ENRICO BERLINGUER
IL CILE, L'ITALIA E IL COMPROMESSO STORICO. I TRE ARTICOLI DI ENRICO BERLINGUER (1973)
28.09.1973
IMPERIALISMO E COESISTENZA
ALLA LUCE DEI FATTI CILENI
di Enrico Berlinguer
Gli avvenimenti cileni sono stati e sono vissuti come un dramma da milioni di uomini sparsi in tutti i continenti. Si è avvertito e si avverte che si tratta di un fatto di portata mondiale, che non solo suscita sentimenti di esecrazione verso i responsabili del golpe reazionario e dei massacri di massa, e di solidarietà per chi ne è vittima e vi resiste, ma che propone interrogativi i quali appassionano i combattenti della democrazia in ogni paese e muovono alla riflessione. Non giova nascondersi che il colpo gravissimo inferto alla democrazia cilena, alle conquiste sociali e alle prospettive di avanzata dei lavoratori di quel paese è anche un colpo che si ripercuote sul movimento di liberazione e di emancipazione dei popoli latino-americani e sull’intero movimento operaio e democratico mondiale; e come tale è sentito anche in Italia dai comunisti, dai socialisti, dalle masse lavoratrici, da tutti i democratici e antifascisti.
Ma come sempre è
avvenuto di fronte ad altri eventi di tale drammaticità e gravità, i combattenti
per la causa della libertà e del socialismo non reagiscono con lo scoramento o
solo con la deprecazione e la collera, ma cercano di trarre un ammaestramento.
Inquesto caso l’ammaestramento tocca direttamente masse sterminate
della popolazione mondiale, chiamando vasti strati sociali, non ancora
conquistati alla nostra visione dello scontro sociale e politico che è in atto
nel mondo di oggi, a scorgere e intendere alcuni dati fondamentali della realtà.
Ciò costituisce una delle premesse indispensabili per un’ampia e vigorosa
partecipazione alla lotta volta a cambiare tali dati.
Anzitutto, gli eventi cileni estendono la consapevolezza, contro ogni illusione, che i caratteri dell’imperialismo, e di quello nord-americano in particolare, restano la sopraffazione e la jugulazione economica e politica, lo spirito di aggressione e di conquista, la tendenza a opprimere i popoli e a privarli della loro indipendenza, libertà e unità ogni qualvolta le circostanze concrete e i rapporti di forza lo consentano. In secondo luogo, gli avvenimenti in Cile mettono in piena evidenza chi sono e dove stanno nei paesi del cosiddetto «mondo libero», i nemici della democrazia. L’opinione pubblica di questi paesi, bombardata da anni e da decenni da una propaganda che addita nel movimento operaio, nei socialisti e nei comunisti i nemici della democrazia, ha oggi davanti a sé una nuova lampante prova che le classi dominanti borghesi e i partiti che le rappresentano o se ne lasciano asservire, sono pronti a distruggere ogni libertà e a calpestare ogni diritto civile e ogni principio umano quando sono colpiti o minacciati i propri privilegi e il proprio potere.
Compito dei comunisti e
di tutti i combattenti per la causa del progresso democratico e della
liberazione dei popoli è di far leva sulla più diffusa consapevolezza di queste
verità per richiamare la vigile attenzione di tutti sui percoli che
l'imperialismo e le classi dominanti borghesi fanno correre alla libertà dei
popoli e all’indipendenza delle nazioni, e per sviluppare in masse sempre più
estese l’impegno democratico e rivoluzionario per modificare ulteriormente, nel
mondo e in ogni paese, i rapporti di forza a vantaggio delle classi lavoratrici,
dei movimenti di liberazione nazionale e di tutto lo schieramento democratico
eantimperialistico. Gli avvenimenti del Cile possono e devono suscitare,
insieme a un possente e duraturo movimento di solidarietà con quel popolo, un
più generale risveglio delle coscienze democratiche, e soprattutto un’azione
per l’entrata in campo di nuove forze disposte a lottare concretamente
contro l’imperialismo e contro la reazione.
A questo fine è indispensabile assolvere anche al compito di una attenta riflessione per trarre dalla tragedia politica del Cile utili insegnamenti relativi a un più ampio e approfondito giudizio sia sul quadro internazionale, sia sulla strategia e tattica del movimento operaio e democratico in vari paesi, tra i quali il nostro.
Il peso decisivo dell’interventoUsa
Nessuna persona seria
può contestare che sugli avvenimenti cileni ha pesato in modo decisivo la
presenzae l’intervento dell’imperialismo nord-americano. La coscienza popolare
l’ha avvertito immediatamente. Al di là di pur illuminanti episodi della cronaca
politica e diplomatica relativa ai giorni del golpe e a quelli immediatamente
precedenti,sta il fatto che, fin dall’avvento del governo di Unità popolare i
gruppi monopolistici nord-americani presenti con posizioni dominanti
nell’economia cilena (rame, Itt) e i circoli dirigenti dell’amministrazione
degli Usa hanno intrapreso una sistematica azione su tutti i terreni - dalla
guerra economica alla sovversione - per provocare il fallimento del governo
Allende e per rovesciarlo.
Del resto, questo e altri modi di intervento degli Usa ai danni dei popoli e delle nazioni che aspirano all’indipendenza non sono certo un’eccezione, ma, specialmente nell’AmericaLatina, la regola. Chi non ha presenti i brutali interventi in Guatemala, nella Repubblica dominicana e in tanti altri Stati? E chi non sa che Cuba socialista, con la sua fermezza e con la sua unità, e grazie anche alla solidarietà e al sostegno dell’Unione Sovietica e degli altri paesi socialisti, ha dovuto respingere per anni manovre, provocazioni, boicottaggio economico, attacchi diretti al suo territorio e deve essere sempre vigilante per salvaguardare ancor oggi la propria indipendenza?
Anche in altre zone del mondo, si tratti delle aree sottosviluppate dell’Asia e dell’Africa o si tratti degli stessi paesi di capitalismo avanzato (dal Giappone all’Europa occidentale) non cessano di manifestarsi la penetrazione dell’imperialismo americano e la sua iniziativa, in tutte le forme possibili, per mantenere o estendere le sueposizioni economiche, politiche e strategiche.
Una situazione in movimento e di scontro
Che cosa può contrastare, limitare e far arretrare questa tendenza dell’imperialismo? La risposta più semplice è anche quella più vera: la modificazione progressiva dei rapporti di forza a suo svantaggio e a favore dei popoli che aspirano alla propria liberazione e di tutti i paesi che lottano per un nuovo assetto del mondo e per un nuovo sistema di rapporti tra gli Stati. È proprio in questa direzione che va il processo storico mondiale da quasi sessanta anni, da quando la rivoluzione russa del 1917 ha spezzato per la prima volta la dominazione esclusiva dell’imperialismo e del capitalismo. Da allora, e soprattutto dopo la vittoria sul nazismo, dopola vittoria della rivoluzione cinese e con il crollo del vecchio sistema coloniale inglese e francese, l’area sottoposta al controllo dell’imperialismo si è andata restringendo. Sconfitta la politica folle e avventurosa che pretendeva poi rovesciare i regimi socialisti sorti dopo la seconda guerra mondiale in Europa e in Asia (la politica del roll-back) le potenze capitalistiche e gli stessi Usa sono ormai costretti a riconoscere che i regimi socialisti, ovunque esistenti, non possono essere toccati e che con essi bisogna fare i conti e trattare.
Altri Stati, sorti dallo sfacelo del sistema coloniale, hanno potuto costruire e difendono con sempre maggiore vigore la propria indipendenza; e alcuni di tali Stati manifestano la tendenza a orientare l’edificazione dei loro ordinamenti economici e sociali in direzione del socialismo. In questo quadro ha avuto e ha enorme portata la vittoria dell’eroico popolo del Vietnam, sostenuto dai paesi socialisti e da un possente movimento internazionale di solidarietà, contro l’aggressione americana. Tale vittoria ha inflitto un nuovo duro colpo alle pretese imperialistiche, e rappresenta un nuovo determinante contributo al mutamento dei rapporti di forza nel mondo e al progredire di una politica di distensionee di pacifici negoziati nei rapporti fra gli Stati. Ma inoltre gli Usa sono oggi costretti a fare i conti con una crescente volontà di autonomia che si viene manifestando, soprattutto negli ultimi anni, nei paesi dell’Occidente europeo.
Infine, per grave che
sia il colpoche viene dal rovesciamento del governo di Unità popolare in Cile,
il moto di riscossa e di liberazione, che resta una realtà non cancellabile nei
paesi dell’America latina, non cesserà certo di esprimersi nelle forme più
diverse e di trovare la strada per opporsi con successi anche parziali al
dominio nord-americano e alle cricche locali ad esso asservite. Non sta a dire
proprio questo il fatto che il colpo di Stato militare incontra nel popolo
cileno e solleva in altri paesi latino-americani e ovunque una resistenza, una
condanna e una risposta quali non si erano verificate in occasione di altri
colpi diStato reazionari?
Il riconoscimento della tendenza di fondo che si va affermando nel processo storico mondiale - e che dà luogo, in ultima analisi, a una progressiva riduzione dell’area del dominio delle forze imperialistiche - non ci impedisce certo di constatare (e proprio dal Cile ci viene in questi giorni un nuovo severo monito) che l’imperialismo internazionale e le forze reazionarie in molti paesi sono in grado di contenerela lotta e mancipatrice dei popoli e in certi casi di infliggere duri scacchi alle forze animatrici di tale lotta. Solo tenendo presente questo dato difatto, e cogliendo in ogni regione del mondo, in ogni paese e in ogni momento le forme concrete in cui si esprime o si può prevedere che si esprima, è possibile evitare di essere colti di sorpresa, di cadere in errori e mettersi invece in grado di organizzare e condurre un’azione rivoluzionaria e democratica pronta e adeguata.
I due piani della lotta per la pace
Qualcuno si è domandato come sia possibile che interventi così brutali come quello effettuato in Cile dalle forze dell’imperialismo e della reazione continuino a verificarsi in una fase della vita internazionale nella quale si vanno compiendo passi sempre più spediti sulla via della distensione e della coesistenza pacifica nei rapportitra Stati con diverso regime sociale. Ma chi ha mai sostenuto che la distensione internazionale e la coesistenza significano l’avvento di un’era di tranquillità, la fine della lotta delle classi sul piano interno e internazionale, delle controrivoluzioni e delle rivoluzioni?
La politica della distensione, nella prospettiva della pacifica coesistenza, è prima di tutto la via obbligata per garantire un obiettivo primario, di interesse vitale per tutta l’umanità e per ciascun popolo: evitare la catastrofe della guerra atomica e termonucleare, assicurare la pace mondiale, affermare il principio del negoziato come unico mezzo per risolvere le controversie tra gli Stati. Inoltre, la distensione e la coesistenza, in quanto implicano la riduzione progressiva di tutti gli armamenti e forme molteplici e crescenti di cooperazione economica, scientificae culturale, sia sul piano bilaterale che su quello multilaterale, sono una delle vie per affrontare con sforzi congiunti i grandi problemi del mondo contemporaneo, quali quelli del sollevamento delle aree depresse, dell’inquinamento, della lotta contro l’indigenza e le malattie sociali, ecc.
La distensione e la coesistenza non comportano di per sé, automaticamente e in un periodo breve, il superamento della divisione del mondo in blocchi e zone di influenza, e quindi non precludono agli Usa la possibilità di interferire nei più vari modi, compresi quelli più sfacciati, nelle zone e nei paesi che essi vorrebbero acquisiti per sempre dentro la sfera del loro dominio diretto o indiretto.
La divisione del mondo
in blocchi ed aree diverse è un fatto che preesiste alla politica della
distensione e della coesistenza in quanto è il risultato di tutto lo svolgimento
del processo storico mondiale, dalla Rivoluzione d’Ottobre alla seconda guerra
mondiale fino agli eventi, di diverso segno, di questi ultimi decenni che hanno
determinato l’attuale dislocamento degli equilibri internazionali e interni. Né
va dimenticato il peso negativo che esercitano sulla vita internazionale
quelle divisioni fra i paesi socialisti che hanno il loro punto di massima
serietà nei contrasti tra la Cina popolare e l’Unione Sovietica.
L’ulteriore mutamento
dei presenti equilibri a favore delle forze del progresso dipende, in primo
luogo, dalla capacità di lotta e di iniziativa del proletariato, dei lavoratori,
delle masse popolari e delle loro organizzazioni in ogni singolo paese. Ma è anche
evidente che il progredire della distensione e della coesistenza costituisce
una condizione indispensabile per favorire il superamento della divisione del
mondoin blocchi o zone d’influenza, per facilitare l’affermazione del diritto
di ogni nazione alla propria indipendenza e quindi, in ultima analisi, per
ridurrele possibilità dell’interferenza imperialistica nella vita di altri
paesi. In pari tempo camminare decisamente sulla strada della distensione e
della coesistenza significa sollecitare i processi di sviluppo della democrazia
e della libertà in tutti i paesi del mondo, quale che sia il loro regime
sociale.
Questa è la concezione che abbiamonoi della distinzione e coesistenza: una concezione dinamica e aperta, che simisura e si confronta con un’altra concezione, propria dell’imperialismo, il quale, anche quando è costretto al negoziato con i paesi socialisti, pretendedi fissare il quadro mondiale allo status quo dei rapporti diforza in atto nel mondo e nei vari paesi. Da tutto ciò si conferma la necessità di continuare a lottare tenacemente, sul piano internazionale, per far avanzare il processo della distensione e della coesistenza e per svilupparne tutte le potenzialità positive e, al tempo stesso, di proseguire in ogni paese le battaglie per l'indipendenza nazionale e per la trasformazione in senso democratico e socialista dell’assetto economico e sociale e degli ordinamenti politici e statali.
Il nostro partito ha sempre tenuto conto del rapporto imprescindibile tra questi due piani. Da una parte, come ci ha abituato a fare Togliatti, abbiamo cercato di valutare freddamente le condizioni complessive dei rapporti mondiali e il contesto internazionale in cui è collocata l’Italia. Dall’altra parte ci siamo sforzati di individuare esattamente lo stato dei rapporti di forza all’interno del nostro paese.
In particolare abbiamo sempre dato il dovuto peso in tutta la nostra condotta al dato fondamentale costituito dall’appartenenza dell’Italia al blocco politico-militare dominato dagli Usa e agli inevitabili condizionamenti che ne conseguono. Ma la consapevolezza di questo dato oggettivo non ci ha certo portato all’inerzia e alla paralisi.Abbiamo reagito e reagiamo con la nostra iniziativa e con la nostra lotta.Tutti i tentativi di schiacciarci o di isolarci li abbiamo respinti. La nostra forza e la nostra influenza fra le masse popolari e nella vita nazionale sono anzi cresciuti. Su questa strada si può e si deve andare avanti. Dunque, anzitutto, si tratta di modificare gli interni rapporti di forza in misura tale da scoraggiare e rendere vano ogni tentativo dei gruppi reazionari interni e internazionali di sovvertire il quadro democratico e costituzionale, di colpire le conquiste raggiunte dal nostro popolo, di spezzarne l’unità e di arrestare la sua avanzata verso la trasformazione della società.
In pari tempo, la
nostra lotta e la nostra iniziativa vanno sviluppate anche sul terreno dei
rapporti internazionali, sia dando un nostro contributo a tutte le battaglie che
in Europa e in ogni parte del mondo possono condurre a indebolire le forzedell’imperialismo,
della reazione e del fascismo, sia sollecitando una politica estera italiana che
affermi, insieme alla volontà del nostro paese di vivere in pace e in amicizia
con tutti gli altri paesi, il diritto del popolo italiano di costruirsi in piena
libertà il proprio avvenire.
Decisi passi avanti possono compiersi oggi in questa direzione perché le esigenze e le proposte che noi avanziamo si collocano in un quadro europeo caratterizzato da sensibili progressi della distensione e perché esse si incontrano con analoghe aspirazioni e iniziative che si manifestano in altri paesi dell’Europa occidentale. Da ciò abbiamo ricavato una linea che s’incentra nella proposta di lavorare per un assetto di pace nel Mediterraneo e per un’Europa occidentale autonoma, pacifica, democratica. Lavorare per questo obiettivo non vuol dire porre una tale Europa, e in essa l’Italia, in una posizione di ostilità o versol’Unione Sovietica e gli altri paesi socialisti o verso gli Stati Uniti. Chi ciò volesse si proporrebbe qualcosa di assurdo, di velleitario e, in ultima analisi, di antitetico alla logica di una politica di distensione e di sviluppo democratico per il nostro paese e per tutti gli altri paesi dell’Europa. La lotta conseguente per questa linea di politica internazionale è parte fondamentale della prospettiva che chiamiamo via italiana al socialismo.
Prime considerazioni sull’Italia
Gli avvenimenti cileni
ci sollecitano a una riflessione attenta che non riguarda solo il
quadro internazionale e i problemi della politica estera, ma anche quelli
relativi alla lotta e alla prospettiva della trasformazione democratica e
socialista del nostro paese. Non devono sfuggire ai comunisti e ai democratici
le profonde differenze tra la situazione del Cile e quella italiana. Il Cile e
l’Italia sono situati in due regioni del mondo assai diverse, quali l’America
latina e l’Europa occidentale.
Differenti sono anche il rispettivo assetto sociale, la struttura economica e il
grado di sviluppo delle forze produttive, così come sono diversi il
sistema istituzionale (Repubblica presidenziale in Cile, Repubblica parlamentare
in Italia) e gli ordinamenti statali. Altre differenze esistono nelle tradizioni
e negli orientamenti delle forze politiche, nel loro peso rispettivo e nei
loro rapporti. Ma insieme alle differenze vi sono anche delle analogie, e
in particolare quella che i comunisti e i socialisti cileni si erano proposti anch’essi
di perseguire una via democratica al socialismo. Dal complesso delle differenze e delle analogie occorre
dunque trarre motivo per approfondire e precisare meglio in che cosa consiste e
come può avanzare la via italiana al socialismo.
05.10.1973
VIA DEMOCRATICA
E VIOLENZA REAZIONARIA
di Enrico Berlinguer
È necessario ricordare sempre le ragioni di fondo che ci hanno portato a elaborare e a seguire quella strategia politica che Togliatti chiamò di «avanzata dell’Italia verso il socialismo nella democrazia e nella pace». È noto che le origini di questa elaborazione stanno nel pensiero e nell’azione di Antonio Gramsci e del gruppo dirigente che si raccolse attorno a lui e lavorò nel solco del suo insegnamento. Il Congresso di Lione del 1926 sancì la vittoria della lotta contro l’estremismo e il settarismo che avevano caratterizzato l’azione del partito nel primissimo periodo della sua esistenza e che Lenin aveva aspramente criticato e invitato energicamente a superare. Il Congresso di Lione segnò l’avvio di quella analisi comunista della storia e delle strutture della società italiana che fu poi sviluppata e approfondita da Gramsci negli scritti dal carcere e negli orientamenti e nell’attività del gruppo dirigente, guidato da Togliatti, che fu alla testa del partito durante gli anni del fascismo e che lo rese capace di svolgere azione politica.
Ma il momento decisivo, per la vita del partito e per la vita del paese, dell’affermarsi e del pieno dispiegarsi della scelta storica e politica che informa tutta la nostra azione, fu costituito dalla linea unitaria che indicammo e seguimmo nella guerra di liberazione antifascista e dalla svolta di Salerno.
Dopo la liberazione,
riconquistate le libertà democratiche, l’Italia si trovò nelle condizioni di
paese occupato dagli eserciti delle potenze capitalistiche (Stati Uniti, Gran
Bretagna).Questo dato di fatto non poteva davvero essere sottovalutato, così
come successivamente e ancor oggi non può essere sottovalutato il dato - che
abbiamo già ricordato - costituito dalla collocazione dell’Italia in un
determinato blocco politico-militare. Dove, come nella Grecia del 1945, questa
condizione internazionale non fu considerata in tutte le sue implicazioni, il
movimento operaio e comunista andò incontro alla avventura, subì una tragica
sconfitta e venne ricacciato indietro, in quella situazione di clandestinità
dalla quale era appena uscito.
Ma non fu questo il
solo fattore che determinò le nostre scelte di strategia e di tattica. Il senso
più profondo della svolta stava nella necessità e nella volontà del partito
comunista di fare i conti con tutta la storia italiana, e quindi anche con tutte
le forze storiche (d’ispirazione socialista, cattolica e di altre
ispirazioni democratiche) che erano presenti sulla scena del paese e che si
battevano insieme a noi per la democrazia, per l’indipendenza del paese e per la
sua unità. La novità stava nel fatto che nel corso della guerra di liberazione
si era creata una unità che comprendeva tutte queste forze. Si trattava di
una unità che si estendeva dal proletario, dai contadini, da vasti strati
della piccola borghesia fino a gruppi della media borghesia progressiva, a gran
parte del movimento cattolico di massa e anche a formazioni e quadri delle
forze armate.
«Noi eravamo stati in prima fila tra i promotori, organizzatori e dirigenti di questa unità, che possedeva un suo programma di rinnovamento di tutta la vita del paese, un programma che non venne formulato in tavole scritte se non parzialmente, ma era orientato verso la instaurazione di un regime di democrazia politica avanzata, riforme profonde di tutto l’ordinamento economico e sociale e l’avvento alla direzione della società di un nuovo blocco di forze progressive. La nostra politica consistette nel lottare in modo aperto e coerente per questa soluzione, la quale comportava uno sviluppo democratico e un rinnovamento sociale orientati nella direzione del socialismo. Non è, dunque, che noi dovessimo fare una scelta tra la via di una insurrezione legata alla prospettiva di una sconfitta, e una via di evoluzione tranquilla, priva di asprezze e di rischi. La via aperta davanti a noi era una sola, dettata dalle circostanze oggettive, dalle vittorie riportate combattendo e dalla unità e dai programmi sorti nella lotta. Si trattava di guidare e spingere avanti, sforzandosi di superare e spezzare tutti gli ostacoli e le resistenze, un movimento reale di massa, che usciva vittorioso dalle prove di una guerra civile. Questo era il compito più rivoluzionario che allora si ponesse, e per adempierlo, concentrammo le forze». Così Togliatti si esprimeva in quella magistrale sintesi della nostra politica con la quale aprì il rapporto presentato al X Congresso del partito.
Sappiamo bene che la
politica di rottura dell’unità delle forze popolari e antifasciste perseguita
dai gruppi conservatori e reazionari interni e internazionali e dalla Democrazia
cristiana- una politica che il paese ha pagato duramente - ha interrotto il
processo di rinnovamento avviato dalla Resistenza. Essa non è però riuscita a
chiuderlo. Un esteso e robusto tessuto unitario ha resistito nel paese e nelle
coscienze a tutti i tentativi di lacerazione; e questo tessuto, negli ultimi
anni, ha ripreso a svilupparsi, sul piano sociale e su quello politico, in forme
nuove, certo, ma che hanno per protagoniste le stesse forze storiche che si
erano unite nella Resistenza.
Il compito nostro
essenziale - ed è un compito che può essere assolto - è dunque quello di
estendere il tessuto unitario, di raccogliere attorno a un programma di lotta
per il risanamento e rinnovamento democratico dell’intera società e dello Stato
la grande maggioranza del popolo, e di far corrispondere a questo programma e a
questa maggioranza uno schieramento di forze politiche capace di realizzarlo.
Solo questa linea e nessun’altra può isolare e sconfiggere i gruppi conservatori
e reazionari, può dare alla democrazia solidità e forza invincibile, può
far avanzare la trasformazione della società. In pari tempo, solo
percorrendoquesta strada si possono creare fin d’ora le condizioni per
costruire una società e uno Stato socialista che garantiscano il pieno esercizio
e lo sviluppo di tutte le libertà.
Abbiamo sempre saputo e
sappiamo che l’avanzata delle classi lavoratrici e della democrazia sarà
contrastata con tutti i mezzi possibili dai gruppi sociali dominanti e dai loro
apparati di potere. E sappiamo, come mostra ancora una volta la tragica
esperienza cilena, che questa reazione antidemocratica tende a farsi più
violenta e feroce quandole forze popolari cominciano a conquistare le leve
fondamentali del poterenello Stato e nella società. Ma quale conclusione
dobbiamo trarre da questa consapevolezza? Forse quella, proposta da certi
sciagurati, di abbandonare il terreno democratico e unitario per scegliere
un’altra strategia fatta di fumisteria, ma della quale è comunque chiarissimo
l’esito rapido e inevitabile di un isolamento dell’avanguardia e della sua
sconfitta? Noi pensiamo, al contrario, che, se i gruppi sociali dominanti
puntano a rompere il quadro democratico, a spaccare in due il paese e a
scatenare la violenza reazionaria,questo deve spingerci ancora più a tenere
saldamente nelle nostre mani la causa della difesa delle libertà e del progresso
democratico, a evitare la divisione verticale del paese e a impegnarci con
ancora maggiore decisione, intelligenza e pazienza a isolare i gruppi reazionari
e a ricercare ogni possibile intesa e convergenza fra tutte le forze popolari.
È vero che neppure l’attuazione coerente di questa linea da parte dell’avanguardia rivoluzionaria esclude l’attacco reazionario aperto. Ma chi può contestare che essa lo rende più difficile e crea comunque le condizioni più favorevoli per respingerlo e stroncarlo sul nascere?
L’eventualità del
ricorso alla violenza reazionaria «non deve dunque portare - come ha affermato
il compagno Longo - ad avere una dualità di prospettive e di preparazione
pratica». A chi si chiede, anche alla luce dell’esperienza cilena, come si
raccolgono e si accumulano le forze in grado di sconfiggere gli attacchi
reazionari, noi continuiamo a rispondere con le parole del compagno Longo:
«Spingendo a fondo l’organizzazione, la mobilitazione e la combattività del
popolo, consolidando ed estendendo ogni giorno le alleanze di combattimento
della classe operaia con le masse popolari, realizzando in questo modo, nella
lotta, la sua funzione di classe dirigente». L’essenziale è dunque «il grado
raggiunto da questa mobilitazione e da questa combattività» nella classe operaia
e nella maggioranza del popolo.
Proprio la fermezza e la coerenzanell’attuazione di questi princìpi e di questi metodi di lotta politica hanno consentito di abbattere la tirannide fascista, di ristabilire un regime democratico e di far fallire i tentativi compiuti dalle forze conservatrici e reazionarie - da Scelba fino ad Andreotti - di colpire le libere istituzioni o comunque di ricacciare indietro il movimento operaio e popolare. Così è avvenuto, a partire dal 1947-’48, nella lotta contro la politica di discriminazione, le persecuzioni e gli attentati liberticidi dei governi centristi. Così è avvenuto nel 1953 quando fu battuto il tentativo di distorcere in senso antidemocratico, con la legge-truffa, il meccanismo elettorale e la rappresentatività del Parlamento. Così è avvenuto nel 1960,quando fu stroncata sul nascere l’avventura autoritaria iniziata dal governo Tambroni. Così è avvenuto nel 1964, quando furono sventate le manovre antidemocratiche e i propositi di colpi reazionari che videro anche il tentativo di coinvolgere e di utilizzare contro la Repubblica una parte delle forze armate e dei corpi di pubblica sicurezza. Così è avvenuto dal 1969, nella lotta contro la catena di atti di provocazione e di sedizione reazionaria e fascista, ispirati e sostenuti anche da circoli imperialistici e fascisti di altri paesi, con i quali si cercò di alimentare un clima di esasperata tensione e di determinare una situazione di marasma politico ed economico per aprire la via a soluzioni autoritarie, anticostituzionali o comunque a una duratura svolta verso destra.
In tutti questi casi noi abbiamo sempre risposto facendo nostra la bandiera della difesa della libertà e del metodo della democrazia, chiamando a lotte che sono state anche assai aspre, le grandi masse lavoratrici e popolari, e promuovendo la più ampia intesa e convergenza tra tutte le forze interessate alla salvaguardia dei princìpi della Costituzione antifascista. Queste esperienze vissute dalla classe operaia, dal popolo italiano e dal nostro partito, confermano il carattere un po’ astratto di quelle tesi che tendono a ridurre schematicamente al dilemma tra via pacifica e via non pacifica la scelta della strategia di lotta per l’avanzata verso il socialismo. Le vicende sociali e politiche che si svolgono da tanti anni in Italia sono state pacifiche nel senso che non hanno portato alla guerra civile. Ma tali vicende non sono state certo tranquille e incruente: esse sono state segnate da lotte durissime, da crisi e scontri acuti, da rotture o rischi di rotture più o meno profonde. Scegliere una via democratica non vuol dire, dunque, cullarsi nell’illusione di un’evoluzione piana e senza scosse della società dal capitalismo al socialismo.
Sbagliato ci è sembrato
sempre anche definire la via democratica semplicemente come una via
parlamentare. Noi non siamo affetti da cretinismo parlamentare, mentre qualcuno
è affetto da cretinismo antiparlamentare. Noi consideriamo il Parlamento un istituto essenziale
della vita politica e non soltanto oggi ma anche nella fase del passaggio al
socialismo e nel corso della sua costruzione. Ciò tanto più è vero in quanto la
rinascita e il rinnovamento dell’istituto parlamentare è, in Italia, una
conquista dovuta in primo luogo alla lotta della classe operaia e delle masse
lavoratrici. Il Parlamento non può dunque essere concepito e adoperato come
avveniva all’epoca di Lenin e come può accadere in altri paesi solo come tribuna
per la denuncia dei mali del capitalismo e dei governi borghesi e per la
propaganda del socialismo. Esso, in Italia, è anche e soprattutto una sede nella
quale i rappresentanti del movimento operaio sviluppano e concretano una loro
iniziativa, sul terreno politico e legislativo, cercando di influire sugli
indirizzi della politica nazionale e di affermare la loro funzione dirigente. Ma
il Parlamento può adempiere il suo compito se, come disseTogliatti, esso
diviene sempre più «specchio del paese» e se l’iniziativa parlamentare dei
partiti del movimento operaio è collegata alle lotte delle masse, alla crescita
di un potere democratico nella società e all’affermarsi dei princìpi democratici
e costituzionali in tutti i settori e gli organi della vita dello Stato.
A questo preciso orientamento
si sono ispirate le molteplici battaglie che abbiamo condotto per la Repubblica
e per la Costituzione; per realizzare con il voto alle donne la pienezza
del suffragio universale; per difendere il principio della
rappresentanza proporzionale contro il tentativo di liquidarlo; per assicurare
giorno per giorno alle Camere le loro prerogative contro ogni tendenza
dell’esecutivo e di altri centri del potere economico, politico e amministrativo
di limitarle e svuotarle; e per affermare il principio e la prassi di una libera
dialettica, senza preclusioni e discriminazioni, fra tutte le forze democratiche
rappresentate nel Parlamento. A questo stesso orientamento hanno obbedito e
obbediscono le nostre battaglie per l’istituzione delle Regioni e per il
rispetto dell’autonomia e dei poteri degli enti locali.
Ma vi è anche un altro aspetto assai importante della nostra strategia democratica. La decisione del movimento operaio di mantenere la propria lotta sul terreno della legalità democratica non significa cadere in una sorta di illusione legalitaristica rinunciando all’impegno essenziale di promuovere, sia da posizioni di governo che stando all’opposizione, una costante iniziativa per rinnovare profondamente in senso democratico le leggi, gli ordinamenti, le strutture e gli apparati dello Stato. La stessa nostra esperienza, prima ancora di quella di altri paesi, ci richiamaa tenere sempre presente la necessità di unire alla battaglia per le trasformazioni economiche e sociali quella per il rinnovamento di tutti gli organi e i poteri dello Stato.
L’impegno in questa direzione deve tradursi in una duplice attività: quella diretta a far sì che in tutti i corpi dello Stato e in coloro che vi lavorano penetrino e si affermino sempre più estesamente orientamenti ispirati a una cosciente fedeltà e lealtà alla Costituzione e sentimenti di intimo legame con il popolo lavoratore; e quella diretta a promuovere misure e provvedimenti concreti di democratizzazione nell’organizzazione e nella vita della magistratura, dei corpi armati e di tutti gli apparati dello Stato. Quest’azione può contribuire in misura assai rilevante a far sì che il processo di trasformazione democratica della società non prenda indirizzi unilaterali e non determini uno squilibrio tra settori che vengono investiti da questi processi e altri che ne vengono lasciati fuori o che vengono respinti in posizioni di ostilità: rischio, questo, gravissimo e che può divenire fatale.
In definitiva, le prospettive di successo di una via democratica al socialismo sono affidate alla capacità del movimento operaio di compiere le proprie scelte e di misurare le proprie iniziative in relazione, oltre che al quadro internazionale, ai concreti rapporti di forza esistenti in ogni situazione e in ogni momento, e alla sua capacità di badare, costantemente, alle reazioni e contro-reazioni che l’iniziativa trasformatrice determina in tutta la società: nell’economia, nelle strutture e negli apparati dello Stato, nella dislocazione e negli orientamenti delle varie forze sociali e politiche e nei loro reciproci rapporti. Si ripropongono così i problemi dei criteri di valutazione dei rapporti di forza, della politica delle alleanze, del rapporto tra trasformazioni sociali e sviluppo economico e i problemi degli schieramenti politici.
12.10.1973
RIFLESSIONI SULL’ITALIA DOPO I FATTI DEL CILE.
ALLEANZE SOCIALI E SCHIERAMENTI POLITICI
di Enrico Berlinguer
Abbiamo constatato che
la via democratica non è né rettilinea né indolore. Più in generale il cammino
del movimento operaio quali che siano le forme di lotta, non è stato mai né può
essere una ascesa ininterrotta. Ci sono sempre alti e bassi, fasi di avanzata
cui seguono fasi in cui il compito è di consolidare le conquiste raggiunte, e
anche fasi in cui bisogna saper compiere una ritirata per evitare la disfatta,
per raccogliere le forze e per preparare le condizioni di una ripresa del
cammino in avanti. Questo vale sia quando il movimento operaio combatte
stando all’opposizione sia quando esso conquista il potere o va al governo.
Ha scritto Lenin:
«Bisogna comprendere - e la classe rivoluzionaria impara a comprendere dalla
propria amara esperienza - che non si può vincere senza aver appreso la
scienza dell’offensiva e la scienza della ritirata». Lenin stesso, che è
stato certamente il capo rivoluzionario più audace nella scienza dell’offensiva,
è stato anche il più audace nel saper cogliere tempestivamente i momenti
del consolidamento e della ritirata, e nell’utilizzare questi momenti per
prendere tempo, per riorganizzare le forze e per riprendere l’avanzata. Due
esempi rivelatori di queste geniali capacità di lenin furono il compromesso
con l’imperialismo tedesco sancito con la pace di Brest Litovsk, e il
compromesso con forze capitalisti che interne che caratterizzò quell’indirizzo
che va sotto il nome di Nep (Nuova Politica Economica). Né va dimenticato che
Lenin non esitò a compiere tali scelte andando contro corrente. Queste due
grandi operazioni rivoluzionarie, che contribuirono in modo decisivo a salvare
il potere sovietico e a garantirgli l’avvenire, vennero attuate in condizioni
storiche irripetibili, ma il loro insegnamento di lungimiranza e sapienza
tattica rimane integro.
L’obiettivo di una
forza rivoluzionaria, che è quello di trasformare concretamente i dati di
una determinata realtà storica e sociale, non è raggiungibile fondandosi sul puro volontarismo
e sulle spinte spontanee di classe dei settori più combattivi delle masse
lavoratrici, ma muovendo sempre dalla visione del possibile, unendo la
combattività e la risolutezza alla prudenza e alla capacità di manovra. Il punto
di partenza della strategia e della tattica del movimento rivoluzionario è la
esatta individuazione dello stato dei rapporti di forza esistenti in
ogni momento e, più in generale, la comprensione del quadro complessivo
della situazione internazionale e interna in tutti i suoi aspetti, non isolando
mai unilateralmente questo o quello elemento.
La via democratica al
socialismo è una trasformazione progressiva - che in Italia si può realizzare
nell’ambito della Costituzione antifascista - dell’intera struttura economica e
sociale, dei valori e delle idee guida della nazione, del sistema di potere e
del blocco di forze sociali in cui esso si esprime. Quello che è certo è che la
generale trasformazione per via democratica che noi vogliamo compiere in Italia,
ha bisogno, in tutte le sue fasi, e della forza e del consenso.
La forza si deve esprimere nella incessante vigilanza, nella combattività delle masse lavoratrici, nella determinazione a rintuzzare tempestivamente - ci si trovi al governo o all’opposizione - le manovre, i tentativi e gli attacchi alle libertà, ai diritti democratici e alla legalità costituzionale. Consapevoli di questa necessità imprescindibile, noi abbiamo messo sempre in guardia le masse lavoratrici e popolari, e continueremo a farlo, contro ogni forma di illusione o di ingenuità, contro ogni sottovalutazione di propositi aggressivi delle forze di destra. In pari tempo, noi mettiamo in guardia da ogni illusione gli avversari della democrazia. Come ha ribadito il compagno Longo al XIII Congresso, chiunque coltivasse propositi di avventura sappia che il nostro partito saprebbe combattere e vincere su qualunque terreno, chiamando all'unità e alla lotta tutte le forze popolari e democratiche, come abbiamo saputo fare nei momenti più ardui e difficili. Del “consenso” la profonda trasformazione della società per via democratica ha bisogno in un significato assai preciso: in Italia essa può realizzarsi solo come rivoluzione della grande maggioranza della popolazione; e solo a questa condizione, “consenso e forza” si integrano e possono divenire una realtà invincibile.
Tale rapporto tra forza e consenso è del resto necessario quali che siano
le forme di lotta adottate, anche se si tratta di quelle più avanzate fino
a quelle cruente. Il nostro movimento di liberazione nazionale, che fu un movimento
armato, ha potuto resistere e vincere perché era fondato sull’unità di tutte le
forze popolari e democratiche e perché ha saputo conquistarsi il sostegno e il
consenso della grande maggioranza della popolazione. Del resto, anche sulla
sponda opposta, si è visto che i movimenti antidemocratici e lo stesso fascismo
non possono affermarsi e vincere unicamente con il ricorso alla violenza
reazionaria, ma hanno bisogno di una base di massa più o meno
estesa, soprattutto in paesi con una struttura economica e sociale complessa
ed articolata. Ed è perfino ovvio ricordare che, più in generale, il dominio
della borghesia non si regge solo sugli strumenti (da quelli più brutali a
quelli più raffinati) della coercizione e della repressione, ma si regge anche
su una base di consenso più o meno manipolato, su un certo sistema di alleanze
sociali e politiche. È il problema delle
alleanze, dunque, il problema decisivo di ogni rivoluzione e di ogni
politica rivoluzionaria, ed esso è quindi quello decisivo anche per
l’affermazione della via democratica.
In paesi come l’Italia
si deve muovere dalla constatazione che si sono create ed esistono una
stratificazione sociale e una articolazione politica assai complesse. Lo
sviluppo capitalistico italiano ha dato luogo alla formazione di un proletariato
consistente. Questa classe che una lunga esperienza di lotte -siamo quasi a un
secolo di battaglie proletarie - che l’opera educatrice del movimento socialista
che l’influenza decisiva che su di essa esercita da cinquant’anni il partito
comunista, hanno reso particolarmente combattiva e matura; questa classe, che è
la forza motrice di ogni processo di trasformazione della società, tuttavia
rimane pur sempre una minoranza della popolazione del nostro paese e della
stessa popolazione lavoratrice. Così è anche, in misura maggiore o minore, in
quasi tutti gli altri paesi capitalistici. Tra il proletariato e la grande
borghesia - le due classi antagoniste fondamentali nel regime capitalistico - si
è infatti creata, nelle città e nelle campagne, una rete di categorie e di
strati intermedi, che spessosi sogliono considerare nel loro complesso e
chiamare genericamente «cetomedio», ma di ognuno dei quali in realtà occorre
individuare e definire concretamentela precisa collocazione e funzione nella
vita sociale, economica e politica egli orientamenti ideali.
Accanto e spesso
intrecciati a questi ceti e categorie intermedie e al proletariato esistono poi
nella nostra società strati di popolazione e forze sociali (si tratta, per
esempio, di larga parte delle popolazioni del Mezzogiorno e delle isole, delle
masse femminili e giovanili, delle forze della scienza, della tecnica, della
cultura e dell’arte) che non sono assimilabili, come tali, nella dimensione di
«categorie», e che tuttavia hanno una condizione nella società che le accomuna e
in una certamisura le unisce, al di là della propria posizione professionale e
persino della propria appartenenza a un determinato ceto sociale.
Appare chiarissimo che per l’esito della battaglia democratica che conduciamo per la trasformazione e il rinnovamento della nostra società è determinante dove si situano, in che senso sono orientate e come si muovono queste masse, questi ceti intermedi, questi strati di popolazione. È del tutto evidente, cioè, come sia decisivo per le sorti dello sviluppo democratico e dell’avanzata al socialismo che il peso di tali forze sociali venga a spostarsi o a fianco della classe operaia oppure contro di essa.
Da questa struttura
economica e stratificazione sociale dell’Italia noi non abbiamo ricavato soltanto conseguenze
che riguardano la nostra politica nella fase attuale, ma abbiamo fissato dei
punti fermi che riguardano il posto che hanno nella rivoluzione italiana
questioni come quella meridionale, femminile, giovanile, della scuola e della
cultura, e la funzione dei ceti intermedi.
A proposito di questi ultimi, nel documento, più impegnativo del nostro partito, che è la Dichiarazione programmatica approvata dall’VIII Congresso (1956) si afferma: «Si stabilisce, oggettivamente, una concordanza di fini fra la classe operaia, che lotta contro i monopoli e per abbattere il capitalismo, non più solo con le masse proletarie e semiproletarie, ma con la massa dei coltivatori diretti nelle campagne e con una parte importante dei ceti medi produttivi nelle città, ciò che consente nuove possibilità per l’allargamento del sistema di alleanze della classe operaia e delle basi di massa per un rinnovamento democratico e socialista.
«La massa del ceto medio è costituita da stratificazioni e gruppi sociali diversi, in relazione alle diverse caratteristiche economiche e sociali e al diverso grado di sviluppo delle diverse zone. Pur essendo quindi necessario un approfondimento differenziato da zona a zona, la possibilità di una alleanza permanente della classe operaia con strati del ceto medio della città e della campagna è determinata da una convergenza di interessi economici e sociali che trae origine dallo sviluppo storico e dalla attuale struttura del capitalismo...
«D’altra parte deve
essere chiaro che per gruppi decisivi di ceto medio il passaggio a nuovi
rapporti di tipo socialista o socialisti non avverrà che sulla base del loro
vantaggio economico e del libero consenso, e che in una società democratica che
si sviluppi verso il socialismo sarà garantita la loro attività economica».
La strategia delle riforme può dunque affermarsi e avanzare solo se essa è sorretta da una strategia delle alleanze. Anzi, noi abbiamo sottolineato che, nel rapporto tra riforme e alleanze, queste sono la condizione decisiva perché, se si restringono le alleanze della classe operaia e si estende la base sociale dei gruppi dominanti, prima o poi la realizzazione stessa delle riforme viene meno e tutta la situazione politica va indietro, fino anche a rovesciarsi. Naturalmente, la politica delle alleanze ha il suo punto di partenza nella ricerca di una convergenza tra gli interessi economici immediati e di prospettiva della classe operaia e quelli di altri gruppi e forze sociali. Ma tale ricerca non va concepita e attuata in modo schematico o statico. Occorre, cioè, indicare rivendicazioni e perseguire obiettivi che offrano concretamente a questi strati di popolazione e a queste forze e gruppi sociali una certezza di prospettive che garantiscano in forme nuove e possibilmente migliorino il loro livello di esistenza e il loro ruolo nella società, ma in un diverso sviluppo economico e in un più giusto e più moderno assetto sociale.
A questo scopo diviene
necessario lavorare anche per determinare una evoluzione nella stessa mentalità
di questi ceti e forze sociali, nel senso di allargare in tutta la popolazione
una visione sempre meno individualistica o corporativa e sempre più sociale
della difesa degli interessi dei singoli e di quelli della collettività.
Noi non ci limitiamo,
dunque, a ricercare e a stabilire convergenze con figure sociali e categorie
economiche già definite, ma tendiamo a conquistare e a comprendere in un
articolato schieramento di alleanze interi gruppi di popolazione, forze sociali
non classificabili come ceti, quali sono, appunto, le donne, i giovani e
le ragazze, le masse popolari del Mezzogiorno, le forze della cultura,
movimenti di opinione, e proponiamo obiettivi non soltanto economici e sociali,
ma di sviluppo civile, di progresso democratico, di affermazione della dignità
della persona, d’espansione delle molteplici libertà dell’uomo. Ecco il modo con
cui noi intendiamo e compiamo il lavoro concreto per costruire e preparare le
basi, le condizioni e le garanzie di quello che si vuole chiamare un «modello»
nuovo di socialismo.
Un grosso problema che ci impegna in sede politica e che deve impegnare di più, in sede teorica, i marxisti e gli studiosi avanzati dell’Italia e dei paesi dell’Occidente, è come far sì che un programma di profonde trasformazioni sociali - che determina necessariamente reazioni di ogni tipo da parte dei gruppi retrivi - non venga effettuato in modo da sospingere in posizione di ostilità vasti strati dei ceti intermedi, ma riceva invece, in tutte le sue fasi, il consenso della grande maggioranza della popolazione. Ciò, evidentemente, comporta una attenta scelta delle priorità e dei tempi delle trasformazioni sociali e comporta, di conseguenza, l’adoperarsi non solo per evitare un collasso dell’economia ma per garantire anzi, anche nelle fasi critiche di passaggio a nuovi assetti sociali, l’efficienza del processo economico.
Questo è certamente uno dei problemi vitali che ha dinnanzi a sé un governo di forze lavoratrici e popolari; ma è un problema altrettanto fondamentale in un paese come l’Italia, ove una forza grande come la nostra uscita da tempo dal terreno della pura propaganda, cerca, fin da ora, dall’opposizione, con l’arma della pressione di massa e dell’iniziativa politica unitaria, di imporre l’avvio di un programma di trasformazioni sociali. Se è vero che una politica di rinnovamento democratico può realizzarsi solo se è sostenuta dalla grande maggioranza della popolazione, ne consegue la necessità non soltanto di una politica di larghe alleanze sociali ma anche di un determinato sistema di rapporti politici, tale che favorisca una convergenza e una collaborazione tra tutte le forze democratiche e popolari, fino alla realizzazione fra di esse di una alleanza politica. D’altronde, la contrapposizione e l’urto frontale tra i partiti che hanno una base nel popolo e dai quali masse importanti della popolazione si sentono rappresentate, conducono a una spaccatura a una vera e propria scissione in due del paese, che sarebbe essenziale per la democrazia e travolgerebbe le basi stesse della sopravvivenza dello Stato democratico.
Di ciò consapevoli noi
abbiamo sempre pensato - e oggi l’esperienza cilena ci rafforza in questa
persuasione -che l’unità dei partiti di lavoratori e delle forze di sinistra
non è condizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della
democraziaove a questa unità si contrapponga un blocco di partiti che si
situano dal centro fino alla estrema destra. Il problema politico centrale in
Italia è stato, e rimane più che mai, proprio quello di evitare che si giunga a
una saldatura stabile e organica tra il centro e la destra, a un largo fronte
di tipo clerico-fascista e di riuscire invece a spostare le forze sociali
e politiche che si situano al centro su posizioni coerentemente democratiche.
Ovviamente, l’unità, la
forza politica ed elettorale delle sinistre e la sempre più solida intesa tra le
loro diverse e autonome espressioni, sono la condizione indispensabile per
mantenere nel paese una crescente pressione per il cambiamento e per
determinarlo. Ma sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e
le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e
della rappresentanza parlamentare (cosa che segnerebbe, di per sé, un grande
passo avanti nei rapporti di forza tra i partiti in Italia) questo fatto
garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di
tale 51 percento.
Ecco perché noi parliamo non di una «alternativa di sinistra» ma di una «alternativa democratica» e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolaridi ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico. La nostra ostinazione nel proporre questa prospettiva è oggetto di polemiche e di critiche di varia provenienza.Ma la verità è che nessuno dei nostri critici e obiettori ha saputo e sa indicare un’altra prospettiva valida, capace di far uscire l’Italia dalla crisi in cui è stata gettata dalla politica di divisione delle forze democratiche e popolari, di avviare a soluzione gli immani e laceranti problemi economici, sociali e civili che sono aperti e di garantire l’avvenire democratico della nostra Repubblica.
E del resto, a veder
bene, le polemiche e i tentativi di rendere impossibile la prospettiva che
noi proponiamo non hanno impedito che essa, invece, si sia affermata e si
affermi nella coscienza di sempre più larghe masse popolari e nei loro movimenti
reali, come anche, in una certa misura e in vari modi, nella stessa vita
politica e nei partiti. Sta qui la comprova che il problema da noi posto diventa
ogni giorno più maturo e urgente. E se nessuno è in grado di prospettare una
diversa alternativa democratica altrettanto valida e credibile rispetto a quella
da noi proposta, ciò è perché tale diversa alternativa, in Italia, non c’è.
La nostra politica di dialogo e di confronto con il mondo cattolico si sviluppa necessariamente su diversi piani e con diversi interlocutori. Vi è innanzitutto il problema, sul quale la nostra posizione di principio e la nostra linea politica sono note, posto dalla presenza in Italia della Chiesa cattolica, e dai suoi rapporti con lo Stato e con la società civile. Vi è poi il problema della ricerca di una più ampia comprensione reciproca e di una intesa operante con quei movimenti e tendenze di cattolici che, in numero crescente, si collocano nell’ambito del movimento dei lavoratori e si orientano in senso nettamente anticapitalistico eanti imperialistico.
Ma non si può certo pensare di sfuggire all’altro grande problema costituito dalla esistenza e dalla forza di un partito politico come la Democrazia cristiana, che a parte la qualificazione di «cristiana» che esso dà di se stesso, raccoglie nelle sue file o sotto la sua influenza una larga parte delle masse lavoratrici e popolari di orientamento cattolico.
“Rinascita” ha pubblicato alcuni mesi or sono una serie di articoli e di saggi nei quali sono stati esaminati e vagliati i vari aspetti della questione della Dc. Rimandiamo a essi il lettore, limitandoci noi, in questa sede, a riproporre il tema nei suoi termini di fondo. L’errore principale da cui bisogna guardarsi è quello di giudicare la Democrazia cristiana italiana, e anzi tuttii partiti che portano questo nome, quasi come una categoria astorica, quasi metafisica, per sua natura destinata, in definitiva, a essere o a divenire sempre o ovunque un partito schierato con la reazione. Ed è davvero risibile che a ciò si riduca, nella sostanza, tutta l’analisi sulla Dc che ci viene data da gente che, con tanta spocchia, cerca di salire in cattedra per impartire a tutti lezione di marxismo.
Naturalmente il nostro
giudizio sulla Dc è ugualmente lontano da quello che di essa danno quei suoi
dirigenti i quali, rovesciando il contenuto ma mantenendo il medesimo metodo
astorico che ora abbiamo criticato, presentano la Dc come un partito che, «per
sua natura»,sarebbe il garante delle libertà e l’alfiere del progresso
democratico. In realtà, entrambi i giudizi che abbiamo ricordato sono privi di
effettiva serietà e hanno entrambi un carattere puramente strumentale. Il solo
criterio marxista, o che voglia essere anche solo fondato sulla serietà
politica, consiste nel considerare la Dc sia nel contesto storico politico in
cui è collocata e opera che nella composita realtà sociale e politica che in
essa si esprime. Solo in questo modo è possibile mettersi in grado di
intervenire e di influire realmente sugli orientamenti e sulla condotta pratica
di tale partito.
Noi abbiamo sempre
avuto ben presente il legame tra la Democrazia cristiana e i gruppi dominanti
della borghesia e il loro peso rilevante, e in certi momenti determinante,
sulla politica della Dc. Ma nella Dc e attorno ad essa si raccolgono anche
altre forze e interessi economici e sociali, da quelli di varie categorie del
ceto medio sino a quelli, assai consistenti soprattutto in alcune regioni e zone
del paese, di strati popolari, di contadini, di giovani, di donne ed anche
di operai. Anche il peso e le sollecitazioni provenienti dagli interessi e
dalle aspirazioni di queste forze sociali si sono fatti sentire in misura più o
meno avvertibile nel corso della vita e della politica della Dc e possono essere
portati a contare sempre di più.
Oltre a questa varia
e contraddittoria composizione sociale della Dc vanno prese in considerazione
le sue origini, la sua storia, le sue tradizioni e le differenti
tendenze politiche e ideali che si sono agitate e si agitano nel suo interno, da
quelle reazionarie a quelle conservatrici e moderate fino a quelle democratiche
e anche progressiste. Tutto ciò contribuisce a spiegare come le vicende
storiche di questo partito siano state assai tortuose e spesso contrassegnate da
atteggiamenti tra loro antitetici. Nato come partito popolare, democratico e
laico esso si oppose all’inizio al movimento fascista, passando poi all’appoggio
e alla partecipazione al primo governo Mussolini, staccandosene successivamente
per giungere, attraverso un faticoso travaglio, alla partecipazione alla
lotta clandestina e all’impegno pieno e diretto nella Resistenza, al fianco e
in unità con le forze proletarie e popolari.
Dopo la liberazione,
dopo l’avvento della Repubblica e dopo l’elaborazione della Costituzione, frutto
di un accordo tra i tre grandi partiti di massa (comunista, socialista
e democristiano) fu proprio il partito democristiano - nel clima di divisione
in Europa e nel mondo creato dall’incipiente guerra fredda - il
principale artefice della rottura dell’alleanza di governo con i comunisti e con
i socialisti, dell’unità sindacale e più in generale dell’intesa fra le
forze antifasciste. E fu proprio la Dc a condurre da quel momento una politica
di contrapposizione e di scontro frontale con il movimento operaio e popolare
di ispirazione comunista e socialista.
La sconfitta di questa
politica, dovuta alle capacità di combattimento della classe operaia, dei
braccianti, dei contadini, dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali
e politiche, e dovuta anche alla tenacia con cui il nostro partito non ha mai
deflettuto dalla sua linea unitaria, ha riaperto una prospettiva di avanzata al
movimento democratico e al paese e ha creato una situazione nuova anche nella
Dc. Essa, infatti, pur mantenendo l’ispirazione conservatrice e moderata della
sua linea, è stata messa nella impossibilità di riportare il paese alla
condizione della spaccatura verticale e della contrapposizione frontale. Quando
un suo uomo, Tambroni, si avventurò nel tentativo estremo di ripristinare tale
condizione, fu travolto rapidamente da un grande moto popolare e unitario e
liquidato dal suo stesso partito. Ma c’è di più: quando la Dc, sconfitta in
questa sua linea, dette inizio a una manovra di nuovo tipo, con l’esperimento di
centro-sinistra per giungere all’isolamento del Pci, essa fallì anche su questo
terreno.
Dalla crisi di prospettive determinata dal fallimento di questi diversi tentativi per affermare una linea di divisione nel popolo e nel paese la Dc non è ancora uscita. Essa avverte che è assai difficile e che può essere gravido di avventure fatali per tutti e per se stessa giocare la carta della contrapposizione e dello scontro, ma non è giunta ancora a intraprendere con coerenza una strada opposta. E sta proprio in ciò una delle cause determinanti della crisi che attanaglia il paese.
Che fare? In quale direzione dobbiamo cercare noi di spingere le cose? Dalla sommaria ricapitolazione che abbiamo fatto della composizione sociale e della condotta politica della Dc risulta che questo partito è una realtà non solo varia, ma assai mutevole; e risulta che i mutamenti sono determinati sia dalla sua dialettica interna sia, e ancor più, dal modo in cui si sviluppano gli avvenimenti internazionali e interni, dalle lotte e dai rapporti di forza tra le classi e fra i partiti, dal peso che esercitano sulla situazione il movimento operaio e il Pci, dalla loro forza, dalla loro linea politica e dalla loro iniziativa. Si pensi alla vicenda più recente, quella del governo Andreotti: l’ostilità attiva delle masse popolari, la combattività e l’iniziativa unitaria dell’opposizione comunista, la battaglia del partito socialista e quella di gruppi, correnti e personalità della stessa Dc hanno portato allo sfaldarsi della coalizione di centro-destra e hanno creato una situazione in cui la stessa maggioranza di forze interna alla Dc che aveva portato Andreotti al governo, o che comunque lo sosteneva, è venuta meno. La Dc ha dovuto abbandonare la linea e la prospettiva del centro-destra.
Tali essendo la realtà
della Dc e il punto in cui essa si trova oggi, è chiaro che il compito di un
partito come il nostro non può essere che quello di isolare e sconfiggere
drasticamente le tendenze che puntano o che possono essere tentate di puntare
sulla contrapposizione e sulla spaccatura verticale del paese, o che comunque
si ostinano in una posizione di pregiudiziale preclusione
ideologica anti-comunista, la quale rappresenta di per sé, in Italia, un
incombente pericolo di scissione della nazione. Si tratta, al contrario, di
agire perché persino sempre di più, fino a prevalere, le tendenze che, con
realismo storicoe politico, riconoscono la necessità e la maturità di un
dialogo costruttivo e di un’intesa tra tutte le forze popolari senza che ciò
significhi confusioni o rinuncia alle distinzioni e alle diversità ideali e
politiche che contraddistinguono ciascuna di tali forze.
Certo, noi per primi comprendiamo che il cammino verso questa prospettiva non è facile né può essere frettoloso. Sappiamo anche bene quali e quante battaglie serrate e incalzanti sarà necessario condurre sui più vari piani, e non solo da parte del nostro partito, con determinazione e con pazienza, per affermare questa prospettiva. Ma non bisogna neppure credere che il tempo a disposizione sia indefinito. La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande «compromesso storico» tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano.
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