Abecedario Gilles Deleuze
L come letteratura
Scrivere non è raccontare i propri ricordi, i propri viaggi, i propri amori e i propri lutti, i propri sogni e i propri fantasmi. Sarebbe come peccare per eccesso di realtà, o d’immaginazione: in ambedue i casi è l’eterno papà-mamma, struttura edipica che si proietta nel reale o s’introietta nell’immaginario. […] La letteratura segue la via opposta, e si pone solo scoprendo sotto le persone apparenti la potenza di un impersonale che non è affatto una generalità, ma una singolarità al livello più alto: un uomo, una donna, una bestia, un ventre, un bambino… Non sono le prime due persone che servono da condizione dell’enunciazione letteraria; la letteratura incomincia solo quando nasce in noi una terza persona che ci spoglia del potere di dire Io (il “neutro” di Blanchot). Certo, i personaggi letterari sono perfettamente individuati, e non sono né vaghi né generici; ma tutti i loro tratti individuali li elevano a una visione che, come un divenire troppo potente per loro, li trasporta in un indefinito: Achab e la visione di Moby Dick. […] Non si scrive con le proprie nevrosi. La nevrosi, la psicosi, non sono passaggi di vita, ma stati in cui si cade quando il processo è interrotto, impedito, chiuso. La malattia non è processo, ma arresto del processo, come nel “caso Nietzsche”. Così lo scrittore in quanto tale non è malato, ma piuttosto medico, medico di se stesso e del mondo. Il mondo è l’insieme dei sintomi di una malattia che coincide con l’uomo. La letteratura appare allora come un’impresa di salute: non che lo scrittore abbia necessariamente una salute vigorosa, ma gode di un’irresistibile salute precaria che deriva dall’aver visto e sentito cose troppo grandi, troppo forti per lui, irrespirabili, il cui passaggio lo sfinisce, ma gli apre dei divenire che una buona salute dominante renderebbe impossibili. Da quel che ha visto e sentito, lo scrittore torna con gli occhi rossi, i timpani perforati.
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