lunedì 24 febbraio 2025

Le braci - A gyertyák csonkig égnek - Sándor Márai,

 

Le braci (titolo originale A gyertyák csonkig égnek, letteralmente Le candele bruciano fino in fondo) è un romanzo dello scrittore ungherese Sándor Márai, pubblicato senza successo per la prima volta in Ungheria, nel 1942, poi in tedesco nel 1950, in ungherese nel 1990 e, in italiano, nel 1998. Nonostante sia stato per l'autore il primo grande successo editoriale internazionale, Márai dichiarò di non amare questo romanzo, ritenendolo "eccessivamente romantico".[1]

 

"Come le persone appartenenti allo stesso gruppo sanguigno sono le uniche che possano donare il loro sangue a chi è vittima di un incidente, così anche un'anima può soccorrerne un'altra solo se non è diversa da questa, se la sua concezione del mondo è la stessa, se tra loro esiste una parentela spirituale

 

"Quando il destino, sotto qualsiasi forma, si rivolge direttamente alla nostra individualità, quasi chiamandoci per nome, in fondo all'angoscia e alla paura esiste sempre una specie di attrazione, perché l'uomo non vuole soltanto vivere, vuole anche conoscere fino in fondo e accettare il proprio destino, a costo di esporsi al pericolo e alla distruzione. Si sacrifica volentieri agli dèi una parte di felicità, perché essi sono invidiosi, e se regalano a un comune mortale un anno di felicità, si può essere certi che prenderanno immediatamente nota di quel debito per poi esigerne la restituzione alla fine della vita, praticando tassi da usurai"

 

"Tutto ciò cui giurammo fedeltà non esiste più"..."Sono tutti morti oppure se ne sono andati, hanno rinunciato a tutto quello che giurammo di difendere. Esisteva un mondo per il quale valeva la pena di vivere e di morire. Quel mondo è morto. Quello nuovo non fa più per me..." 

 

Il tradimento quindi è doppio: sentimentale e morale. Del resto il generale se lo aspettava, la sua amicizia con Konrad è sempre stata condizionata da un diverso sentire. La musica, le riunioni mondane, le donne, la vita in caserma. I due giovani sono uniti ma su sponde opposte. Konrad non vuole accettare nulla da lui, per senso dell'onore, nonostante non abbia i mezzi per potersi permettere la vita brillante e spensierata dell'amico. Si chiude in casa, vive in un mondo di idee, legge molto. È un artista e un sicuro interprete e conoscitore d'arte. Mentre il generale si trova a proprio agio nelle feste affollate, a caccia, a cavallo, nelle attività militari[4].

 

 

Perché conta anche l’istante - il tempo determina le cose a suo capriccio, e ad esso noi dobbiamo adeguare le nostre azioni. A volte il tempo ci offre una possibilità, legata appunto a un istante preciso, ma se ce lo lasciamo sfuggire non possiamo fare più nulla

 

 

La balia disse: “Vuoi che tutto sia come in passato?” “Sì” disse il generale. “Esattamente così. Come l’ultima volta.”

 

 

Il castello di Henrik è un personalissimo monumento all’attesa.

Il passato non è un tempo, ma un luogo.

 

Konrad è scappato, Henrik è rimasto. 

 

titolo originale de Le braci sia A gyertyák csonkig égnek, letteralmente “Le candele bruciano fino in fondo”.

 

Lo spazio e il tempo si sovrappongono generando un nuovo universo che fluttua in parallelo, ordinato ma anarchico al tempo stesso, 

 

 

Era bassa di statura, ma muscolosa e tranquilla come se il suo corpo fosse a conoscenza di qualche segreto. Come se nascondesse qualcosa, nelle ossa, nel sangue, nella carne, il mistero del tempo e della vita, qualcosa che non si può comunicare agli altri e non si può tradurre in una lingua diversa: un segreto che le parole non sono in grado di sostenere.

 

Talvolta sul castello e sulla famiglia splendeva il sole, e allora, nella contentezza generale, ci si accorgeva con stupore che anche Nini sorrideva.

 

La balia si sedette. Nel corso dell’ultimo anno era invecchiata. Superati i novanta, si invecchia in maniera diversa rispetto a quanto avviene dopo i cinquanta o i sessanta. Si invecchia senza risentimento.

 

La balia disse:

«Vuoi che tutto sia come in passato?».

«Sì» disse il generale. «Esattamente così. Come l’ultima volta».

«Va bene» essa annuì laconica.

 

Aveva mandato indietro il pranzo, accontentandosi di una tazza di tè freddo. Stava sdraiato sul sofà, nella stanza immersa nella penombra. Al di là delle pareti fresche ronzava e fermentava l'estate. Nel dormiveglia percepiva il ribollire della luce, lo stormire delle fronde avvizzite nelle folate calde e i mille rumori del castello.

 

Ora che aveva superato la sorpresa si sentiva improvvisamente stanco. Si trascorre una vita intera preparandosi a qualcosa. Prima ci si sente offesi e si vuole vendetta. Poi si attende. Da molto tempo, ormai, attendeva.

 

Nel corso del tempo tutto si conserva, però si scolorisce come quelle fotografie di un passato ormai lontano che venivano fissate su una lastra di metallo. La luce e il tempo sfumano i tratti più nitidi e spiccati, che a poco a poco scompaiono dalla lastra. Bisogna rigirare l’immagine perché la luce cada da una certa angolazione, per poter individuare, su quella superficie confusa, la persona i cui lineamenti erano riflessi un tempo dal suo specchio. Così sbiadiscono nel corso degli anni tutti i ricordi umani.

 

Il castello era un mondo a sé stante, come quei grandi e sfarzosi mausolei di pietra in cui languono le ossa di intere generazioni e si dissolvono le vesti funebri di seta grigia o panno nero di donne e uomini vissuti in altri tempi.

 

Le maniglie delle porte conservavano il tremito di una mano, l’emozione dell’attimo in cui essa aveva esitato a completare il suo gesto.

 

Il collegio era situato nei dintorni di Vienna, sulla cima di una collina. Era un edificio giallo, dalle finestre del secondo piano si potevano vedere la città vecchia con le sue strade rigorosamente dritte, la residenza estiva dell’imperatore, i tetti di Schönbrunn e i viali ritagliati fra le chiome potate degli alberi all’interno del grande parco. Nei candidi corridoi dai soffitti a volta, nelle aule scolastiche, nel refettorio, nelle camerate, ogni cosa era ancorata saldamente al suo posto, come se quello fosse l’unico luogo al mondo in cui tutto ciò che nella vita è caotico e superfluo fosse stato finalmente sistemato e messo in ordine.

 

«Un bel giorno siamo destinati a perdere la persona che amiamo. E se qualcuno non sopporta il colpo, peggio per lui: non è un uomo di carattere»

 

Ma in fondo all’animo nascondevi un impulso spasmodico: il desiderio di essere diverso da quello che eri. È il tormento più crudele che il destino possa riservare a un uomo. Essere diversi da ciò che siamo, da tutto ciò che siamo, è il desiderio più nefasto che possa ardere in un cuore umano. Giacché l’unico modo per sopportare la vita è quello di rassegnarci a essere ciò che siamo ai nostri occhi e a quelli del mondo. Dobbiamo accontentarci di essere fatti in un certo modo e sapere che, una volta accettata questa realtà, la vita non ci loderà per la nostra saggezza, nessuno ci conferirà una medaglia al merito solo perché ci siamo rassegnati a essere vanitosi ed egoisti, o calvi e panciuti – no, in cambio di questa presa di coscienza non otterremo né premi né lodi. Dobbiamo sopportarci quali siamo, il segreto è tutto qui. Sopportare il nostro carattere, la nostra natura di fondo, con tutti i suoi difetti, il suo egoismo e la sua cupidigia, che non saranno corretti né dall’esperienza né dalla buona volontà. Dobbiamo accettare che i nostri sentimenti non siano contraccambiati, che le persone che amiamo non rispondano al nostro amore, o almeno non nel modo che vorremmo. Dobbiamo sopportare il tradimento e l’infedeltà, e soprattutto la cosa che ci riesce più intollerabile: la superiorità intellettuale o morale di un’altra persona.

 

Il cervo stava in guardia, era immobile, come ipnotizzato, perché il pericolo esercita sempre un certo potere ipnotico. Quando il destino, sotto qualsiasi forma, si rivolge direttamente alla nostra individualità, quasi chiamandoci per nome, in fondo all’angoscia e alla paura esiste sempre una specie di attrazione, perché l’uomo non vuole soltanto vivere, vuole anche conoscere fino in fondo e accettare il proprio destino, a costo di esporsi al pericolo e alla distruzione. Immagino che anche il cervo abbia provato qualcosa di simile.

 

l’uomo è fatto in modo che, per compiere un atto eccezionale, ha sempre bisogno di un pretesto concreto.

 

C’è un senso di vergogna più doloroso di qualsiasi altro, quello che deve provare la vittima quando è costretta a guardare in faccia il suo assassino.

 

La tavola era stata apparecchiata nella grande sala da pranzo, come stasera, con le stesse decorazioni, ma allora in mezzo a noi c’era Krisztina. Al centro del tavolo ardevano delle candele azzurre. Lei amava la luce delle candele, amava tutto ciò che le ricordava il passato, le forme di vita più nobili di epoche ormai tramontate.

Il generale Henrik ha 75 anni. Vive solo con la balia Nini, 91 anni. Krisztina, sua moglie, è morta all’età di 30 anni. Anemia perniciosa, pare. Da 8 anni i due non si incontravano più. Lui viveva nel casino di caccia, lei a palazzo. Due ore di carrozza, il tempo per annullare la distanza siderale dei cuori. Nini dice che il suo, Henrik, è stato l’ultimo nome sussurrato prima che la vita se ne andasse via.

 

La fedeltà non è forse una sorta di terribile egoismo e vanità, come lo sono la maggior parte delle esigenze umane?”

Sándor Márai, Le braci, Adelphi

 

Amicizia e Tradimento

Il fulcro del romanzo è il rapporto tra due vecchi amici, Henrik e Konrad, che si rincontrano dopo 41 anni di separazione. Questo incontro è l’occasione per riaprire ferite mai guarite e per cercare di risolvere il mistero di un tradimento. L’amicizia tra Henrik, un aristocratico, e Konrad, di origini modeste, è un esempio del contrasto tra classi sociali diverse e della tensione tra lealtà e rivalità. Márai esplora come l’amore e la gelosia possano distruggere legami profondi e come la fiducia infranta possa segnare indelebilmente la vita delle persone coinvolte.

 

Il Tempo e la memoria

Il tempo gioca un ruolo cruciale in “Le Braci”. La narrazione è in gran parte un lungo monologo di Henrik, che ripercorre gli eventi passati con un’attenzione quasi ossessiva ai dettagli. Il tempo trascorso ha trasformato i protagonisti, ma ha anche cristallizzato i ricordi, rendendoli quasi tangibili nella loro intensità emotiva. Márai mostra come la memoria possa essere selettiva e come il passato possa influenzare profondamente il presente, impedendo ai personaggi di vivere pienamente nel momento attuale.

 

 

“Le Braci” riflette la decadenza dell’aristocrazia ungherese e il cambiamento sociale dell’Europa centrale tra le due guerre mondiali. Márai, con il suo stile elegante e introspezione psicologica, cattura l’essenza di un’epoca in dissoluzione, segnando la fine di un mondo e l’inizio di un altro. La nostalgia per un passato glorioso e la consapevolezza della sua irreversibilità permeano il romanzo, rendendo “Le Braci” non solo

 una storia personale, ma anche un ritratto storico e culturale di un’epoca.

 

 

“I dettagli hanno grande importanza. In un certo senso fungono da adesivo, fissano la materia essenziale dei ricordi.”

 

“Ogni vera passione è senza speranza, altrimenti non sarebbe una passione ma un semplice patto, un accordo ragionevole, uno scambio di banali interessi.”

 

“L’attimo in cui l’uomo è più colpevole non è necessariamente quello in cui solleva l’arma per uccidere qualcuno. La colpa viene prima, la colpa è nell’intenzione.”

 

“Esiste una cosa peggiore della morte e di qualsiasi sofferenza, la perdita della stima di sé.”

 

 

 

 

«Non appena te ne sei andato si ritira anche Krisztina»

 

Perché in giorni come questi il particolare linguaggio simbolico della vita si rivolge a noi in mille modi, tutto diventa avvertimento, tutto, purché si riesca a comprenderlo, diventa segno e immagine.

 

Mi appare chiara tutta l’importanza di quella giornata: essa ha diviso in due la mia vita, come un paesaggio spaccato in due da un terremoto – da una parte l’infanzia, tu e tutto ciò che significava la vita passata, dall’altra l’oscura, incommensurabile distesa che mi toccherà percorrere, il tempo che mi resta da vivere. Un abisso separa le due parti. Cosa è accaduto?

 

«Sono estremamente rare le persone le cui parole coincidono alla perfezione con la realtà della loro vita. Forse è il fenomeno più raro che esista al mondo. A quei tempi non lo sapevo ancora.

 

Penso però che è inutile accumulare esperienze, conoscere la verità, perché non siamo in grado di cambiare la nostra natura di fondo. Forse il massimo che possiamo fare nella vita è adattare alla realtà del mondo, con intelligenza e cautela, la realtà immutabile della nostra natura.

 

...possiamo comprendere l’essenziale solo partendo dai particolari, questa è l’esperienza che ho tratto sia dai libri che dalla vita.

 

 

 

 

Alle nostre spalle la guerra e la rivoluzione, dinanzi a noi il caos politico ed economico, il tempo sospetto della rivalutazione dei valori, la moda degli slogan» (Le confessioni di un borghese, 1935).

 

Ormai poteva considerarsi a casa dovunque. Fu da allora che non si sentì più a casa in nessun posto.

 

«In questa patria ufficiale, storica, blasonata, codificata, poliziesca, marziale, imbandierata, fanatizzata, occorre cercare sempre più ostinatamente, con devozione, costanza, tenerezza e compassione, la vera patria che forse è la lingua o forse l’infanzia, una via ombreggiata dai platani...» (Cielo e terra, 1942).

 

Márai, in vecchiaia, dichiarò di non amare il romanzo, ritenendolo «eccessivamente romantico».

 

«Non ho potere né armi da contrapporre alla nostra epoca e al mondo se non quelli della scrittura. Si tagliano a pezzi i paesi per poi ricucirli in maniera diversa, si violano gli accordi, si riducono in schiavitù intere generazioni per edificare le piramidi delle nuove chimere, si fanno saltare i ponti che congiungevano gli animi... Perché resisto nonostante tutto? Cosa mi infonde coraggio, in che confido? L’unica cosa che mi dà forza è la fede nell’esistenza invulnerabile ed eterna di uno Spirito freddo, limpido, autentico, inflessibile, che non si può negare impunemente, non si lascia contraffare e sopravvivrà dimostrandosi più forte di tutto il resto».

Inizialmente si ritirò con la moglie sulla collina di Posillipo, a Napoli, città che Márai considerava «una delle ultime in cui la parola civilitas possieda ancora un significato tangibile e quotidiano». Nel 1952 si stabilì a New York, di cui scrisse: «Città interessante. Peccato che non sia fatta per essere abitata da esseri umani». Nel 1968, pur avendo acquisito nel frattempo la cittadinanza americana, si trasferì di nuovo in Italia stabilendosi a Salerno. Nel 1979 tornò definitivamente negli Stati Uniti, a San Diego, dove nel 1989, alla vigilia della svolta democratica nei paesi dell’Est, pose fine alla sua vita sparandosi un colpo di pistola.

 

«Può darsi che la solitudine distrugga l’uomo, così come ha fatto con Pascal, Hölderlin e Nietzsche. Ma questo fallimento, questa frattura, sono comunque più degni di un uomo di pensiero di quanto non lo sia la sua connivenza con un mondo che prima lo contagia con le sue seduzioni dolci e perverse e poi lo scaraventa nella fossa. Tu precipita più in basso, nella voragine della solitudine. Perirai ugualmente, ma con la tua caduta avrai sostenuto il destino che governa la tua anima e la tua opera. Rimani solo e ricorda. Rimani solo e osserva. Rimani solo e rispondi. Non illuderti: non esistono soluzioni diverse. Rimani solo, anche a costo della vita» (Cielo e terra).

 

Il tormentato soliloquio che si protrae per più di metà delle Braci termina quando Henrik si rende conto di aver atteso invano, per quarantun anni, una rivincita che doveva risarcirlo dei torti subiti in passato e si rivela invece un’illusione nel breve arco di tempo in cui si compie.

 

«L’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore»

 

 

 

 

 

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