lunedì 17 marzo 2025

L' arte della gioia - Goliarda Sapienza

 


 


L'arte della gioia

Goliarda Sapienza

 

“E dai cu stu mari! Cocciuta sei! Cento volte te lo spiegai, cento volte! Il mare è una distesa d’acqua fonda come l’acqua del pozzo che sta fra il nostro podere e quella catapecchia che è la vostra casa. Solo che è blu, e che per quanto giri l’occhi non puoi vedere dove finisce.”

 

“Allora il dolore, l’umiliazione, la paura non erano, come dicevano, una fonte di purificazione e beatitudine. Erano ladri viscidi che di notte, approfittando del sonno, scivolavano al capezzale per rubarti la gioia di essere viva.”

 

“Stanca la vista della giovinezza.”

 

“Io povera sono, vero Mimmo? Povera, e devo farmi forte col leggere e studiare, cercando in me e negli altri la chiave per non soccombere. Ce ne erano stati tanti che, nati poveri, si erano salvati con l’ingegno e la forza che dà il sapere… Lì, davanti a me, in fila nell’immensa libreria, mostravano il loro nome luccicante sul dorso bruno e oro di quei volumi.”

 

“Beatrice cara, perchè non cerchi di pensare anche ai lati positivi di quello che accade? Niente è completamente negativo nella vita.”

 

“Mai rifiutarsi di vedere i lati sgradevoli della vita; non conoscendoli la realtà li ingigantisce nella fantasia trasformandoli in incubi incontrollabili.”

“Scusami, picciridda, di sta fretta, è che da tanto ti volevo e tu proprio niente sai fare. Piano piano, col tempo, t’insegno a venire anche a te. Niente vi insegnano le vostre madri, e tocca all’uomo poi…”

 

“Ormai cominciavo a conoscere la belva-uomo e sapevo che a noi appare pazzia ogni volontà negli altri a noi contraria, e ragionevolezza quello che ci è favorevole e ci lascia comodi nel nostro modo di pensare.”

 

“Non ero vecchia. Ero solo uscita dalla primwa giovinezza e avevo già un passato. Quella stanchezza non era che la nostalgia per qualcosa che s’è avuto e si pensa che non tornerà più.”

 

“A che cosa si era sacrificata? Al dovere di un nome da tenere alto nella considerazione degli altri o ai propri occhi?”

 

“Avevano spalancato i battenti del Banco di Sicilia, ed ecco il primo impiegato attraversare la strada. Non era un piccolo impiegato, lo si vedeva dal taglio perfetto del vestito scuro e dal bastone agile e lucido. Quell’uomo aveva sicuramente lo stesso sguardo fisso e duro dell’avvocato Santangelo e si preparava alla sua giornata di superiore, lieto di dare ordini e umiliare. No, non sarei diventata l’impiegata del mio patrimonio.”

 

“Imparai a leggere i libri in un altro modo. man mano che incontravo una certa parola, un certo aggettivo, li tiravo fuori dal loro contesto e li analizzavo per vedere se si potevano usare nel mio contesto.”

 

“Bisogna rapidamente allontanarsi da qualsiasi luogo dove la consuetudine ha ucciso l’obiettività.”

 

“Soldi s’hanno a dare, certo, perché questo Mussolini è l’unico che l’ordine ci può assicurare – un vero Crispi è, giuraddio! – ma non l’anima… Ai giovani con arte fina s’è rivolto, e le loro fantasie ha infiammato contro i vecchi. Astuto è stato, perché da quando mondo è mondo i giovani fanno presto a prendere fuoco. Eh! date a un caruso un Orlando e un Rinaldo, fatelo sognare con parole nuove e divise nuove, fategli credere che sarà padrone, e schiavo ti diventa senza saperlo.”

 

“Facile è prendersi il lusso di fare l’agnello, quando la natura t’ha accordato il favore di nascere lupo.”

 

“Eh, tante cose si possono insegnare: andare a cavallo, fare all’amore, ma la propria esperienza a nessuno si può dare. Ognuno la propria, con gli anni, si deve fare, sbagliando e fermandosi, tornando indietro e ricominciando il cammino.”

 

“Ho voglia di uscire, correre in quel sole gioioso che ripete: sei libera. Dolcezza di non aspettare più, di non dipendere più da un’altra volontà. Nessuno mi toglierà più questa dolcezza.”

 

“Cancia la vita quannu u padri mori.”

 

“La guerra si sposta lenta, ma tutto cancella, tutto fa deserto: case, colture, sentimenti.”

 

“A volte sta vita mi pare tutta un’attesa in una trincea melmosa.”

 

“Chiunque abbia avuto l’avventura di doppiare il capo dei trent’anni, sa quanto sia stato fativoso, aspro ed eccitante scalare il monte che dalle pendici dell’infanzia sale sino alla cima della giovinezza, e quanto rapido, una cascata d’acqua, un volo geometrico d’ali nella luce, pochi attimi e… ieri avevo le guance integre dei vent’anni, oggi – in una notte? – le tre dita del tempi mi hanno sfiorato, preavviso del breve spazio che resta e del traguardo ultimo che inesorabile attende… Primo, menzognero terrore dei trent’anni.”

 

“I tempi cambiano e s’ha da essere cauti: osservarli e vedere come s’ha da agire.”

 

“Ci sono città ricche di ogni ben di Dio, porti grandi dove piroscafi vanno e vengono carichi di tesori. Ma dietro la facciata ben pitturata di palazzi sontuosi, le stesse strade contorte in spasimi di fame, la stessa misera litania di povertà e costrizione, solo appena appena più nascosta e più rassegnata.”

 

“Ritenersi indispensabili a degli esseri umani giovani, senza difesa, solo perché li nutri è il paternalismo più atroce.”

 

“A volte, a me mediterraneo d’origine, è sembrato scorgere la fonte di questa nostalgia nell’assenza del mare: il mare come liberà, giovinezza, possibilità d’avventura.”

 

“La bontà, la non cattiveria è un lusso. I poveri, io sono stata povera e lo so, i poveri non hanno il tempo per essere buoni.”

 

“Stella mia, nella nostra epoca si parlava piano a tavola, le candele non facevano rumore, era come una mite luce rispettosa del pasto… Le lampadine scricchiolano nel cervello, la radio suona dall’altra parte del salone, dimenticata, il telefono squilla: forse altri invitati… Un aereo romba basso, da qualche notte quell’aereo fantasma puntuale gira intorno alla casa e loro non lo sentono. O sto invecchiando? Come comincia la vecchiaia? Con graffiature di punti acuminati nella testa?”

 

“Saltare o lasciarsi andare e dimenticare? Ecco il senso nascosto della parola vecchiaia: un disertare la vita che dà conforto, un lasciare il campo spazzato, mitragliato dal fuoco di voci giovani, di giovani emozioni. Il giovane ti ricorda che devi invecchiare, forse desidera la tua vecchiaia e forse anche la tua morte, e tu ti trovi a dirti: stancano, parola sciocca che nasconde invidia e paura. E la paura ti spinge a farti vecchia, incutere loro soggezione col fuoco della saggezza. E con la soggezione ricacciarli indietro: fuoco contro fuoco come in guerra.”

 

“Farsi e disfarsi delle abitudini, così si deve campare.”

 

“Il giovane serve, produce, sgrava i figli, fa la guerra prima di avere coscienza di se stesso. Ma a quarant’anni, a cinquanta, l’essere umano – se non è perito nella guerra sociale continua – diventa pericoloso, si pone dubbi, richiede libertà, riposo, gioia. Anche la parola vecchiaia mente, Modesta, è stata rimpinzata di fantasmi paurosi come la parola morte per farti stare calma, ossequiosa di tutte le leggi costituite. Chi sa cos’è la vecchiaia? Quando comincia? Al tempo di Stendhal una donna a trent’anni era vecchia. Io a trent’anni ho appena cominciato a capire e a vivere. Chi ha osato varcare la soglia di quella parola senza ascoltare pregiudizi, luoghi comuni? Forse più di quanti immagini se puoi incontrare nei cantoni visi sereni, sguardi calmi e sapienti. Ma nessuno ha osato mai parlare per timore – sempre l’eterno timore – di rovesciare i falsi equilibri stabiliti.”

 

“Vecchio, mi chiami, e hai ragione. Perché mi hai messo al mondo se sapevi che dovevo diventare vecchio?”

 

“La scoperta della poesia! Ecco cosa doveva fare: tornare nella sua stanza e riprendere a leggere. Voci nuove la chiamavano dalle copertine: Kerouac, Burroughs e quell’altro…”

 

“…il silenzio bianco delle tonnare abbandonate, esiliate dal mare e dagli uomini ma sempre percorse dai fantasmi dei tonni che lì sostano a ricercare il perché della loro vita e della loro morte, le correnti eterne dei mari che intorno all’isola s’incontrano e ora la serrano, ora la liberano, mutando sempre d’intensità e colore…”

 

........

 

Sulla spiaggia di Fontania, là dove un tempo cresceva il suo pesco, oggi c’è un melograno. Era al riparo della sua ombra che, d’estate, Goliarda Sapienza soleva mettere il suo lettino, in quell'angolo di destra guardando il mare, descritto dalle vestigia possenti e poderose dell'approdo della villa del senatore romano Gneo Fonteo, attanagliata a quella scogliera fin dal I secolo a.C. 

 

Riversa sullo scoglio, Modesta osserva come i suoi sensi maturati possano contenere senza fragili paure d’infanzia tutto l’azzurro, il vento, la distanza.

 

Goliarda: Non si insegna nulla a chi non ha fame, al contrario chi ha fame di sapere prende a piene mani senza chiedere permessi né provare vergogna.

 

In America, Goliarda avrebbe tanto desiderato andarci, ma non le fu mai concesso il visto a causa dei suoi trascorsi politici.

 

[Goliarda] fa saltare tutti i denti delle ruote dell’ingranaggio dentro il quale la società la vuole, in tal modo fa girare la sua vita secondo un ingranaggio tutto proprio.” (Anna Toscano)

 

Quasi tutte le mattine, che possono allungarsi anche fin verso le due e le tre, non le mattine classiche da orologio, comprendono una sosta al bar. […]

 

Mi sveglio presto, finalmente. Il mattino a Gaeta è bellissimo. Ciondolo nella cucina: il mattino è bello proprio quando si può ciondolare intorno a un caffè e due sigarette. Faccio colazione con sola frutta, poi vado al mare anche se ci sono un po’ di nuvole. Non c’è nessuno, come ai vecchi tempi, e i colori dei fiori col nuvolo si accendono elettrici. Sembra che tra gli scogli vaghino gli spiriti.

 

l’humus che muove questa cittadina è di un’eleganza incredibile. (Gaeta)

 

Così racconta, infine, Angelo Pellegrino: “Quand’era a Gaeta […] dopo aver fatto spesa nei vicoli di Elena [NdA: nel 1897 il borgo, separatosi dal resto della città, era diventato comune autonomo con il nome dell’allora principessa Elena, futura regina d’Italia. Si sarebbe ricongiunto al comune principale nel 1927], un antico borgo marinaro, dove era la mia casa, e aver scambiato le solite quattro chiacchiere con le vecchie paesane sedute negli angoli dei vicoli a vendere i propri ortaggi, che Goliarda sceglieva uno a uno, raggiungeva a piedi la scogliera di Fontania appena fuori del paese, dove ogni volta realizzava il suo connubio panteista col mare e la pietra. Ovunque la portassi, scogliera, rupe o sito archeologico, s’addormentava sulla pietra. Per prendere forza, diceva, e comprendere meglio il luogo. Poi amava tuffarsi, lo faceva anche dall’altezza di 20 metri, riuscì a farlo anche durante i periodi di depressione, per lei tuffarsi era il costante rapporto con l’infanzia che tutti gli artisti mantengono. Imparò a farlo da bambina dagli scogli di lava sotto l’arco della ferrovia a Catania, continuò a tuffarsi anche dopo che a 7 anni si ferì la fronte: un ragazzaccio aveva fatto il brutto scherzo di spostare i massi sul fondo dove lei abitualmente si tuffava. Una piccola cicatrice sulla fronte le rimase per sempre.

 

Dal 1975, anno del nostro incontro, Gaeta per Goliarda fu come il ritorno di Positano [NdA: luogo di mare che aveva molto amato] in un altrove ancora più facile da raggiungere, dove la vita era più semplice, ariosa e serena e il mare sempre presente da ogni parte, oltre alla luce di viola, il vento e i gabbiani.”

Gaeta, 30 agosto 1996

 

 

 

Non sapevo che il buio
non è nero
che il giorno
non è bianco
che la luce
acceca
e il fermarsi è correre
ancora
di più
.

(Goliarda Sapienza, Ancestrale)

 

“Il calendario non mi segue” è un incipit tratto da una pagina dei taccuini di Goliarda

 

“Anche allora per dieci anni, e Citto mi fu amico nel nostro segreto, non dissi niente a nessuno che scrivevo. E che pace in quei dieci anni di lavoro, ricerca, libera da occhi estranei… ecco, si scrive per gli altri, ma senza averli addosso. Scrivere per gli altri come se si fosse già morti e pensando che mai, mai i tuoi scritti arriveranno alle persone che ami, ma solo a una massa sconosciuta che poi si riduce a un ragazzo, una ragazza, un vecchio saggio che mai hai conosciuto e mai conoscerai. Questo è per me lo scrivere, non c’è niente da fare”.

 

“Cerco il modo di tagliare qualche artiglio al pensiero lucido della mia Modesta. È molto difficile, non ho mai ceduto né allo scrivere troppo né dopo a queste lusinghe dell’autocensura, ma forse per una volta devo farlo: non vorrei seppellire del tutto questa mia bimba nata morta. Fra poco sarò vecchia e lei deve vivere, anche a costo di gridare meno forte le sue istanze ribelli di vita”. 

 

... sa di non essere letta, almeno in vita, e per questo si sente più libera dall’occhio degli altri.

 

“non sopporto più il telefono: quest’aggressione atroce di voci concitate che col favore che questo mezzo infernale gli concede – per spiegarsi: parlano perché sanno di non essere guardati negli occhi – agiscono sull’altro ogni pulsione inconsulta, irrazionale che può assalirli in tutte le ore. […] abbandono questo mezzo osceno che sotto l’apparenza di avvicinare le persone non fa che confortare le pigre solitudini onaniste di tutti questi figli del cinema e della televisione”.

 

«C’è qualcosa che non va. E questo qualcosa – lo so da anni – non è nelle persone, nelle cose, ma in me. Non ho la misura adatta per entrare in questo cappotto di vita, o mi stringe alle spalle o è troppo corto. Colpa della mia taglia». 

 

«succedono negli animi degli uomini dei garbugli che, anche se è difficile e doloroso precisare, abbiamo il dovere di farlo per rispetto a noi stessi e alla nostra amicizia, a costo di tutto il travaglio e la fatica che questo comporta»

 

 «…come noi due sappiamo la nostra amicizia non è mai stata un divano comodo di semplicità e mollezza, ma una palestra lucida di scontro e volontà di “cercare”, “conoscere”, “sperimentare”», scrive a Piera Degli Esposti nel 1977

 

«…dove nessuno può raggiungerti. Le celle-scelte sono i posti più liberi e vitali»

 

Parigi è sempre Parigi e cioè:

senza mattina

senza sera

sdolcinata

troppo grande

troppo turistica

troppo gentilmente efficiente

senza dolore

senza gioia

solo una punta di lugubre

sempre però “malinconicamente lugubre”

le coppie che si baciano

per strada come se leccassero

dei gelati

la loro chiarezza

di discorso

=NOIA

Voglio andare a Istanbul o in Africa.

 

«Non sono abituata ad accettare supinamente né me stessa né gli altri», in una lettera a Ignazio Majore del ’65

 

Tutto ciò lei lo scrive di sé a Piera Degli Esposti, si descrive con la lucidità, la spietatezza, l’ironia che riserva a ogni altra cosa e persona, non si esime dal mondo, ma, grazie anche alla sua originalissima storia, si batte nel mondo con tutta la sua onestà e caparbietà:

 

Siciliana +

Cattolica +

Astratta +

Senza il senso del tempo +

Isolana +

Egoista (da solo 3 anni, da quando lavoro per me) +

Poco espansiva +

Poco gelosa (meno che in amore carnale fra uomo e donna) +

Anemica +

Vecchia +

… (aggiungi tu) =

Persona intrattabile e da lasciare…sola

 

... un “discernere nel cadere”

 

le radici “umide di muschio muravano le mie ciglia”

 

“E quelle parole spalancarono un baratro davanti a me e capii come è difficile l’arte di non sperare più… la più difficile delle arti… con quella speranza di carta velina morta ripiegata nel mio petto che vibrava come una foglia secca a ogni sguardo, appena un po’ […]”.

 

“[…] capii che quel medico, nello smontarmi pezzo per pezzo, aveva portato alla luce vecchie piaghe cicatrizzate da compensi, come lui avrebbe detto e le aveva riaperte frugandoci dentro con bisturi e pinze e che non aveva saputo guarire… mi ricordai la fretta, quanta fretta di richiudere, ricucire quelle piaghe alla meno peggio… e in quella fretta spastica aveva dimenticato dentro qualche pinza”.

 

“Sì, oggi quindici aprile 1966 le dico sì, io non solo tendo ma aspiro alla morte come nutrimento, pienezza raggiunta in gioia. Ma devo tornare su nel freddo della stanza, devo finire di compiere questo lavoro del lutto, questa fatica dei panni neri […]. O scrivere una novella su questo tema “fuga dalla realtà”? O una poesia?...”.

 

“[…] lui che dormiva sempre profondamente…anche quella notte sentì che accendevo la luce e “Iuzza che fai, scrivi? “Sì”. “Una poesia?” “Sì”. “Bene”.

 

 

 

 

 

 

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