuale amante) permetterà alla propria maschera di incrinarsi,
lui sarà costretto ad andare oltre. E comunque lo dovrà fare lo stesso: dovrà
andare oltre.”
Sì,
direi che ci sono tutti gli elementi per manifestare solidarietà verso Stella,
quando finalmente gli dice”non si potrebbe cercare di tagliar corto adesso?”.
Che
garanzia può infatti offrire un uomo che guarda alla ex-moglie come virtuosa
complice delle sue nefandezze solo perché è l’unica a “portarsi il fardello
non solo di vecchi segreti sessuali, ma anche delle elucubrazioni su Dio che lo
tenevano sveglio nel cuore della notte, dei suoi vari dolori al petto di natura
psicosomatica, delle sue difficoltà di digestione, dei suoi piani di evasione”
a tal punto che “Si era gonfiata, con tutto quello che sapeva”.
Ma
il percorso dell’amore segue viottoli impervi: “Un tempo si scambiavano
battute amare e cattive e fingevano, pronunciandole, di trovarle vagamente
spassose, sincere, quasi cordiali. Adesso il tono fasullo di allora si è
depositato sul fondo, insinuandosi negli interstizi di ogni sentimento acuto,
perciò l’amarezza, sebbene identica, risulta stantia, formale, superflua”.
E
in fondo, al novantetreenne padre di Stella “la visita di un uomo (in
casa di riposo) conta di più”, anche se “agli occhi del suocero, David
non avrebbe mai cessato di essere qualcuno che sta imparando a diventare un
uomo, e che potrebbe non farcela mai”.
Saggia
Stella. Non si è ripiegata sulla crocifissione del genere maschile “Chi è
lei in fondo per dire che cosa di David è artefatto e che cosa no?” , ma ha
abbracciato se stessa sino a far strizzare la vitalità che in tempi precedenti
infastidiva il marito: ”Le sue impetuose impazienze ad esempio, le
esagerazioni, quel modo innocente e scherzoso di andare a caccia di
comprensione”.
Un
amore non finisce in base al semplice on-off di un interruttore, ma è
complicato dividere in due le responsabilità dell’affievolimento
dell’illuminazione. Per entrambi tuttavia il futuro si apre.
“Le
finestre sono aperte, la casa piacevolmente in ordine, e una gustosa zuppa di
pesce sobbolle sul fornello” e lo sguardo è rivolto “ai giorni
e notti che lei ininterrottamente manda avanti”.
Chi
al contrario è afflitto dal Non Amore “deve fare a meno della comprensione
altrui, rinunciare alla dignità, contenere i danni”. Come il lichene
esposto al sole: “Il nero è diventato grigio, la tinta arida e tenue di un
vegetale misteriosamente nutrito dalle rocce”.
Grazie
Alic, che silenziosamente te ne sei andata, seguendo il misterioso percorso
della tua memoria.
Alice Munro (2014), Il percorso dell’amore
La caduta dei gravi
31
gennaio 2015
CESARE MORANDINI
Ci sono lettori che alla letteratura
chiedono rispecchiamento, una narrazione della vita che sia onesta e senza
artifici in modo da risultare condivisibile, immagine della condizione umana
comune. E’ una lettura impegnativa, a volte tortuosa, che lascia spesso in
bocca il sapore dell’inquietudine. Una lettura difficile dalla
quale però – il lettore lo sa ed accetta il rischio – si può uscire cambiati
davvero, soprattutto in quanto a consapevolezza e a sapienza sulla vita. Alice
Munro (1931-) produce questo tipo di letteratura. Ha ricevuto il premio Nobel
nel 2013. Appartiene alla scuola nordamericana delle short stories,
di quel “realismo” che prende le mosse da Čechov e da Maupassant e che ha come
protagonisti Flannery O’Connor e Raymond Carver, la cui filosofia è
semplicemente quella di raccontare la vita com’è, senza paura e senza
infingimenti. Sia pure in frammenti e senza alcuna sistematicità “scientifica”,
quegli autori costruiscono con la loro opera un’antropologia, un discorso
sull’uomo dei nostri tempi.
Le storie della Munro hanno caratteri costanti. Le donne sono
sempre protagoniste dell’azione e soggetto narrante. Il loro è sempre uno
sguardo impietoso sulla propria e sulla vite degli altri, che scorrono per lo
più sullo sfondo della provincia canadese tra gli anni Sessanta e i Novanta.
Sono donne di rango sociale non elevato, casalinghe, operaie, bibliotecarie,
libraie, musiciste, colte in tutte le fasi dell’esistenza: figlie, amanti,
mogli, madri, vedove. Attraverso il loro occhio il lettore scopre progressivamente
– e a volte con una certa difficoltà – circostanze, tempi e reti di rapporti,
si fa catturare in trame complesse che per lo più hanno i contorni di saghe
familiari, spesso con improvvisi salti di tempo all’indietro. Proprio i
rapporti elementari all’interno della famiglia (padre-madre-figlia) sono al
centro di Le Lune di Giove, l’ultimo dei racconti della raccolta
omonima, uscita in Italia nel 2008 (Alice Munro, Le lune di Giove,
1982; ed. it. Einaudi 2008)
*
“Trovai mio padre in cardiologia, all’ottavo piano del Toronto
General Hospital. Era in una stanza doppia.”
A narrare la vicenda, fornendo così un punto di vista interno
alla storia stessa, è una scrittrice di cui non ci viene detto il nome, che
accudisce il padre ammalato in ospedale. E’ nata nella piccola città di
Daigleish, nell’Ontario sudoccidentale, area in cui si svolgono molte delle
novelle della Munro. E’ reduce da un viaggio in Inghilterra, da cui è dovuta
tornare per prelevare il padre malato proprio nella cittadina natale. Lei vive
e lavora però a Vancouver, dove ha messo su famiglia e le sono nate le due
figlie. Nonostante questo non riconosce quella città come il luogo proprio:
“il mio quartier generale”, lo definisce, ossia luogo per il lavoro, di
provvisorietà pratica. Daigleish, con il suo nome indiano e selvatico, è la sua
vera casa, da cui si è allontanata ma a cui non ha smesso di appartenere. Il
mettersi al capezzale del padre malato significa per lei tornare al punto di
partenza della propria vita, nel doppio significato del padre e
del luogo dove è nata. Toronto, in ultimo, è la città sconosciuta, dove il
padre va a morire, dove la figlia secondogenita è andata a vivere una sua
esistenza nuova e a lei ignota, la città della novità e degli approdi.
Scrittrice di medio successo, la sua carriera non appare come un’acquisizione
pacifica, ma ancora indefinita e precaria, è invidiosa del successo delle altre
scrittrici e teme il giudizio (a volte ironico) del padre. Una donna a
metà del guado insomma, inconclusa, irrisolta, che ha lasciato casa ma
non ha ancora trovato casa.
“Aveva dei cavi incerottati sul petto. E un piccolo schermo
sospeso sopra la testa, sul quale si disegnava in continuazione una linea
luminosa e regolare. Il tracciato era accompagnato da un nervoso bip-bip
elettronico. Il comportamento del suo cuore era in mostra. Cercai di ignorarlo.
Mi pareva che prestargli tanta attenzione – spettacolarizzare anzi quella che
avrebbe dovuto essere un’attività assolutamente segreta – coincidesse col
cercare guai. A esporre una cosa in quel modo si rischia sempre di farla saltare
in aria e impazzire.”
I cavi dell’elettrocardiogramma sul petto dell’uomo sono le
connessioni con il suo stato più intimo, svelano in modo impudico la sua
meccanica (e precaria) traiettoria di vita, esponendola all’esterno. E’ un
movimento dissacrante e improprio, tanto che la figlia se ne vergogna. E’ un
rendere pubblico ciò che deve stare nascosto, banalizzandolo, spogliandolo. E’
la linea della vita, il chimico procedere dell’esistenza, che reso in modo
sonoro e visivo all’esterno non ha più alcun manto emotivo o religioso (il
“bip-bip”), e questa dissacrazione equivale, agli occhi della donna, al correre
il rischio della sua esplosione e del suo impazzimento.
Il primo salto all’indietro del racconto riporta il lettore alla
notte precedente, quella della crisi cardiaca, della corsa al pronto soccorso.
Il medico, dopo aver visitato il paziente, aveva posto come necessario un
intervento d’urgenza alle valvole cardiache. Ne era seguito un veloce dialogo
tra il medico e la donna.
“Gli domandai che cosa sarebbe successo in caso contrario.
- Che dovrebbe stare sdraiato in un letto, – disse il dottore.
- Quanto tempo ?
- Tre mesi, forse.
- Nel senso, quanto tempo gli resterebbe da vivere ?
- Ho capito, intendevo in quel senso anch’io, – disse il
dottore.”
L’alternativa all’operazione si pone, insomma, non in modo
inequivoco come la morte, quanto come una condanna all’immobilità di tre mesi
dietro cui si cela – la donna lo scopre a fatica, in seconda battuta – la
morte. La parola “morte” non viene mai pronunciata. E’ un carattere curioso
delle vicende della Munro: la morte dei personaggi è sempre dissimulata, non
chiara, differita, indefinita, equivocata, rimandata. E’ una condizione od un
momento che avviene di nascosto, fuori dalla narrazione e persino dalla
percezione diretta dei personaggi.
La donna apprende la diagnosi con misura:
“Pensai: sì, ci siamo; doveva succedere prima o poi, ecco. Non
provai affatto il senso di ribellione che mi avrebbe colta una ventina, o anche
solo dieci anni prima”
Il padre, però, non reagisce allo stesso modo, ossia con
rassegnazione, con un suo “doveva succedere prima o poi”.
“- Potrebbe andar peggio, – dissi. Dopodiché, ripetei, anzi
sottolineai, ogni aspetto positivo cui avesse fatto cenno il dottore. – Non c’è
alcun pericolo immediato. Per il resto, sei in buone condizioni fisiche.
- Per il resto, – commentò serio mio padre.”
La Munro è maestra dell’analisi rapida e diretta delle piccole
emozioni del soggetto che scattano per una parola o un gesto da nulla, che
talvolta rivelano profonde dinamiche umane, e ce ne dà un saggio proprio in
questa occasione. La donna infatti, ascoltando quel “per il resto” pronunciato
con serietà dal padre, reagisce con una stizzosa invidia. Il padre non accetta
di essere giunto al capolinea, e di doversi nutrire di pietose consolazioni:
precisamente quello che lei aveva accettato appena pochi minuti prima. Insomma,
la donna misura se stessa sul padre, che costituisce per lei una pietra di
paragone, un riferimento mobile e animato, in un rapporto di figliolanza che
dura tuttora ed è ben attivo, tanto che in quella circostanza le rivela la sua
inadeguatezza. Lo ama e la imbarazza, perché ne dipende ancora per la
misurazione della propria riuscita nella vita.
Che sia proprio questo il tema lo dice la mezza paginetta che il
soggetto narrante spende per spiegare al lettore il proprio stato d’animo
suscitato da quel “per il resto”: una mezza paginetta in cui descrive
l’atteggiamento del padre nei confronti della sua professione di scrittrice. Il
padre su questo argomento è sempre pronto a punzecchiare la vanità della
figlia, a seminare dubbi sulle attestazioni di lode e le testimonianze di un
successo ancora incerto, con allegra ironia, provocando in lei – certamente
senza volontà né cattiveria – tensione e scoraggiamento. Anche in questo –
sembra riconoscere la donna – il padre è pietra di paragone, cartina di
tornasole, specchio della vita riuscita; nonostante lei sia ormai una donna
matura, con figlie grandi e indipendenti, dipende psicologicamente ancora dal padre.
“Quando mi resi conto dall’espressione di mio padre che invece
lui lo provava – che gli era scattato dentro lo stesso rifiuto che avrebbe
potuto sentire con trenta o quarant’anni di meno – mi si indurì il cuore, e gli
parlai con una specie di allegria malevola. – Il resto è già molto, – gli
dissi.”
*
Il secondo giorno di degenza un altro medico pronuncia una
diagnosi più rassicurante, che chiama in causa una possibile febbre reumatica
nell’infanzia e non pone l’operazione come ineluttabile. Il padre, interrogato,
dice di non ricordarsi di una simile febbre patita nella propria infanzia, ma
aggiunge
“…anche se, all’epoca, il più delle volte nessuno te lo diceva,
che cosa avevi. Mio padre non era di quelli che stanno a chiamare il dottore”
Entra così nella storia – per poco – la figura del nonno, colto
nella sua figura di padre, ossia come colui che prende le decisioni al posto
del figlio ancora giovane. La sua evocazione fa scattare, nella narrazione
della donna, il grappolo delle immagini su sé stesso giovane che il padre era
solito fornire. Il padre nella miseria della cascina, con le sorelle impaurite,
con il nonno tiranno; il padre che fugge per andare a lavorare sui
battelli da lago, che corre sulle traversine della ferrovia, nella luce della
sera; il suo incontro con un castagno, albero di particolare rarità in quella
regione. Le immagini del giovane fuggiasco e perseguitato cozzano però con
quella del presente “vecchio, intrappolato qua dentro da una falla al cuore” e
risultano sgradevoli, stridenti, come sgradevole e stridente la stessa figura
del padre da giovane.
“Non mi interessava inseguire pensieri simili. Non avevo voglia
di ricordarlo da giovane. Perfino il suo torso nudo, bianco e robusto (…)
rappresentava un pericolo per me; con quell’aria così forte, così giovane. Ero
più abituata al collo rugoso, a mani e braccia macchiate, alla testa stretta e
delicata con baffi e capelli grigi, finissimi.”
E’ l’immagine del proprio padre in quanto a-sua-volta-figlio,
ossia determinato da una relazione che la esclude, ad esserle estranea,
sgradevole e innaturale.
Il padre le parla della propria decisione di non farsi operare.
La donna è soddisfatta, perché questa volta il padre torna a corrispondere
all’immagine consueta che lei ha di lui: dignitoso, che sa accettare la morte,
indipendente, autonomo, che “non si piange addosso”.
*
Il racconto ora procede per un flashback a due giorni prima, e
mette a fuoco un terzo personaggio famigliare, dopo la donna e il padre. Si
tratta della secondogenita Judith, che va a prendere la madre all’aeroporto di
Toronto, città in cui vive, accompagnata dal proprio ragazzo Don. La donna
andrà ad abitare per qualche giorno dalla figlia, loro andranno in Messico per
un viaggio. È un evidente snodo di diversi percorsi di vita che si incrociano
solo temporaneamente, con il pretesto del padre malato. La donna chiede alla
secondogenita Judith notizie della primogenita, Nichola. Lo stesso fatto è
curioso: Nichola appare più vicina alla sorella che alla stessa madre. Quelle
che riceve sono informazioni vaghe di una figlia errabonda e dalla vita
instabile, in cerca essa stessa di distanziarsi dalla famiglia.
“Judith aggiunse che non sapeva con esattezza dove fosse
Nichola. Aveva lasciato il suo appartamento (quel buco!) e l’aveva chiamata (il
che era già molto, in effetti: una telefonata di Nichola) per dirle che
intendeva rendersi irreperibile per un po’, ma che stava bene.”
Durante questo dialogo, che si svolge durante l’uscita
dall’aeroporto, la figlia Judith e il suo ragazzo Don hanno più di un cenno di
complicità. La madre lo nota: la figlia appare più in confidenza col proprio
ragazzo che con lei stessa. Ha un moto di fastidio per quella relazione, che
percepisce come sgradevole (la fa sentire “più vecchia”), sia perché c’è un
personaggio nuovo che si intromette nella relazione madre-figlia e con il quale
la figlia parla, magari proprio di lei-madre, sia perché c’è qualcuno che può
conoscere e vedere la propria figlia in modo diverso rispetto a come l’ha
conosciuta e vista lei, incrinando una qualche sua prerogativa esclusiva.
“Facevo la stessa cosa anch’io a quell’età”, riconosce a quel
punto l’io narrante della storia. Da giovane faceva lo stesso con l’amica Ruth
Boudreau: si confidava, raccontava dei propri genitori. E’ insomma una legge
ineluttabile: l’intromissione di altre vite, di altri punti di vista, nella
relazione prima esclusiva madre-figlia, con la progressiva marginalizzazione di
quella relazione originaria.
Qui la Munro colloca un secondo ricordo della donna a cui ha
attribuito il ruolo di narratore. Tanto tempo prima, in un colloquio con il
padre, questi le aveva confessato che “Sai, se penso agli anni in cui sei
cresciuta, mi si annebbia un po’ tutto. Non riesco a distinguerli uno
dall’altro.” Lei si era offesa, per lei i ricordi di quella stessa fase della
sua vita – quando insomma lei era bambina – erano invece nitidissimi. Adesso
però scopre in sé la stessa “nebbia” a proposito della fase in cui le sue figlie
erano piccole, proprio come il padre.
La pagina della Munro è molto efficace.
“In compenso, gli anni in cui Judith e Nichola erano piccole e
io stavo con il loro padre… sì, nebbia era la parola giusta per definirli.
Ricordo pannolini stesi ad asciugare, raccolti, ripiegati, e ricordo il banco
di cucina in due case diverse e anche dove tenevamo il cesto della
biancheria sporca. Ricordo programmi televisivi – Braccio di Ferro, I
tre marmittoni, Le comiche. Quando cominciavano Le
comiche era ora di accendere la luce e mettere su la cena. Ma non
avrei saputo distinguere gli anni. Abitavamo alla periferia di Vancouver, in un
quartiere dormitorio: Dormir, Dormer, Dormouse, un nome così. Avevo sempre
sonno, all’epoca: la gravidanza mi metteva sonno, e poi le poppate notturne, e
l’eterna pioggia della costa occidentale. Cedri neri grondanti, lucido alloro
grondante; mogli tra pisolini, sbadigli, visite, tazze di caffè, pannolini da
ripiegare; mariti che rientravano la sera dalla città sull’altra riva
dell’acqua. Ogni sera accoglievo il mio, che arrivava a casa col Burberry tutto
bagnato e speravo che riuscisse lui a tenermi sveglia; gli scodellavo un
secondo di carne e patate e uno dei soli quattro contorni di suo gradimento.
Mangiava con appetito feroce, poi si addormentava sul divano del soggiorno.
Eravamo diventati una coppia degna di un fumetto, più vecchi a vent’anni di
quanto saremmo poi stati una volta raggiunta la mezza età.”
Le memorie sono relative. Ciò che è importante per qualcuno non
lo è per altri. Ancora una volta, però, la donna compie una specie di
consapevole passaggio dall’essere figlia (e dal sentire come tale) all’essere
madre (ed al sentire come tale): in modo da sentirsi appartenente a due mondi,
a due relazioni contemporaneamente. Qui si nota, tra l’altro, come nel ricordo
della donna, il proprio marito non abbia avuto e non abbia tuttora alcuno
spazio: un semplice corpo senza volto né parola.
È a casa di Judith, ospitata per i giorni del suo accadimento
del padre. È come un passaggio veloce e non incisivo nella sua orbita. Si
sovrappone a lei temporaneamente. Quando è in quella casa da sola il
telefono squilla spesso, ma le telefonate – come in realtà appare assai più
ovvio al lettore che all’io narrante – sono tutte per lei, e nessuna per sé. La
donna prova per questo un senso di delusa meraviglia. A casa di Judith la donna
tenta una telefonata a Tom, un suo ex con cui non si sentiva da anni, persona
del tutto esterna alle vicende presenti della sua vita. Segreteria telefonica,
l’uomo non c’è, c’è solo la sua voce registrata. In quei giorni insomma in cui
per la donna le relazioni famigliari sono investite da una luce nuova e
rivelatrice, è quello un modo per testare la eventuale permanenza delle
relazioni del passato esterne al cerchio famigliare. Quel piccolo test si
risolve in una risposta negativa. E’ insieme un piccolo tentativo di ribellione
alla sua situazione di ospite delle relazioni altrui, alla
quale però deve rassegnarsi.
*
Il padre ha deciso per fare l’operazione. Lo spiega in ospedale
in modo un po’ confuso e letterario: cita il viaggio dantesco di Ulisse per
“mari sterminati”, ma soprattutto ha letto su riviste popolari di esperienze di
sospensione della vita durante le operazioni chirurgiche, ed è tentato di
credere all’esistenza dell’anima, vuole provare anche lui, vuole rischiare. La
donna è sottilmente delusa, lo credeva diverso, la banalità dei suoi
riferimenti la imbarazza.
Visto che il rischio dell’operazione è forte, il padre comincia
a parlare di testamento. La donna pertanto lo interrompe e chiede se, di fronte
a quegli argomenti, non sia meglio far intervenire anche sua sorella, Peggy. E’
la traccia di un secondo legame famigliare. Peggy ha un marito di nome Sam,
astronomo, ammiratissimo e amato dal padre della donna narrante, con tre nipoti
disciplinati come soldatini. L’irruzione di quel curioso mestiere, “astronomo”
avverte il lettore che il racconto si sta avvicinando al proprio nucleo di
senso, dato che il titolo ha un carattere astronomico, “Le lune di Giove”.
La donna vaga per Toronto, attorno all’ospedale, per negozi.
Guarda i passanti e compra vestiti per ingannare l’attesa dell’evento, ossia
l’operazione del padre. Lo ha già fatto in passato: in particolare quando la
figlia Nichola si era ammalata, e lei l’aveva portata dal medico, per sospetta
leucemia. Anche allora aveva ingannato l’attesa dell’esito degli esami
comprando vestiti. Ricorda il viaggio in autobus con la piccola Nichola
in braccio di ritorno dall’ospedale, con la mente occupata dall’incertezza
della diagnosi. Ricorda le proprie sensazioni di allora, nitide.
“…mi resi conto che la toccavo in maniera diversa, pur essendo
sicura che nessuno avrebbe mai potuto accorgersene. Era scattata una cautela,
non una ritrosia vera e propria, ma una riserva a lasciarmi prendere
dall’emozione. Capii come sia possibile conservare le manifestazioni d’amore
per una persona condannata, ma in un modo misurato, rigoroso, per la semplice
ragione che si deve sopravvivere. Però si può fare in maniera talmente discreta
che l’oggetto di quella cautela non lo sospetti più di quanto sia in grado di
sospettare la sentenza stessa di morte. Nichola non sapeva, non avrebbe saputo.
Su di lei sarebbero piovuti baci, giochi, parole scherzose; non avrebbe saputo
mai, anche se temevo potesse sentire il vento tra gli spifferi di quelle
vacanze artificiali, di quei giorni artificialmente come ogni altro. Andò tutto
bene, invece.”
Ricorda – con una certa triste meraviglia – il proprio istinto a
moderare le manifestazioni d’affetto per la figlia, sotto la minaccia di
doversene staccare, come per autodifesa, come per alleggerire la propria
dipendenza da una persona che potrebbe andarsene presto.
A spasso per Toronto in attesa dell’inizio dell’operazione del
padre va al planetario cittadino. Prosegue la marcia di avvicinamento al nucleo
tematico del racconto. Lo spettacolo cui assiste la donna riguarda il sistema
solare, viene citato il pianeta Giove.
“A quel punto, il realismo lasciava il posto al consueto ricorso
all’artificio. Un plastico del sistema solare eseguiva con eleganza la sua
rotazione incessante. Una sfera luminosa decollò dalla terra, dirigendosi verso
Giove. Imposi al mio cervello anchilosato e recalcitrante di registrare i
fatti. La massa di Giove: due volte e mezza quella di tutti gli altri pianeti
messi insieme. La Grande Macchia Rossa. Le tredici lune. Al di là di Giove, uno
sguardo all’orbita eccentrica di Plutone, agli anelli ghiacciati di Saturno.”
La protagonista nota con fastidio che sono state inserite a
corredo delle immagini delle musiche a carattere religioso, per dare un tono
solenne alla rappresentazione del ruotare dei pianeti e delle stelle. Lo trova
ingiustificato e vagamente fastidioso, inappropriato per il tema (“un brivido
lungo la schiena guardando fuori dalla finestra?”). Chissà perché elementi così
naturali e meccanici debbano venire ammantati di un riferimento alla
religiosità, si chiede. Intanto i ragazzini delle scolaresche presenti
rumoreggiano, mangiano buttando cartacce per terra. Meglio così, si dice la
donna, almeno non ha effetto su di loro quella dolciastra mitizzazione.
La donna, in ospedale, racconta al padre del planetario. Il
padre coglie la palla al balzo e recita a memoria i pianeti del sistema
solare, poi tenta con le lune di Giove.
“- Dimmi le lune di Giove.
- Beh, quelle nuove non le conosco. Ce n’è un mucchio, no?
- Due, ma non sono nuove.
- Nuove per noi, – disse mio padre. – Ti è venuta la lingua ora
che sto per finire sotto i ferri, eh?
- “Sotto i ferri”. Che razza di espressione.
Non era a letto quella sera, l’ultima sera. L’avevano staccato
dall’apparecchio, e si era seduto accanto alla finestra. Aveva le gambe nude, e
indossava una camicia dell’ospedale, ma non sembrava a disagio, né imbarazzato.
Aveva l’aria pensosa, ma cordiale, da buon padrone di casa.
- Comunque non hai detto i nomi neanche di quelle vecchie.
- Dammi tempo. Le battezzò Galileo. Io.
- E’ un inizio.
- Le lune di Giove sono i primi corpi celesti scoperti con l’uso
del telescopio, – disse serio, come se leggesse quella frase su un libro
antico. – E non fu neanche Galileo a battezzarle; è stato un tedesco. Io,
Europa, Ganimede, Callisto, ecco.
- Esatto.
- Io ed Europa erano amanti di Giove, giusto ? Ganimede era un
ragazzino. Un pastore ? Callisto, non so chi fosse.
- Credo un’amante anche lei, – dissi.- La moglie di Zeus, di
Giove cioè, la trasformò in un’orsa e la relegò in cielo. Orsa Maggiore e Orsa
Minore. La minore era suo figlio. L’altoparlante annunciò la fine dell’orario
di visita. Ci vediamo quando ti svegli dall’anestesia, – dissi.
- Sì.
Quando fui sulla porta, mi richiamò. – Ganimede non era un
pastore. Era il coppiere di Giove.”
Sono le ultime parole nella storia da parte del padre, che va
“sotto i ferri”.
*
La donna va ad attendere l’esito dell’operazione in un parco
alle spalle del museo di Toronto, dove c’è un Giardino Cinese con cammelli in
pietra, statue di guerrieri, e una tomba monumentale. Li vede, poi si siede su
una panchina (è l’immagine scelta per la copertina dell’edizione italiana della
raccolta) e guarda la gente che passa. Una ragazza lontana le sembra Nichola,
ma non è lei. In fondo avrebbe anche potuto davvero vedere Nichola, ma ormai
proprio come una persona qualunque,
“Magari di sfuggita, mentre passava per una via non lontana di
lì, stanca, preoccupata, sola. Ormai era un’adulta come tante, in giro per il
mondo, con la sua borsa della spesa, diretta a casa”.
Riconosce insomma che la figlia primogenita ha ormai tagliato
tutti i ponti con lei, si è affrancata, ha la sua vita, si è distaccata per
sempre; ma anche che lei stessa ha lasciato andare la figlia alla sua vita, la
figlia che appare alla madre ormai spogliata dei caratteri privilegiati di
“figlia”, figura ormai come le altre che passano per strada. Ma ormai il
racconto volge al termine; gli elementi sono disposti e la struttura è
evidente.
“Se l’avessi vista davvero, forse sarei rimasta seduta a
guardarla e basta, mi dissi. Mi sentivo come una di quelle persone che hanno
galleggiato fino al soffitto, godendosi una morte breve. Che sollievo, finché
dura. Mio padre aveva fatto la sua scelta, Nichola pure. Un giorno o l’altro,
fra non molto probabilmente, si sarebbe fatta viva, il che non cambiava le
cose. Volevo alzarmi e andare alla tomba, guardare i bassorilievi, le immagini
incise nella pietra tutto intorno. Le voglio sempre vedere e non lo faccio mai.
Neanche quella volta. Cominciava a far freddo, perciò entrai a bermi un
caffè e a mangiare qualcosa prima di far ritorno all’ospedale.”
La donna prova, seduta sulla panchina, la sensazione
dell’ineluttabile e meccanico esaurirsi di una relazione; e di una relazione
strettamente biologica, in apparenza indissolubile, quella tra madre e figlia.
Si sente una persona che “ha galleggiato fino al soffitto, godendosi una morte
breve”, ossia che ha lasciato vivere quella relazione secondo i ritmi e i tempi
suoi propri, senza alcuna pressione, e che ora vedeva quella relazione
esaurirsi con naturalezza e nel silenzio.
Si è però fatto tardi, e la donna si alza. C’è qualcosa che
avrebbe sempre voluto fare in quel giardino, visitare i bassorilievi tutto
attorno ad una tomba monumentale, e neanche quella volta lo fa. Non è un caso
che il racconto si concluda su di una metonimia della morte, precisamente su
ciò che si può vedere della morte, ciò che è pubblico ed è elaborato della
morte (un bassorilievo artistico), e che tale metonimia sia l’oggetto di
un’attrazione-repulsione da parte della donna. In questo finale ogni diverso
elemento si conferma e si richiama reciprocamente: come desidera visitare il
bassorilievo ma alla fine, ancora una volta, non lo fa, così il movimento
finale della donna attorno al padre ha il verso simmetricamente opposto, come
una fuga tentata ma ancora una volta revocata. Non torna subito dal padre in
ospedale, indugia. Come se fosse legata a lui da un elastico, va al bar a bere
un caffè, e solo dopo fa ritorno.
Non sappiamo se il padre sia sopravvissuto all’operazione. Da
una parola seminata in precedenza sappiamo che la sera precedente era stata
“l’ultima sera”, per cui il lettore è incline a pensare che sia morto “sotto i
ferri”. Alla fine, però, proprio in questo elastico finale,
con il ritorno in ospedale dal padre, riconosciamo la struttura della trama.
Quella della donna attorno al padre è stata l’orbita di un pianeta, fatta di
repulsione e attrazione, meccanica, che meccanicamente va esaurendosi. Anche le
orbite che dalla donna dipendono (Judith e Nichola) sono meccaniche e fredde,
ed hanno un loro decorso. Si esauriscono. Questo è dato dal titolo e dal
riferimento alle lune di Giove, ed all’accostamento dell’idea di rotazione,
data dall’inserimento in un’orbita, dovuta all’equilibrio tra la forza di
attrazione e quella di repulsione. Proprio così vengono narrati i personaggi ed
i loro movimenti reciproci: come corpi celesti in attrazione e repulsione,
determinati nelle loro traiettorie di vita da campi gravitazionali mai fissati
per sempre ma in perenne evoluzione.
*
Occorre però leggere il riferimento astronomico anche oltre
questa suggestione. Le prime lune di Giove furono scoperte da Galileo nel 1610:
Io, Europa, Ganimede e Callisto. Il dato importante di quella scoperta fu che
così Galileo trovava conferma sperimentale alla legge di gravitazione
universale, condannando qualunque teoria a proposito di un universo
geocentrico. Le lune di Giove furono infatti i primi corpi celesti individuati
che non ruotassero né attorno alla Terra né attorno al Sole. Se esistevano, la
Terra non era più, come nella cultura scientifica fino a quel momento, il
centro gravitazionale dell’universo. L’universo non ruota attorno all’uomo, non
è fatto in funzione sua; non v’è anzi alcun centro gravitazionale, ma ogni
corpo celeste lo è per altri ed a sua volta gravita attorno ad altri corpi con
massa maggiore della propria, in una universale, meccanica relatività.
E’ anche la scoperta della donna, e le sue tappe sono quelle del
racconto. Una legge di gravitazione universale, meccanica ed ineluttabile,
funziona anche per gli esseri umani. La donna narrante gravita attorno al
padre, su di un’orbita stabilita dal rapporto tra repulsione ed attrazione che
affiora qua e là nel racconto, e che è fondata sul rapporto padre-figlia
radicato nella fase di totale dipendenza (il periodo “nebuloso” per il padre e
nitidissimo per la figlia). Allo stesso tempo attorno a sé fa ruotare le due
figlie, con orbite diverse, più stretta per Judith e larga per Nichola.
L’allargarsi specie della seconda di queste orbite, che ormai è sostanzialmente
una fuga, la turba proprio per la naturalezza, l’ineluttabilità. Sono però le
orbite attivate dagli altri, nelle quali lei non ha spazio, a sorprenderla di
più con la loro esistenza: quella del ragazzo Don per Judith, soprattutto.
Sono momenti di disincanto. La donna lo manifesta all’inizio con
il pudore verso il “bip-bip” dell’elettrocardiogramma del padre, così, come,
alla fine, il suo essere in mutande “l’ultima sera”, ormai staccato dagli
apparecchi. Aveva poi provato fastidio nel notare il gesto affettuoso di intesa
tra la figlia e il fidanzato, così come non aveva apprezzato l’artificiosità
sacralizzante degli ideatori dello spettacolo al planetario. Insomma: la
meccanicità della gravitazione relazionale è per la donna una verità da
nascondere, inappropriata, come una miseria conturbante, per quanto
sconsolatamente vera.
Manca un centro gravitazionale saldo e comune per la nostra
vita. Questa comincia attorno all’orbita dominante dei genitori, poi noi stessi
diventiamo il centro di attrazione per altre orbite, e queste stesse poi si
esauriscono attivando altre orbite a loro volta. L’unico dato stabile è che
siamo soli. Non abbiamo una direzione, un senso di caduta. La religiosità, il
senso di un mistero solenne con cui talvolta si tenta di dissimulare questa
verità – come nel planetario, ma anche nella mitologia associata ai nomi dei
satelliti di Giove, ed a Giove medesimo, immagine comunque del re degli dei, di
Dio - è una illusione fuori luogo. Ad essere regolati da ineluttabili
leggi fisico-meccaniche non sono soltanto gli aspetti biologici della nostra
esistenza, quanto anche quelli relazionali ed emotivi. L’amore, l’affetto
filiale o materno, non costituiscono un’eccezione, tantomeno un mezzo per
contrastare o bilanciare quell’ineluttabilità.
La sensazione finale è quella di una aridità di fondo, di uno
spegnersi delle esperienze senza l’accompagnamento di un rimando esplicativo.
Proprio come si spegne l’orbita dominante per la donna narrante, quella con il
padre: spegnimento nemmeno narrato, ma lasciato solo intuire.
*
Nei racconti della Munro la connotazione morale dei personaggi
gioca un ruolo importante nel generale l’effetto di realismo: mai del tutto
innocenti, spesso complici di fatti riprovevoli ma che avvengono per meccanica
causalità. Le stesse scelte morali sono ininfluenti a cambiare il loro destino,
appaiono come semplici quinte di teatro dietro lo svolgersi indipendente della
storia. I personaggi sono in balìa del caso, che destina vita e morte a
ciascuno. Sono le loro mosse a vestire di senso, di pensieri, di emozioni,
quella casualità senza volto. Si consideri ad esempio il finale di un altro
racconto della Munro presente nella stessa raccolta de “Le lune di Giove”,
“Festa di fine estate”. E’ la semplice storia di una serata passata da una
famiglia in visita ad un’altra, e delle migliaia di parole che vengono spese
sugli argomenti più disparati, mentre si chiariscono storie e vicende. In
chiusura del lungo racconto, l’auto di due ragazzi – uno è addormentato – che
hanno scordato di accendere i fari, attraversa la strada ad alta velocità,
tagliando la traiettoria di una seconda auto, miracolosamente senza sfiorarla.
Sulla seconda auto v’è la famiglia dei protagonisti di ritorno dalla festa, che
restano incolumi, ma non sono né grati né atterriti, ma solo un po’ straniti, e
che presto archiviano l’esperienza, perché in fondo non è successo nulla. In
realtà tutta la ricchezza delle loro vite, illustrate per tutto lo spazio del
racconto, è stata seriamente messa in pericolo, e si è salvata per una
questione di pochi centimetri, o di pochi secondi. Sono dei miracolati, ma non
se ne rendono conto, e così è la vita: una straordinaria ricchezza di
relazioni, parole, pensieri ed emozioni messa in mano alla miseria ottusa di
quantità misurabili, di centimetri o di secondi. In un altro racconto,
“L’incidente”, la dinamica è inversa ma convergente. La morte accidentale di un
ragazzino cambia radicalmente le vite di tutti ed in particolare della
protagonista Frances, amante del padre del povero ragazzo. In realtà – è questa
la considerazione finale di Frances – l’incidente ha solo provocato come
un’ansa nelle loro traiettorie di vita; ansa ormai pienamente riassorbita; le
loro vite sono ormai come sarebbero state anche senza la morte del ragazzo.
“L’incidente” che sembrava aver cambiato le vite di tutti, in realtà, complice
il tempo, non le aveva cambiate per nulla.
I personaggi della Munro hanno talvolta squarci di rivelazione a
proposito del senso di tutto o dell’esistenza di un destino. Confessano
l’esistenza di un desiderio profondo, di un’aspirazione alla felicità od alla
pienezza della che tutti accomuna, ma che dorme sotto le pieghe del quotidiano,
inespressa. Scoprono però presto che ciò che è successo davvero – e ciò che
rimane – non è la manifestazione della verità, ma la loro sensazione di
essere passati vicini alla manifestazione della verità. Il contenuto della loro
rivelazione infatti viene per lo più confuso, banalizzato, reso irrilevante dal
tempo, dalla memoria, o addirittura cancellato (come in “Segreti svelati”), e a
restare sono solo, da un lato, l’impressione di avvenuta rivelazione, ormai
però non più spendibile, e dall’altro il desiderio che quella rivelazione aveva
“svelato”, che resta non appagato.
Pare esserci, comunque, nella Munro, una deroga
all’ineluttabilità di questa scena. In alcuni racconti come “La vergine
albanese” (nella raccolta “Segreti svelati”, Einaudi 1994-2000), la possibilità
di decidere il proprio destino e di sfuggire alla solitudine sta nell’uscita
violenta, con una vera e propria fuga, dello schema dei legami famigliari, che
significano anche circuiti di regole, credenze (anche religiose), ambienti
sociali. E’ una scelta dolorosa e dal prezzo elevato per i personaggi che la compiono,
ma permette loro una vita – per quanto scarna – libera. La loro volontaria
solitudine non fa che confermare l’azione insieme violenta, illusoria e
precaria delle relazioni umane nel loro complesso, ma insieme le relativizza,
staccandole dall’uomo considerato in sé. L’uomo non consiste nelle sue
relazioni, insomma: al di fuori di esse, ovvero al di fuori della legge di
gravitazione universale illustrata magistralmente ne “Le lune di Giove”, l’uomo
continua ad esistere, per quanto solo, e con il suo desiderio profondo che non
cessa di costituire un enigma.