Le braci (titolo originale A
gyertyák csonkig égnek, letteralmente Le candele bruciano fino in
fondo) è un romanzo dello scrittore ungherese Sándor Márai, pubblicato senza
successo per la prima volta in Ungheria, nel 1942, poi in tedesco nel 1950, in ungherese nel 1990 e, in italiano, nel 1998. Nonostante sia stato per l'autore il
primo grande successo editoriale internazionale, Márai dichiarò di non amare
questo romanzo, ritenendolo "eccessivamente romantico".[1]
"Come le persone appartenenti allo stesso gruppo
sanguigno sono le uniche che possano donare il loro sangue a chi è vittima di
un incidente, così anche un'anima può soccorrerne un'altra solo se non è
diversa da questa, se la sua concezione del mondo è la stessa, se tra loro
esiste una parentela spirituale"
"Quando il destino, sotto qualsiasi forma, si rivolge
direttamente alla nostra individualità, quasi chiamandoci per nome, in fondo
all'angoscia e alla paura esiste sempre una specie di attrazione, perché l'uomo
non vuole soltanto vivere, vuole anche conoscere fino in fondo e accettare il
proprio destino, a costo di esporsi al pericolo e alla distruzione. Si
sacrifica volentieri agli dèi una parte di felicità, perché essi sono
invidiosi, e se regalano a un comune mortale un anno di felicità, si può essere
certi che prenderanno immediatamente nota di quel debito per poi esigerne la
restituzione alla fine della vita, praticando tassi da usurai"
"Tutto ciò cui giurammo fedeltà non esiste
più"..."Sono tutti morti oppure se ne sono andati, hanno rinunciato a
tutto quello che giurammo di difendere. Esisteva un mondo per il quale valeva
la pena di vivere e di morire. Quel mondo è morto. Quello nuovo non fa più per
me..."
Il tradimento quindi è doppio: sentimentale e morale. Del
resto il generale se lo aspettava, la sua amicizia con Konrad è sempre stata
condizionata da un diverso sentire. La musica, le riunioni mondane, le donne,
la vita in caserma. I due giovani sono uniti ma su sponde opposte. Konrad non
vuole accettare nulla da lui, per senso dell'onore, nonostante non abbia i
mezzi per potersi permettere la vita brillante e spensierata dell'amico. Si
chiude in casa, vive in un mondo di idee, legge molto. È un artista e un sicuro
interprete e conoscitore d'arte. Mentre il generale si trova a proprio agio
nelle feste affollate, a caccia, a cavallo, nelle attività militari[4].
Perché conta anche
l’istante - il tempo determina le cose a suo capriccio, e ad esso noi dobbiamo
adeguare le nostre azioni. A volte il tempo ci offre una possibilità, legata
appunto a un istante preciso, ma se ce lo lasciamo sfuggire non possiamo fare
più nulla
La balia disse: “Vuoi che tutto sia come in
passato?” “Sì” disse il generale. “Esattamente così. Come l’ultima volta.”
Il
castello di Henrik è un personalissimo monumento all’attesa.
Il passato non è un tempo, ma un luogo.
Konrad è scappato, Henrik è rimasto.
titolo originale de Le braci sia A
gyertyák csonkig égnek, letteralmente “Le candele bruciano fino in
fondo”.
Lo spazio
e il tempo si sovrappongono generando un nuovo universo che fluttua
in parallelo, ordinato ma anarchico al tempo stesso,
Era bassa di statura, ma muscolosa e tranquilla come se il
suo corpo fosse a conoscenza di qualche segreto. Come se nascondesse qualcosa,
nelle ossa, nel sangue, nella carne, il mistero del tempo e della vita,
qualcosa che non si può comunicare agli altri e non si può tradurre in una
lingua diversa: un segreto che le parole non sono in grado di sostenere.
Talvolta sul castello e sulla famiglia splendeva il sole, e
allora, nella contentezza generale, ci si accorgeva con stupore che anche Nini
sorrideva.
La balia si sedette. Nel corso dell’ultimo anno era
invecchiata. Superati i novanta, si invecchia in maniera diversa rispetto a
quanto avviene dopo i cinquanta o i sessanta. Si invecchia senza risentimento.
La balia disse:
«Vuoi che tutto sia come in passato?».
«Sì» disse il generale. «Esattamente così. Come l’ultima
volta».
«Va bene» essa annuì laconica.
Aveva mandato indietro il pranzo, accontentandosi di una
tazza di tè freddo. Stava sdraiato sul sofà, nella stanza immersa nella
penombra. Al di là delle pareti fresche ronzava e fermentava l'estate. Nel
dormiveglia percepiva il ribollire della luce, lo stormire delle fronde
avvizzite nelle folate calde e i mille rumori del castello.
Ora che aveva superato la sorpresa si sentiva improvvisamente
stanco. Si trascorre una vita intera preparandosi a qualcosa. Prima ci si sente
offesi e si vuole vendetta. Poi si attende. Da molto tempo, ormai, attendeva.
Nel corso del tempo tutto si conserva, però si scolorisce come
quelle fotografie di un passato ormai lontano che venivano fissate su una
lastra di metallo. La luce e il tempo sfumano i tratti più nitidi e spiccati,
che a poco a poco scompaiono dalla lastra. Bisogna rigirare l’immagine perché
la luce cada da una certa angolazione, per poter individuare, su quella
superficie confusa, la persona i cui lineamenti erano riflessi un tempo dal suo
specchio. Così sbiadiscono nel corso degli anni tutti i ricordi umani.
Il castello era un mondo a sé stante, come quei grandi e
sfarzosi mausolei di pietra in cui languono le ossa di intere generazioni e si
dissolvono le vesti funebri di seta grigia o panno nero di donne e uomini
vissuti in altri tempi.
Le maniglie delle porte conservavano il tremito di una mano,
l’emozione dell’attimo in cui essa aveva esitato a completare il suo gesto.
Il collegio era situato nei dintorni di Vienna, sulla cima di
una collina. Era un edificio giallo, dalle finestre del secondo piano si
potevano vedere la città vecchia con le sue strade rigorosamente dritte, la
residenza estiva dell’imperatore, i tetti di Schönbrunn e i viali ritagliati
fra le chiome potate degli alberi all’interno del grande parco. Nei candidi
corridoi dai soffitti a volta, nelle aule scolastiche, nel refettorio, nelle
camerate, ogni cosa era ancorata saldamente al suo posto, come se quello fosse
l’unico luogo al mondo in cui tutto ciò che nella vita è caotico e superfluo
fosse stato finalmente sistemato e messo in ordine.
«Un bel giorno siamo destinati a perdere la persona che
amiamo. E se qualcuno non sopporta il colpo, peggio per lui: non è un uomo di
carattere»
Ma in fondo all’animo nascondevi un impulso spasmodico: il
desiderio di essere diverso da quello che eri. È il tormento più crudele che il
destino possa riservare a un uomo. Essere diversi da ciò che siamo, da tutto
ciò che siamo, è il desiderio più nefasto che possa ardere in un cuore umano.
Giacché l’unico modo per sopportare la vita è quello di rassegnarci a essere
ciò che siamo ai nostri occhi e a quelli del mondo. Dobbiamo accontentarci di
essere fatti in un certo modo e sapere che, una volta accettata questa realtà,
la vita non ci loderà per la nostra saggezza, nessuno ci conferirà una medaglia
al merito solo perché ci siamo rassegnati a essere vanitosi ed egoisti, o calvi
e panciuti – no, in cambio di questa presa di coscienza non otterremo né premi
né lodi. Dobbiamo sopportarci quali siamo, il segreto è tutto qui. Sopportare
il nostro carattere, la nostra natura di fondo, con tutti i suoi difetti, il
suo egoismo e la sua cupidigia, che non saranno corretti né dall’esperienza né
dalla buona volontà. Dobbiamo accettare che i nostri sentimenti non siano
contraccambiati, che le persone che amiamo non rispondano al nostro amore, o
almeno non nel modo che vorremmo. Dobbiamo sopportare il tradimento e
l’infedeltà, e soprattutto la cosa che ci riesce più intollerabile: la
superiorità intellettuale o morale di un’altra persona.
Il cervo stava in guardia, era immobile, come ipnotizzato,
perché il pericolo esercita sempre un certo potere ipnotico. Quando il destino,
sotto qualsiasi forma, si rivolge direttamente alla nostra individualità, quasi
chiamandoci per nome, in fondo all’angoscia e alla paura esiste sempre una
specie di attrazione, perché l’uomo non vuole soltanto vivere, vuole anche
conoscere fino in fondo e accettare il proprio destino, a costo di esporsi al
pericolo e alla distruzione. Immagino che anche il cervo abbia provato qualcosa
di simile.
l’uomo è fatto in modo che, per compiere un atto eccezionale,
ha sempre bisogno di un pretesto concreto.
C’è un senso di vergogna più doloroso di qualsiasi altro,
quello che deve provare la vittima quando è costretta a guardare in faccia il
suo assassino.
La tavola era stata apparecchiata nella grande sala da
pranzo, come stasera, con le stesse decorazioni, ma allora in mezzo a noi c’era
Krisztina. Al centro del tavolo ardevano delle candele azzurre. Lei amava la
luce delle candele, amava tutto ciò che le ricordava il passato, le forme di
vita più nobili di epoche ormai tramontate.
Il generale
Henrik ha 75 anni. Vive solo con la balia Nini, 91 anni. Krisztina, sua moglie,
è morta all’età di 30 anni. Anemia perniciosa, pare. Da 8 anni i due non si
incontravano più. Lui viveva nel casino di caccia, lei a palazzo. Due ore di
carrozza, il tempo per annullare la distanza siderale dei cuori. Nini dice che
il suo, Henrik, è stato l’ultimo nome sussurrato prima che la vita se ne
andasse via.
“La fedeltà non è forse
una sorta di terribile egoismo e vanità, come lo sono la maggior parte delle
esigenze umane?”
Sándor Márai, Le braci, Adelphi
Amicizia e Tradimento
Il fulcro del romanzo è il rapporto
tra due vecchi amici, Henrik e Konrad, che si rincontrano dopo 41 anni di
separazione. Questo incontro è l’occasione per riaprire ferite mai guarite e
per cercare di risolvere il mistero di un tradimento. L’amicizia tra Henrik, un
aristocratico, e Konrad, di origini modeste, è un esempio del contrasto tra
classi sociali diverse e della tensione tra lealtà e rivalità. Márai esplora
come l’amore e la gelosia possano distruggere legami profondi e come la fiducia
infranta possa segnare indelebilmente la vita delle persone coinvolte.
Il Tempo e la memoria
Il
tempo gioca un ruolo cruciale in “Le Braci”. La narrazione è in gran parte un
lungo monologo di Henrik, che ripercorre gli eventi passati con un’attenzione
quasi ossessiva ai dettagli. Il tempo trascorso ha trasformato i protagonisti,
ma ha anche cristallizzato i ricordi, rendendoli quasi tangibili nella loro
intensità emotiva. Márai mostra come la memoria possa essere selettiva e come
il passato possa influenzare profondamente il presente, impedendo ai personaggi
di vivere pienamente nel momento attuale.
“Le Braci” riflette
la decadenza dell’aristocrazia ungherese e il cambiamento sociale dell’Europa
centrale tra le due guerre mondiali. Márai, con il suo stile elegante e
introspezione psicologica, cattura l’essenza di un’epoca in dissoluzione,
segnando la fine di un mondo e l’inizio di un altro. La nostalgia per un
passato glorioso e la consapevolezza della sua irreversibilità permeano il
romanzo, rendendo “Le Braci” non solo
una storia personale, ma anche un ritratto
storico e culturale di un’epoca.
“Esiste una cosa peggiore della morte e di qualsiasi sofferenza, la
perdita della stima di sé.”
«Non appena te ne sei andato si ritira anche Krisztina»
Perché in giorni come questi il particolare linguaggio
simbolico della vita si rivolge a noi in mille modi, tutto diventa
avvertimento, tutto, purché si riesca a comprenderlo, diventa segno e immagine.
Mi appare chiara tutta l’importanza di quella giornata: essa
ha diviso in due la mia vita, come un paesaggio spaccato in due da un terremoto
– da una parte l’infanzia, tu e tutto ciò che significava la vita passata,
dall’altra l’oscura, incommensurabile distesa che mi toccherà percorrere, il
tempo che mi resta da vivere. Un abisso separa le due parti. Cosa è accaduto?
«Sono estremamente rare le persone le cui parole coincidono
alla perfezione con la realtà della loro vita. Forse è il fenomeno più raro che
esista al mondo. A quei tempi non lo sapevo ancora.
Penso però che è inutile accumulare esperienze, conoscere la
verità, perché non siamo in grado di cambiare la nostra natura di fondo. Forse
il massimo che possiamo fare nella vita è adattare alla realtà del mondo, con
intelligenza e cautela, la realtà immutabile della nostra natura.
...possiamo comprendere l’essenziale solo partendo dai
particolari, questa è l’esperienza che ho tratto sia dai libri che dalla vita.
Alle nostre spalle la guerra e la rivoluzione, dinanzi a noi
il caos politico ed economico, il tempo sospetto della rivalutazione dei
valori, la moda degli slogan» (Le confessioni di un borghese, 1935).
Ormai poteva considerarsi a casa dovunque. Fu da allora che
non si sentì più a casa in nessun posto.
«In questa patria ufficiale, storica, blasonata, codificata,
poliziesca, marziale, imbandierata, fanatizzata, occorre cercare sempre più
ostinatamente, con devozione, costanza, tenerezza e compassione, la vera patria
che forse è la lingua o forse l’infanzia, una via ombreggiata dai platani...»
(Cielo e terra, 1942).
Márai, in vecchiaia, dichiarò di non amare il romanzo,
ritenendolo «eccessivamente romantico».
«Non ho potere né armi da contrapporre alla nostra epoca e al
mondo se non quelli della scrittura. Si tagliano a pezzi i paesi per poi
ricucirli in maniera diversa, si violano gli accordi, si riducono in schiavitù
intere generazioni per edificare le piramidi delle nuove chimere, si fanno
saltare i ponti che congiungevano gli animi... Perché resisto nonostante tutto?
Cosa mi infonde coraggio, in che confido? L’unica cosa che mi dà forza è la
fede nell’esistenza invulnerabile ed eterna di uno Spirito freddo, limpido,
autentico, inflessibile, che non si può negare impunemente, non si lascia
contraffare e sopravvivrà dimostrandosi più forte di tutto il resto».
Inizialmente si ritirò con la moglie sulla collina di
Posillipo, a Napoli, città che Márai considerava «una delle ultime in cui la
parola civilitas possieda ancora un significato tangibile e quotidiano». Nel
1952 si stabilì a New York, di cui scrisse: «Città interessante. Peccato che
non sia fatta per essere abitata da esseri umani». Nel 1968, pur avendo
acquisito nel frattempo la cittadinanza americana, si trasferì di nuovo in
Italia stabilendosi a Salerno. Nel 1979 tornò definitivamente negli Stati
Uniti, a San Diego, dove nel 1989, alla vigilia della svolta democratica nei
paesi dell’Est, pose fine alla sua vita sparandosi un colpo di pistola.
«Può darsi che la solitudine distrugga l’uomo, così come ha
fatto con Pascal, Hölderlin e Nietzsche. Ma questo fallimento, questa frattura,
sono comunque più degni di un uomo di pensiero di quanto non lo sia la sua
connivenza con un mondo che prima lo contagia con le sue seduzioni dolci e
perverse e poi lo scaraventa nella fossa. Tu precipita più in basso, nella
voragine della solitudine. Perirai ugualmente, ma con la tua caduta avrai
sostenuto il destino che governa la tua anima e la tua opera. Rimani solo e
ricorda. Rimani solo e osserva. Rimani solo e rispondi. Non illuderti: non
esistono soluzioni diverse. Rimani solo, anche a costo della vita» (Cielo e
terra).
Il tormentato soliloquio che si protrae per più di metà delle
Braci termina quando Henrik si rende conto di aver atteso invano, per quarantun
anni, una rivincita che doveva risarcirlo dei torti subiti in passato e si
rivela invece un’illusione nel breve arco di tempo in cui si compie.
«L’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore»
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