mercoledì 26 febbraio 2025

I lupi Brano di Ivan Graziani ‧ 1977

 Guarda arrivano i lupi

Sulla campagna addormentataHanno fame e sono in tantiGuarda arrivano i lupi
Guarda arrivano i lupi, uhGuarda arrivano i lupi, uhGuarda arrivano i lupi
E hanno le zanne come candidi pugnaliE gli occhi rossi da assassiniE la montagna li ha vomitatiSono sempre più vicini
Uh! Guarda arrivano i lupiUh! Guarda arrivano i lupi
Pantaloni e scarpe rotteE la cravatta del matrimonioI ricordi li ho portati in guerraCol profumo della terra
Lunga e bianca è la stradaChe attraversa la BrianzaDa cento giorni sul postaleEd il cuore mi fa male
Guarda arrivano i lupiGuarda arrivano i lupi
No, signora no, suo figlioNon l'ho conosciuto no, signora noNel sole e sotto al ghiaccioEravamo in centomilaE siam tornati solo in sei
Guarda arrivano i lupi, oh no
Questa notte stai con meSono stanco di lottareFra i cespugli della SpagnaHo sepolto la mia divisa
Sette anni militarePer la patria vilipesaEd io ne ho presi sì di sputiE non ero peggio degli altri, degli altri, i lupi
Le mie braccia dentro il fangoSe vuoi puoi nascondere i tuoi occhiEd io non voglio camminare, no, no, noA quattro zampe come un animale
Guarda arrivano i lupiGuarda arrivano i lupiGuarda arrivano i lupiGuarda arrivano i lupi
E questa è la mia casaE il tavolo di marmo sta annegando nel letameIn fondo alla campagnaQualcuno sta cantando a squarciagolaE la mia mente è confusaLacrime e miseriaRitorno a respirare, ho spezzato il mio fucile
Fonte: Musixmatch
Compositori: Ivan Graziani
Testo di I lupi © Universal Music Publishing Ricordi Srl.

lunedì 24 febbraio 2025

Paul Klee - Überladener Teufel, 1932 Aquarell auf kaseingrundiertem Papier auf Karton

Pablo Picasso - Prostitutes at a Bar - 1902

Verso la foresta - Edvard Munch

Le braci - A gyertyák csonkig égnek - Sándor Márai,

 

Le braci (titolo originale A gyertyák csonkig égnek, letteralmente Le candele bruciano fino in fondo) è un romanzo dello scrittore ungherese Sándor Márai, pubblicato senza successo per la prima volta in Ungheria, nel 1942, poi in tedesco nel 1950, in ungherese nel 1990 e, in italiano, nel 1998. Nonostante sia stato per l'autore il primo grande successo editoriale internazionale, Márai dichiarò di non amare questo romanzo, ritenendolo "eccessivamente romantico".[1]

 

"Come le persone appartenenti allo stesso gruppo sanguigno sono le uniche che possano donare il loro sangue a chi è vittima di un incidente, così anche un'anima può soccorrerne un'altra solo se non è diversa da questa, se la sua concezione del mondo è la stessa, se tra loro esiste una parentela spirituale

 

"Quando il destino, sotto qualsiasi forma, si rivolge direttamente alla nostra individualità, quasi chiamandoci per nome, in fondo all'angoscia e alla paura esiste sempre una specie di attrazione, perché l'uomo non vuole soltanto vivere, vuole anche conoscere fino in fondo e accettare il proprio destino, a costo di esporsi al pericolo e alla distruzione. Si sacrifica volentieri agli dèi una parte di felicità, perché essi sono invidiosi, e se regalano a un comune mortale un anno di felicità, si può essere certi che prenderanno immediatamente nota di quel debito per poi esigerne la restituzione alla fine della vita, praticando tassi da usurai"

 

"Tutto ciò cui giurammo fedeltà non esiste più"..."Sono tutti morti oppure se ne sono andati, hanno rinunciato a tutto quello che giurammo di difendere. Esisteva un mondo per il quale valeva la pena di vivere e di morire. Quel mondo è morto. Quello nuovo non fa più per me..." 

 

Il tradimento quindi è doppio: sentimentale e morale. Del resto il generale se lo aspettava, la sua amicizia con Konrad è sempre stata condizionata da un diverso sentire. La musica, le riunioni mondane, le donne, la vita in caserma. I due giovani sono uniti ma su sponde opposte. Konrad non vuole accettare nulla da lui, per senso dell'onore, nonostante non abbia i mezzi per potersi permettere la vita brillante e spensierata dell'amico. Si chiude in casa, vive in un mondo di idee, legge molto. È un artista e un sicuro interprete e conoscitore d'arte. Mentre il generale si trova a proprio agio nelle feste affollate, a caccia, a cavallo, nelle attività militari[4].

 

 

Perché conta anche l’istante - il tempo determina le cose a suo capriccio, e ad esso noi dobbiamo adeguare le nostre azioni. A volte il tempo ci offre una possibilità, legata appunto a un istante preciso, ma se ce lo lasciamo sfuggire non possiamo fare più nulla

 

 

La balia disse: “Vuoi che tutto sia come in passato?” “Sì” disse il generale. “Esattamente così. Come l’ultima volta.”

 

 

Il castello di Henrik è un personalissimo monumento all’attesa.

Il passato non è un tempo, ma un luogo.

 

Konrad è scappato, Henrik è rimasto. 

 

titolo originale de Le braci sia A gyertyák csonkig égnek, letteralmente “Le candele bruciano fino in fondo”.

 

Lo spazio e il tempo si sovrappongono generando un nuovo universo che fluttua in parallelo, ordinato ma anarchico al tempo stesso, 

 

 

Era bassa di statura, ma muscolosa e tranquilla come se il suo corpo fosse a conoscenza di qualche segreto. Come se nascondesse qualcosa, nelle ossa, nel sangue, nella carne, il mistero del tempo e della vita, qualcosa che non si può comunicare agli altri e non si può tradurre in una lingua diversa: un segreto che le parole non sono in grado di sostenere.

 

Talvolta sul castello e sulla famiglia splendeva il sole, e allora, nella contentezza generale, ci si accorgeva con stupore che anche Nini sorrideva.

 

La balia si sedette. Nel corso dell’ultimo anno era invecchiata. Superati i novanta, si invecchia in maniera diversa rispetto a quanto avviene dopo i cinquanta o i sessanta. Si invecchia senza risentimento.

 

La balia disse:

«Vuoi che tutto sia come in passato?».

«Sì» disse il generale. «Esattamente così. Come l’ultima volta».

«Va bene» essa annuì laconica.

 

Aveva mandato indietro il pranzo, accontentandosi di una tazza di tè freddo. Stava sdraiato sul sofà, nella stanza immersa nella penombra. Al di là delle pareti fresche ronzava e fermentava l'estate. Nel dormiveglia percepiva il ribollire della luce, lo stormire delle fronde avvizzite nelle folate calde e i mille rumori del castello.

 

Ora che aveva superato la sorpresa si sentiva improvvisamente stanco. Si trascorre una vita intera preparandosi a qualcosa. Prima ci si sente offesi e si vuole vendetta. Poi si attende. Da molto tempo, ormai, attendeva.

 

Nel corso del tempo tutto si conserva, però si scolorisce come quelle fotografie di un passato ormai lontano che venivano fissate su una lastra di metallo. La luce e il tempo sfumano i tratti più nitidi e spiccati, che a poco a poco scompaiono dalla lastra. Bisogna rigirare l’immagine perché la luce cada da una certa angolazione, per poter individuare, su quella superficie confusa, la persona i cui lineamenti erano riflessi un tempo dal suo specchio. Così sbiadiscono nel corso degli anni tutti i ricordi umani.

 

Il castello era un mondo a sé stante, come quei grandi e sfarzosi mausolei di pietra in cui languono le ossa di intere generazioni e si dissolvono le vesti funebri di seta grigia o panno nero di donne e uomini vissuti in altri tempi.

 

Le maniglie delle porte conservavano il tremito di una mano, l’emozione dell’attimo in cui essa aveva esitato a completare il suo gesto.

 

Il collegio era situato nei dintorni di Vienna, sulla cima di una collina. Era un edificio giallo, dalle finestre del secondo piano si potevano vedere la città vecchia con le sue strade rigorosamente dritte, la residenza estiva dell’imperatore, i tetti di Schönbrunn e i viali ritagliati fra le chiome potate degli alberi all’interno del grande parco. Nei candidi corridoi dai soffitti a volta, nelle aule scolastiche, nel refettorio, nelle camerate, ogni cosa era ancorata saldamente al suo posto, come se quello fosse l’unico luogo al mondo in cui tutto ciò che nella vita è caotico e superfluo fosse stato finalmente sistemato e messo in ordine.

 

«Un bel giorno siamo destinati a perdere la persona che amiamo. E se qualcuno non sopporta il colpo, peggio per lui: non è un uomo di carattere»

 

Ma in fondo all’animo nascondevi un impulso spasmodico: il desiderio di essere diverso da quello che eri. È il tormento più crudele che il destino possa riservare a un uomo. Essere diversi da ciò che siamo, da tutto ciò che siamo, è il desiderio più nefasto che possa ardere in un cuore umano. Giacché l’unico modo per sopportare la vita è quello di rassegnarci a essere ciò che siamo ai nostri occhi e a quelli del mondo. Dobbiamo accontentarci di essere fatti in un certo modo e sapere che, una volta accettata questa realtà, la vita non ci loderà per la nostra saggezza, nessuno ci conferirà una medaglia al merito solo perché ci siamo rassegnati a essere vanitosi ed egoisti, o calvi e panciuti – no, in cambio di questa presa di coscienza non otterremo né premi né lodi. Dobbiamo sopportarci quali siamo, il segreto è tutto qui. Sopportare il nostro carattere, la nostra natura di fondo, con tutti i suoi difetti, il suo egoismo e la sua cupidigia, che non saranno corretti né dall’esperienza né dalla buona volontà. Dobbiamo accettare che i nostri sentimenti non siano contraccambiati, che le persone che amiamo non rispondano al nostro amore, o almeno non nel modo che vorremmo. Dobbiamo sopportare il tradimento e l’infedeltà, e soprattutto la cosa che ci riesce più intollerabile: la superiorità intellettuale o morale di un’altra persona.

 

Il cervo stava in guardia, era immobile, come ipnotizzato, perché il pericolo esercita sempre un certo potere ipnotico. Quando il destino, sotto qualsiasi forma, si rivolge direttamente alla nostra individualità, quasi chiamandoci per nome, in fondo all’angoscia e alla paura esiste sempre una specie di attrazione, perché l’uomo non vuole soltanto vivere, vuole anche conoscere fino in fondo e accettare il proprio destino, a costo di esporsi al pericolo e alla distruzione. Immagino che anche il cervo abbia provato qualcosa di simile.

 

l’uomo è fatto in modo che, per compiere un atto eccezionale, ha sempre bisogno di un pretesto concreto.

 

C’è un senso di vergogna più doloroso di qualsiasi altro, quello che deve provare la vittima quando è costretta a guardare in faccia il suo assassino.

 

La tavola era stata apparecchiata nella grande sala da pranzo, come stasera, con le stesse decorazioni, ma allora in mezzo a noi c’era Krisztina. Al centro del tavolo ardevano delle candele azzurre. Lei amava la luce delle candele, amava tutto ciò che le ricordava il passato, le forme di vita più nobili di epoche ormai tramontate.

Il generale Henrik ha 75 anni. Vive solo con la balia Nini, 91 anni. Krisztina, sua moglie, è morta all’età di 30 anni. Anemia perniciosa, pare. Da 8 anni i due non si incontravano più. Lui viveva nel casino di caccia, lei a palazzo. Due ore di carrozza, il tempo per annullare la distanza siderale dei cuori. Nini dice che il suo, Henrik, è stato l’ultimo nome sussurrato prima che la vita se ne andasse via.

 

La fedeltà non è forse una sorta di terribile egoismo e vanità, come lo sono la maggior parte delle esigenze umane?”

Sándor Márai, Le braci, Adelphi

 

Amicizia e Tradimento

Il fulcro del romanzo è il rapporto tra due vecchi amici, Henrik e Konrad, che si rincontrano dopo 41 anni di separazione. Questo incontro è l’occasione per riaprire ferite mai guarite e per cercare di risolvere il mistero di un tradimento. L’amicizia tra Henrik, un aristocratico, e Konrad, di origini modeste, è un esempio del contrasto tra classi sociali diverse e della tensione tra lealtà e rivalità. Márai esplora come l’amore e la gelosia possano distruggere legami profondi e come la fiducia infranta possa segnare indelebilmente la vita delle persone coinvolte.

 

Il Tempo e la memoria

Il tempo gioca un ruolo cruciale in “Le Braci”. La narrazione è in gran parte un lungo monologo di Henrik, che ripercorre gli eventi passati con un’attenzione quasi ossessiva ai dettagli. Il tempo trascorso ha trasformato i protagonisti, ma ha anche cristallizzato i ricordi, rendendoli quasi tangibili nella loro intensità emotiva. Márai mostra come la memoria possa essere selettiva e come il passato possa influenzare profondamente il presente, impedendo ai personaggi di vivere pienamente nel momento attuale.

 

 

“Le Braci” riflette la decadenza dell’aristocrazia ungherese e il cambiamento sociale dell’Europa centrale tra le due guerre mondiali. Márai, con il suo stile elegante e introspezione psicologica, cattura l’essenza di un’epoca in dissoluzione, segnando la fine di un mondo e l’inizio di un altro. La nostalgia per un passato glorioso e la consapevolezza della sua irreversibilità permeano il romanzo, rendendo “Le Braci” non solo

 una storia personale, ma anche un ritratto storico e culturale di un’epoca.

 

 

“I dettagli hanno grande importanza. In un certo senso fungono da adesivo, fissano la materia essenziale dei ricordi.”

 

“Ogni vera passione è senza speranza, altrimenti non sarebbe una passione ma un semplice patto, un accordo ragionevole, uno scambio di banali interessi.”

 

“L’attimo in cui l’uomo è più colpevole non è necessariamente quello in cui solleva l’arma per uccidere qualcuno. La colpa viene prima, la colpa è nell’intenzione.”

 

“Esiste una cosa peggiore della morte e di qualsiasi sofferenza, la perdita della stima di sé.”

 

 

 

 

«Non appena te ne sei andato si ritira anche Krisztina»

 

Perché in giorni come questi il particolare linguaggio simbolico della vita si rivolge a noi in mille modi, tutto diventa avvertimento, tutto, purché si riesca a comprenderlo, diventa segno e immagine.

 

Mi appare chiara tutta l’importanza di quella giornata: essa ha diviso in due la mia vita, come un paesaggio spaccato in due da un terremoto – da una parte l’infanzia, tu e tutto ciò che significava la vita passata, dall’altra l’oscura, incommensurabile distesa che mi toccherà percorrere, il tempo che mi resta da vivere. Un abisso separa le due parti. Cosa è accaduto?

 

«Sono estremamente rare le persone le cui parole coincidono alla perfezione con la realtà della loro vita. Forse è il fenomeno più raro che esista al mondo. A quei tempi non lo sapevo ancora.

 

Penso però che è inutile accumulare esperienze, conoscere la verità, perché non siamo in grado di cambiare la nostra natura di fondo. Forse il massimo che possiamo fare nella vita è adattare alla realtà del mondo, con intelligenza e cautela, la realtà immutabile della nostra natura.

 

...possiamo comprendere l’essenziale solo partendo dai particolari, questa è l’esperienza che ho tratto sia dai libri che dalla vita.

 

 

 

 

Alle nostre spalle la guerra e la rivoluzione, dinanzi a noi il caos politico ed economico, il tempo sospetto della rivalutazione dei valori, la moda degli slogan» (Le confessioni di un borghese, 1935).

 

Ormai poteva considerarsi a casa dovunque. Fu da allora che non si sentì più a casa in nessun posto.

 

«In questa patria ufficiale, storica, blasonata, codificata, poliziesca, marziale, imbandierata, fanatizzata, occorre cercare sempre più ostinatamente, con devozione, costanza, tenerezza e compassione, la vera patria che forse è la lingua o forse l’infanzia, una via ombreggiata dai platani...» (Cielo e terra, 1942).

 

Márai, in vecchiaia, dichiarò di non amare il romanzo, ritenendolo «eccessivamente romantico».

 

«Non ho potere né armi da contrapporre alla nostra epoca e al mondo se non quelli della scrittura. Si tagliano a pezzi i paesi per poi ricucirli in maniera diversa, si violano gli accordi, si riducono in schiavitù intere generazioni per edificare le piramidi delle nuove chimere, si fanno saltare i ponti che congiungevano gli animi... Perché resisto nonostante tutto? Cosa mi infonde coraggio, in che confido? L’unica cosa che mi dà forza è la fede nell’esistenza invulnerabile ed eterna di uno Spirito freddo, limpido, autentico, inflessibile, che non si può negare impunemente, non si lascia contraffare e sopravvivrà dimostrandosi più forte di tutto il resto».

Inizialmente si ritirò con la moglie sulla collina di Posillipo, a Napoli, città che Márai considerava «una delle ultime in cui la parola civilitas possieda ancora un significato tangibile e quotidiano». Nel 1952 si stabilì a New York, di cui scrisse: «Città interessante. Peccato che non sia fatta per essere abitata da esseri umani». Nel 1968, pur avendo acquisito nel frattempo la cittadinanza americana, si trasferì di nuovo in Italia stabilendosi a Salerno. Nel 1979 tornò definitivamente negli Stati Uniti, a San Diego, dove nel 1989, alla vigilia della svolta democratica nei paesi dell’Est, pose fine alla sua vita sparandosi un colpo di pistola.

 

«Può darsi che la solitudine distrugga l’uomo, così come ha fatto con Pascal, Hölderlin e Nietzsche. Ma questo fallimento, questa frattura, sono comunque più degni di un uomo di pensiero di quanto non lo sia la sua connivenza con un mondo che prima lo contagia con le sue seduzioni dolci e perverse e poi lo scaraventa nella fossa. Tu precipita più in basso, nella voragine della solitudine. Perirai ugualmente, ma con la tua caduta avrai sostenuto il destino che governa la tua anima e la tua opera. Rimani solo e ricorda. Rimani solo e osserva. Rimani solo e rispondi. Non illuderti: non esistono soluzioni diverse. Rimani solo, anche a costo della vita» (Cielo e terra).

 

Il tormentato soliloquio che si protrae per più di metà delle Braci termina quando Henrik si rende conto di aver atteso invano, per quarantun anni, una rivincita che doveva risarcirlo dei torti subiti in passato e si rivela invece un’illusione nel breve arco di tempo in cui si compie.

 

«L’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore»

 

 

 

 

 

martedì 18 febbraio 2025

cupidigia

 

Ma in fondo all’animo nascondevi un impulso spasmodico: il desiderio di essere diverso da quello che eri. È il tormento più crudele che il destino possa riservare a un uomo. Essere diversi da ciò che siamo, da tutto ciò che siamo, è il desiderio più nefasto che possa ardere in un cuore umano. Giacché l’unico modo per sopportare la vita è quello di rassegnarci a essere ciò che siamo ai nostri occhi e a quelli del mondo. Dobbiamo accontentarci di essere fatti in un certo modo e sapere che, una volta accettata questa realtà, la vita non ci loderà per la nostra saggezza, nessuno ci conferirà una medaglia al merito solo perché ci siamo rassegnati a essere vanitosi ed egoisti, o calvi e panciuti – no, in cambio di questa presa di coscienza non otterremo né premi né lodi. Dobbiamo sopportarci quali siamo, il segreto è tutto qui. Sopportare il nostro carattere, la nostra natura di fondo, con tutti i suoi difetti, il suo egoismo e la sua cupidigia, che non saranno corretti né dall’esperienza né dalla buona volontà. Dobbiamo accettare che i nostri sentimenti non siano contraccambiati, che le persone che amiamo non rispondano al nostro amore, o almeno non nel modo che vorremmo. Dobbiamo sopportare il tradimento e l’infedeltà, e soprattutto la cosa che ci riesce più intollerabile: la superiorità intellettuale o morale di un’altra persona.

mercoledì 5 febbraio 2025

Paul Klee - Refuge, 1930

Opinioni di un clown

 

Opinioni di un clown

(titolo orig. Ansichten eines Clowns) è un romanzo scritto nel 1963 dallo scrittore tedesco Heinrich Böll.

È una prorompente critica all'ipocrisia borghese legata alla ricostruzione post-bellica della Germania Occidentale (con velati riferimenti al piano Marshall e alle sue conseguenze politiche), alla negazione acritica del passato e al senso di vergogna ed estemporanea nuova appartenenza di "rinascita". Il romanzo è ambientato al tempo del miracolo economico tedesco-occidentale.

“Avrei voluto piangere, il trucco me lo impediva, stava così bene con le crepe, con i punti in cui cominciava a sfaldarsi, le lacrime avrebbero distrutto tutto. Avrei potuto piangere dopo, una volta finito di cantare, se ancora ne avessi avuto voglia.”

Non c’è niente di più triste di un clown disperato che fa compassione.

Hans Schnier ha viaggiato, calcato i migliori palcoscenici, ha avuto contratti e plausi, poi il crollo. Marie, l’amore della sua vita l’ha lasciato, per sposare il cattolico borghese Züpfner, Hans ha iniziato a bere, si è lasciato andare, ormai senza smalto si è infortunato tra l’imbarazzo del pubblico. Ha perso tutto, l’amore, il lavoro, la stima di chi lo circonda.

Solo, affamato e con un solo marco in tasca, Hans si ritrova nella sua casa di Bonn. Si ubriaca, si immerge in una vasca da bagno, poi inizia a telefonare, in cerca di aiuto, in cerca di una mano che si tenda verso di lui. Percorre la lista di chi ha conosciuto, degli amici con cui ha litigato, di quelli che lo hanno salvato un tempo.

Nelle tre ore in cui si sviluppa il presente della narrazione, Hans ripercorre brevi ricordi, spaccati che lo riportano a momenti di illusione, di amore, di speranze.

Rileggere Opinioni di un clown (Oscar Mondadori) di Heinrich Böll è rinnovare l’incontro con un grande manifesto politico, sull’autenticità e la responsabilità umana verso la storia.

Hans è un clown che si lamenta del mondo che lo circonda e che lo ha ridotto in un angolo: Hans non risparmia nulla nella miseria della sua situazione, ricordando le delusioni e i tradimenti che hanno segnato il suo percorso. Marie ha scelto il compromesso, si è fatta irretire dal Circolo dei cattolici progressisti, ha accolto il loro spirito borghese, moralistico, se n’è andata da un rapporto che aveva la semplicità della purezza, l’assoluto di una monogamia fedele. Ma i preti chiedono il matrimonio, e Marie si è sposata, è diventata la first lady del perbenismo. Per Hans il tradimento di Marie, che ha scelto il ruolo designato dal cattolicesimo, è la scintilla di un rancore cresciuto nel tempo contro tutte le maschere della società tedesca.

“Un regno per un matrimonio! Il diritto! La legge! Il dogma!”

Per un clown che si trucca il volto per essere se stesso, dire la verità è un atto rivoluzionario, e la sua maschera ridicola di cerone è lo specchio nel quale la società vede se stessa, la propria ipocrisia. Attorno a sé Hans non vede altro che maschere, ma pochi volti, e in questo paradosso pirandelliano lui si erge a giudice della falsità sociale.

La società bigotta che si gode il fermento del dopoguerra è un mondo ingannevole in cui i tedeschi hanno liquidato tutto, si proclamano democratici, ma il loro pentimento è fasullo: il nazismo è ancora lì, con il suo orrore, nascosto nei salotti, sotto i sorrisi e la signorilità della borghesia, è ancora lì ad avvelenare ogni cosa di odio, materialismo, cinismo e opportunismo.

“Io ho il terrore che dei tedeschi mezzo ubriachi di una determinata generazione mi rivolgano la parola, parlano sempre della guerra, dicono che era meraviglioso, e quando sono davvero ubriachi viene fuori che sono degli assassini e trovano che sia stato tutto “non così terribile”.”

La malinconia del buffone, sincero come un bambino, imbarazza la morale sociale, disturba l’apparenza costruita nei salotti, dai rigadritto che recitano la parte rabberciata dei misericordiosi, accanto a preti ipocriti che predicano sacrificio, dolore, destino, povertà e condannano l’amore e la verità.

È una società intrisa di potere, che ha definito regole chiare, ruoli oggettivi, un cattolicesimo militante che non accetta deviazioni.

Hans è figlio di una delle famiglie più prosperose della Germania degli anni ’60: i Schnier del carbone interpretano alla perfezione il loro copione, la borghesia ricca protestante, dignitosa e signorile, rinnegando il figlio artista scomodo. Si recita a soggetto, e Hans non è altro che una marionetta con i fili spezzati che fa fatica a rialzarsi.

“Quello che mi irritava di più dei jour fixe di mia madre era l’atteggiamento inoffensivo degli emigranti tornati in Germania. Erano così commossi da tutto quel pentimento e da quel proclamarsi adepti della democrazia strombazzato ovunque che si vedevano di continuo fraternizzazioni e abbracci. Non capivano che il segreto dell’orrore sta nei dettagli. Pentirsi delle cose grandi è un gioco da bambini: errori politici, infedeltà coniugali, assassini, antisemitismo – ma chi procede al perdono, chi capisce i dettagli?”

In questo mondo che ha perso il ricordo del passato, solo Hans ha memoria, la legge in faccia alle persone che incontra, bigotti che guardano alle sue pantomime con sufficienza e con sprezzo arrogante.

La sua è una rappresentazione dell’assurdità quotidiana, le crepe del suo cerone sono quelle di un’umanità grottesca che ha fallito il suo scopo, negando le proprie responsabilità e godendosi il benessere. E se scordare il passato vuol dire scordare se stessi, quello di Hans è un grido di autenticità in mezzo alla finzione.

Spregiudicato e tagliente, Heinrich Böll, Nobel per la letteratura nel 1972, mantiene inalterata la sua anima scomoda: il suo Hans, il clown che colleziona istanti, svela il vero volto e il vero odore delle persone accanto a sé, in un ritratto che dal 1963 risuona oggi ancora ferocemente attuale. Il messaggio è cupo e amaro: il mondo è artificio, e il clown, intransigente e disperato, non può che cantare il suo dolore e la sua condanna.

Il clown di Böll è Hans Schnier, la pecora nera di una famiglia ricca e borghese, o meglio, la pecora nera di una società cristiana e benestante. La denuncia a questa realtà, ovvero quella della Germania post-nazista, è di un sarcasmo tagliente e si sviluppa in un intreccio di presente e ricordi passati che si risolve in un tempo effettivo di qualche ora trascorso nel proprio appartamento vuoto, in compagnia di una bottiglia di cognac e delle ultime sigarette.

...la sua capacità di percepire gli odori attraverso la cornetta del telefono – “aveva una voce seria, controllata, molto virile e annusai subito che aveva mangiato qualche cosa di acido, aringhe marinate o roba del genere”

In questo romanzo costruito sul paradosso rivelatore, l’antinomia finale non si gioca nella partita tra Hans e la società, ma tra l’io e se stesso. L’aspettativa del lettore, da parte di un clown, è la risata, il divertimento. Schnier sa farci ridere, con la sua ironia tagliente, ma la sua figura è tragica.

«Ma che tipo di uomo sei, in conclusione?» domandò Leo.
«Sono un clown» risposi «e faccio raccolta di attimi. Ciao.» E riattaccai.

 

La vicenda si svolge nell’arco di circa tre ore in una serata del 1962, a partire dalla quale il clown racconta la sua vita attraverso flashback e visioni: le opinioni dell’io-narrante vengono presentate in modo emotivamente molto intenso, mentre i fatti vengono rievocati unicamente dal punto di vista soggettivo.

A sessant’anni dalla pubblicazione di un romanzo che adesso può definirsi a ragione “storico”, l’importanza che aveva la Chiesa cattolica per la politica e la società del dopoguerra è diventata inimmaginabile. Finita la guerra e largamente sradicata la “fede nel nazionalsocialismo”, in seno alla società l’esigenza di un “senso” di natura religiosa era molto sentita. Nella storia tedesca, la Chiesa cattolica e il clero non avevano mai avuto così tanta influenza: la gente si orientava sulla base di una religiosità normata dalla Chiesa, la cui autorità morale era ampiamente riconosciuta.

Hans Schnier si oppone a norme e convenzioni religiose e sociali che ostacolano il suo progetto di vita. E allora, sebbene non venga mai esplicitata, una domanda si impone con forza: chi è che definisce queste norme e stabilisce queste convenzioni? Nel 1982, in una prefazione a “Wege im Labyrinth” (Sentieri nel labirinto) di Walter Warnach, Böll scriveva che il romanzo era stato progettato come forma di “resistenza a forze e gruppi compiaciuti di sé stessi, che dichiarano di avere il diritto di proprietà su qualcosa che in realtà non è affatto possibile possedere come fosse un bene registrato al catasto: cristianesimo e democrazia”. Hans Schnier incarna in maniera radicale, caratteristica dei romanzi scritti in prima persona, questa spinta soggettiva a resistere. Nel romanzo, l’apparato della Chiesa cattolica sembra una potente macchina burocratica che serve ad imporre un “certo ordine”, a controllare, regolare e moralizzare i bisogni umani, minacciando punizioni e dimostrandosi autoritaria, impietosa e inesorabile. È evidente, spiegava Böll nel 1969 in un’intervista con l’emittente radiofonica Norddeutscher Rundfunk, che debba esserci una qualche forma di guida:

“ma la gestione totale è in realtà un processo fascista che, secondo me, è presente anche in questo mondo apparentemente democratico. È quello che cerco di esprimere in quanto autore, senza qualificarlo di fascismo, perché fascismo è solo una parola, diciamo pure controversa, che comprende in sé una molteplicità di fenomeni. Ma per dire questo, per esprimere che nella società sono presenti elementi di questo tipo, ho bisogno di un intero romanzo in cui la parola fascismo neanche compare.”

Per Böll, il punto era distruggere dall’interno le strutture autoritarie della società e per rappresentarle utilizzava la Chiesa cattolica, l’esempio a lui più noto e familiare. “Però credo che il discorso valga anche per altre strutture autoritarie. Per me, si tratta di un problema che non è religioso, ma strutturale”, dichiarava nel marzo del 1969, intervistato da Klaus Colberg per l’emittente radiofonica Österreichischer Rundfunk.

L’attualità del ragionamento di Böll sta nella figura del clown che si ribella a forme e convenzioni che gli vengono imposte e che intralciano la realizzazione del suo progetto di vita, e proprio questo potrebbe rivelarsi interessante per una ri-lettura contemporanea o per giovani lettrici e giovani lettori: il clown, infatti, mette in discussione paradigmi predefiniti difendendo il proprio desiderio individuale di libertà e, anche a rischio dell’emarginazione sociale, rifiuta di conformarsi alle aspettative. Le specifiche contraddizioni con le quali si confronta il clown nel romanzo sono ormai in gran parte obsolete, ma il paradigma dell’affermazione di un’autonomia individuale contro le pretese della società non è cambiato. È là che troviamo un’esortazione a una vita di resistenza, tanto più valida in una società democratica che proprio di questa pluralità ha bisogno.

Non si sa mai che cosa una persona può fare sotto la pressione ideologica.

É il destino di Bonn che non si creda al destino che le è stato assegnato.

Avevo contato su una voce morbida da suora, su un odore di caffè lungo e di dolcini secchi, e invece: una gracidante voce maschile e un odore di cavolo e di tabacco ordinario, così penetrante che mi venne subito da tossire.

Metodi decisamente troppo fiacchi, al giorno d'oggi gridò; troppo fiacchi.

Naturale replicai ci vorrebbero più frustate nella scuola.

Vero? gridò lui infiammandosi.

Sicuro.

Specialmente gli insegnanti dovrebbero prenderne un bel po' di più.

La sua voce aveva un tono didattico, ma io ero troppo stanco per afferrare i suoi concetti; mi sfuggivano, scivolavano via.

Risvegliare Fredebeul in persona anche dal sonno più profondo non mi avrebbe minimamente disturbato; quell'individuo non ha mai meritato un sonno tranquillo, è di un'ambizione patologica, probabilmente ha sempre la mano sul telefono, pronto a fare telefonate o a riceverne da sottosegretari, funzionari ministeriali, redattori, comitati centrali, associazioni di categoria e dal partito.

Una volta, quando la conversazione era diventata troppo pesante, l'avevo aiutata a preparare dei toasts, a fare dei sandwiches e il caffè, tutti lavori di cui posso dire soltanto che mi ripugnano assai meno di certe forme di conversazione.

La signora Fredebeul era troppo giovane per poter sapere fino a qual punto mi avrebbe colpito quella sua innaturale freddezza; ma non potevo pretendere che si rendesse conto che suo marito non è niente di più di un chiacchierone opportunista, che vuol far carriera ad ogni costo e che "lascerebbe perdere" anche sua nonna, se questa gli fosse d'impiccio.

Per uomo intendo una persona che sa accettare il suo destino.

Lasci stare queste sciocchezze, Schnier.

Che cos'ha ancora, adesso? I cattolici mi rendono nervoso perché sono sleali.

E i protestanti? domandò ridendo.

Quelli mi fanno star male con quel loro pasticciare intorno alla coscienza.

E gli atei? Rideva ancora.

Quelli mi annoiano perché parlano sempre di Dio.

E lei che cos'è, in conclusione? Io sono un clown risposi attualmente molto migliore delle mie quotazioni.

Credo che non ci sia nessuno al mondo che capisca un clown, e neppure un clown capisce l'altro.

Sotto il nome di felicità non riesco a immaginare niente che possa durare più di uno, forse due o tre secondi.

Crudeltà là dove misericordia sarebbe l'unica cosa umana.

(una sola cosa è sicura: chi "colleziona" arte non è artista).

Mi annoio di me stesso. Quando penso che vi sono dei clown che ripetono gli stessi numeri per trent'anni di seguito, mi prende una tale paura, come se fossi condannato a mangiare a cucchiaiate un intero sacco di farina.

Adesso il ginocchio ferito era una buona scusa per star disteso sul divano, fumare sigarette e inalare auto-compassione.

In ogni grande stazione arrivano ogni mattina migliaia di persone che lavorano in città e ne partono migliaia che lavorano fuori.

Perché tutta questa gente non si scambia semplicemente il posto di lavoro? Oppure le code interminabili di automobili che si affannano in un senso e nell'altro nelle ore di punta.

Scambio dei posti di lavoro o delle abitazioni, e tutto quell'inutile puzzo, quel drammatico gesticolare dei vigili sarebbe evitato; agli incroci ci sarebbe un tale silenzio che ci si potrebbe giocare a "Mensch-rgeredich-nicht".

Di tutte queste osservazioni feci una pantomima in cui lavoro soltanto di mani e di piedi, il viso immobile e bianchissimo sempre al centro, e con le mie quattro estremità riesco a dare l'impressione di una quantità enorme di movimenti inconsulti.

Per il numero "Andata e ritorno dalla scuola" non mi occorre neppure una cartella, la mano che la regge è sufficiente, da un tram che passa scampanellando corro all'ultimo momento attraverso la strada, salto sull'autobus, discendo, mi distraggo guardando le vetrine, scrivo con il gesso sui muri errori di ortografia, mi trovo troppo tardi davanti al maestro che mi sgrida, mi tolgo la cartella dalle spalle e scivolo nel banco. Riesco molto bene a rappresentare l'elemento lirico nell'esistenza infantile; nella vita di un bambino il banale ha una sua grandezza, è estraneo, fuori dell'ordine, sempre tragico.

Anche un bambino non ha mai una pausa di riposo dall'essere bambino; soltanto quando si cominciano ad accettare i "principi dell'ordine" comincia il riposo serale.

Maria continuava a dire che aveva bisogno di respirare "aria cattolica".

Credo che per lui l'individuo non cattolico non esiste.

...un artista non può far altro che fare quello che fa: dipingere quadri, girare da una città all'altra recitando come clown, cantare canzoni, scolpire dalla pietra o dal granito qualcosa di "duraturo".

Non c'è niente di più deprimente per la gente di un clown che fa compassione.

É come un cameriere che arriva sulla poltrona a rotelle a portarle la birra.

Oggi i tedeschi sono ancora più attaccati e devoti ai titoli nobiliari di quanto lo fossero nel 1910.

Non mancano persone ritenute intelligenti che si contendono in tutti i modi le conoscenze tra i nobili.

Vicino a noi c'era un tizio grande e grosso che si stava bevendo rumorosamente la sua birra, sbatteva la bocca e ad ogni sorso si leccava la schiuma dalle labbra; mi guardava come se volesse rivolgermi la parola.

Io ho paura di sentirmi rivolgere la parola da una determinata classe di tedeschi di mezza età e mezzo ubriachi; parlano sempre della guerra, trovano che era magnifico e quando sono sbronzi del tutto salta fuori che sono degli assassini e che trovano che tutto "non era poi così tremendo".

...e neppure il più sporco ubriaco che va da una prostituta è soltanto un corpo, come non lo è la prostituta stessa.

...se ne stanno protetti dietro al loro bastione di dogmi, sbandierando i principi da essi ricavati;

Non è sciatteria replicai soltanto una forma di distensione.

Ti sembrerà certamente stupido se ti dico una parola grossa disse; ma sai che cosa ti manca? Ti manca proprio quello che fa di un individuo un vero uomo: la capacità di farsi una ragione delle cose.

Mio Dio, hai davvero tanto tempo per stare davanti alla televisione? Sì risposi dopo quella storia, come tu la chiami, guardo la televisione, mi fa sentire magnificamente vuoto.

Mi dà il vuoto integrale.

Ero stanco morto, avevo mal di stomaco, mal di testa e stavo così irrigidito dietro alla poltrona che il ginocchio prese a gonfiarsi ancora di più.

Dietro le mie palpebre abbassate vedevo la mia faccia come la conoscevo da migliaia di ore di esercizi allo specchio, perfettamente immobile, il trucco di un bianco gesso, neppure le ciglia si muovevano, neppure le sopracciglia; muovevo soltanto gli occhi, lentamente, a destra e a sinistra, di qui e di là come un coniglio impaurito, per raggiungere quell'effetto che critici come Genneholm hanno chiamato "quella straordinaria, incredibile facoltà di rappresentare la malinconia animale".

Ero morto e imprigionato nel mio viso per un tempo senza fine, nessuna possibilità di salvarmi negli occhi di Maria.

Sai di che cosa avevo sempre fame da bambino? Mio Dio, di che cosa? domandò impaurito.

Di patate risposi.

Ma la mamma allora aveva già la sua idea fissa delle diete dimagranti, tu lo sai che lei ha sempre anticipato i tempi, e la nostra casa formicolava di quegli stupidi chiacchieroni di cui ciascuno aveva una diversa teoria sull'alimentazione; ma purtroppo in nessuna di queste teorie la patata svolgeva una funzione positiva.

essere sempre di buon umore, cosa che ovviamente è possibile soltanto "in una bene equilibrata situazione finanziaria" come si sarebbe espresso papà.

Che cos'era che rendeva questo uomo così gentile (mio padre), tanto duro e forte; perché alla televisione parlava di doveri sociali, di coscienza statale, di Germania, persino di cristianesimo, lui che per sua stessa ammissione non ci credeva, e ne parlava in un modo che si era addirittura costretti a credergli? Non poteva essere proprio altro che il denaro, non il denaro concreto, quello con cui si compera il latte o si viaggia in tassì, ci si mantiene un'amica o si va al cinema; no, il denaro astratto.

L'eterno denaro.

L'eterno amore.

Improvvisamente presi il marco che avevo in tasca e lo gettai in strada.

Me ne pentii nello stesso istante, cercai di seguirlo con gli occhi, non lo vidi; credetti però di udire il rumore della moneta che cadeva sul tetto di un tram che passava.

Talvolta mi accade anche esattamente il contrario: che quello che mi è VERAMENTE accaduto mi appare irreale, non vero.

Quello che gli altri chiamano realtà, ma appare immaginario.

Mi ritirai dalla finestra, abbandonai ogni speranza di riavere il mio marco che giaceva laggiù nel fango, andai in cucina a imburrarmi un'altra fetta di pane.

Sua moglie è bella in un modo che non si capisce bene se è un essere vivente o soltanto una bambola con la molla caricata.

Tutto il contributo che portava alla conversazione consisteva in due espressioni: "Oh, che carino!" e "Oh, che orrore!".

Era un uomo molto vecchio, con una bella barba bianca e un viso molto buono e un'aria di candore e di mansuetudine che mi spaventò.

Naturalmente, a tutti quelli che conosceva, Herbert raccontava di essere stato nazista e antisemita, ma che "la storia gli aveva aperto gli occhi".

E pensare che ancora il giorno prima che gli americani entrassero a Bonn aveva fatto esercitare i ragazzini nel parco di casa nostra e aveva detto loro: Quando vedete il primo porco ebreo, avanti a tutta forza con le granate.

Kalick non lo avrebbero mai mandato al fronte, quello era "in linea", così come lo è oggi.

É il tipo nato per essere in linea con le idee del momento.

Kalick non era altro che uno spudorato che si era dedicato alla politica e dove passava lasciava dietro di s‚ soltanto persone offese dalla sua spudoratezza.

Il pensiero del "jour fixe" della mamma mi divertiva.

Finalmente avrei avuto anch'io qualcosa del denaro dei miei genitori: olive e mandorle salate, sigarette.

Avrei messo in tasca anche un bel fascio di sigari e poi li avrei rivenduti sottocosto.

Avrei strappato le onorificenze dal petto di Kalick e lo avrei preso a schiaffi.

Al suo confronto persino mia madre mi pareva umana.

Pensavo anche alle innumerevoli ragazze belle e giovani il cui destino era di fare la "cosa" o per denaro con dei tipi come Kalick, oppure gratuitamente con un marito, senza averne affatto voglia.

Per l'amor di Dio esclamò ma non s'è reso conto dell'elemento dialettico nella mia esposizione? No risposi io sono un povero diavolo molto semplice, sincero e privo di complicazioni.

Come lui diceva, quello che disturbava in tutto questo era l'elemento irrazionale.

Come se il denaro fosse una cosa razionale.

I momenti della vita non si possono ripetere e neppure si possono dividere con altri.

Tanto diaboliche possono essere le conseguenze del sentimentalismo.

Gli attimi bisognerebbe lasciarli così come si sono vissuti, mai tentare di ripeterli, di riviverli...

Il problema di Karl è solo un problema di denaro.

Se avesse un appartamento di sette locali, l'irritazione, l'affanno che lo domina potrebbero essere evitati.

... io ero pericolosamente soggettivo.

... per me Maria era cattolica in modo così istintivo, naturale che mi pareva giusto aiutarla a mantenersi fedele a questa sua natura.

Il premio Nobel per la Letteratura

Per la sua scrittura che con la relativa combinazione di vasta prospettiva sul suo tempo e di un’abilità sensibile nella descrizione ha contribuito a un rinnovamento della letteratura tedesca.

Il corpus letterario di Heinrich Böll fu definito dalla critica come Trűmmerliteratur, che si può tradurre in italiano come “letteratura delle macerie”. Nei romanzi dello scrittore tedesco le macerie infatti assurgono al ruolo di coprotagoniste delle storie, sia in senso letterale che metaforico.

Mi spalmai la faccia di vaselina e spezzai un vecchio tubo di biacca mezzo secco, ne spremetti fuori tutto quello che c'era ancora dentro e mi stesi la biacca su tutta la faccia: non un solo segno nero, non un punto rosso, tutto bianco, anche le sopracciglia ricoperte di bianco; sotto tutto quel bianco i capelli sembravano una parrucca, la bocca, pulita, era scura, quasi bluastra, gli occhi azzurri come un cielo di pietra, vuoti come quelli di un cardinale che non vuole confessare neppure a se stesso di aver già perso la fede da molto tempo.

Non avevo neppure paura di me stesso.

Con questa faccia potevo far carriera, potevo persino accingermi a fare dell'ipocrisia sulla cosa che nella sua miseria, nella sua stupidità mi era ancora la più simpatica: la cosa nella quale Edgar Wieneken credeva.

assegni sbarrati

Sono un clown risposi e faccio raccolta di attimi.

Mi ero dato la biacca sul viso un po' troppo spessa, il tubo era vecchio e il contenuto di grasso in tutti quegli anni si era disseccato, e ora vidi nello specchio che lo strato di bianco aveva già delle screpolature, era coperto di segni come il viso di una statua appena dissepolta nel corso di scavi archeologici.

I capelli scuri, sopra, facevano proprio l'effetto di una parrucca.

Avevo voglia di piangere: la biacca sul viso me lo impediva, era così perfetta con quelle crepe, con quei punti in cui il gesso cominciava a sfogliarsi; le lacrime avrebbero rovinato tutto.

L'abito professionale è la corazza migliore che esista, vulnerabili sono soltanto i santi o i dilettanti.

Mi ritrassi dallo specchio, mi ritrassi profondamente in me stesso e nello stesso tempo mi staccai.

destino

 


lunedì 3 febbraio 2025

Robert Kennedy, Discorso sul Pil, 18 marzo 1968, Kansas University

Robert Kennedy, Discorso sul Pil, 18 marzo 1968, Kansas University

Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero

perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non

possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese

sulla base del prodotto interno lordo [Gross National Product]. Il PIL comprende anche

l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre

autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.

Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro

che cercano di forzarle […]. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per

vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e

testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste

bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa

che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.

Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o

della gioia dei loro momenti di svago. […] Non comprende la bellezza della nostra poesia o la

solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici

dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra

di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la

nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in

breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto

sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.

cose materiali