giovedì 29 luglio 2021

l'affaire moro - Commissione Parlamentare - leonardo sciascia

 

Commissione Parlamentare d'inchiesta
su la strage di via Fani,
 
il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro,
la strategia e gli obiettivi
perseguiti dai terroristi
 
RELAZIONE DI MINORANZA
PRESENTATA DAL DEPUTATO
LEONARDO SCIASCIA

 

Numerosa di quaranta membri più il presi-
dente, nel succedersi di tre presidenti, l’ulti-
mo dei quali — il senatore Valiante — nomina-
to quando già le acquisizioni erano ingenti, e
necessitato dunque a informarsene, la Com-
missione Parlamentare d'inchiesta sulla stra-
ge di via Fani, il sequestro e l'assassinio di
Aldo Moro e la strategia e gli obiettivi perse-
guiti dai terroristi, si è mossa in questa prima
parte dei suoi lavori, sopratutto devoluti al
caso Moro, con inevitabili ritardi, lentezze e
dispersioni. Il fatto che la presenza dei com-
ponenti si riducesse di media tra la metà e i
due terzi, le è stato di minima agevolazione
sulle audizioni, sempre troppo lunghe e in
parte ripetitive. A ciò va aggiunta la latente e
a volte esplicita conflittualità, tra i membri
della Commissione, che riproduceva quella
manifestatasi tra i partiti del cosidetto arco
costituzionale — e specialmente tra il comuni-
sta e il democristiano da un lato, il socialista
dall’altro — nei giorni del sequestro Moro ed
oltre, fino al sequestro e al rilascio del magi-
strato D'Urso: e cioè sulla posizione detta
«umanitaria » dei socialisti, che affermava la
necessità di trattare coi terroristi, pur tenen-
do presenti i limiti del possibile cedimento, e
 
161
 
quella detta « della fermezza », sostenuta da
comunisti, democristiani e altri, di assoluta e
inscalfibile intransigenza. Tali posizioni si ri-
petevano nella Commissione col perseguire
da una parte la dimostrazione che un minimo
cedimento, conseguente alle trattative con le
Brigate rosse, avrebbe potuto salvare la vita
di Aldo Moro (così come poi la chiusura del
carcere dell'Asinara e l'intervento di parla-
mentari presso i brigatisti carcerati si ritenne
— ma non da tutti, e non da noi — avesse
salvata quella del magistrato D'Urso); e dal-
l’altra che la disponibilità a trattare del Parti-
to Socialista, nonché incrinare la cosidetta
«solidarietà nazionale» fondata sulla fer-
mezza, non solo non poteva portare alla sal-
vezza di Moro, ma si configurava — nella ri-
cerca di un contatto particolare e riservato
con le Brigate rosse, negli incontri tra espo-
nenti socialisti ed esponenti dell’Autonomia
romana che si credeva potessero fare da tra-
mite (e si è visto poi che potevano) — come un
vero e proprio reato, visto che i magistrati
inquirenti non ne erano stati informati. Que-
sta conflittualità, che ad evidenza corre nei
verbali della Commissione, anche se mai e-
spressa nei termini netti in cui noi la riassu-
miamo, è stata nel lavoro della Commissione
— a parer nostro — una grave remora, una
incommensurabile perdita di tempo. Da ciò,
per esempio, le inutili udienze dedicate al
caso Rossellini-Radio « Città futura »: se Ros-
sellini aveva o no dato notizia dell’avveni-
mento di via Fani almeno mezz'ora prima che
 
162
 
si verificasse (e se si fosse riusciti a provarla,
ne sarebbe venuta la conseguenza che Ros-
sellini era « dentro », e dunque i suoi contatti
coi socialisti diventavano automaticamente
gravi: beninteso peri socialisti). Ma Rossellini
non poteva aver dato quella notizia: poiché —
se ne ha l'impressione — aveva ben studiato gli
scopi e i comportamenti delle Brigate rosse,
poteva avere, se mai, azzardato una ipotesi.
Comunque, la domanda se Moro si poteva o
no salvare attraverso trattative, finisce con
l'apparire gratuita e irrilevante, dopo tante
ore di audizioni e migliaia di pagine di verba-
li. Gratuita e irrilevante, diciamo, ai fini di
una Commissione Parlamentare d'inchiesta;
mentre la si può considerare non gratuita e
non irrilevante in una inchiesta tra le Brigate
rosse, dentro le Brigate rosse e da loro con-
dotta: poiché a loro era possibile la scelta di
rilasciare Moro invece che di assassinarlo; e
dalla scelta di assassinarlo ha avuto principio,
nel dissenso tra loro insorto, la crisi che va
portandole alla disgregazione, all’annienta-
mento. La domanda prima ed essenziale cui
la Commissione ha il dovere di rispondere, a
noi appare invece questa: perché Moro non è
stato salvato, nei cinquantacinque giorni della sua
prigionia, da quelle forze che lo Stato prepone alla
salvaguardia, alla sicurezza, all’incolumità dei sin-
goli cittadini, della collettività, delle istituzioni?
Ovviamente, né si poteva evitare, altro tempo
si è perso nell’inseguire una risposta alla do-
manda posta dal punto a), articolo I, della
legge che istituiva la Commissione («se vi
 
163
 

siano state informazioni, comunque collega-

bili alla strage di via Fani, concernenti pos-

sibili azioni terroristiche nel periodo prece-

dente il sequestro di Aldo Moro, e come tali

informazioni siano state controllate ed even-

tualmente utilizzate »). Intorno a tale do-

manda si sono accagliate insondabili mitoma-

nie, scarti della memoria, incontrollabili giri

di tempo (e ne fa parte anche il caso Rosselli-

ni-Radio « Città futura »). Né meno inutile è

stato il lavoro della Commissione per rispon-

dere al punto b) della legge: «se Aldo Moro

abbia ricevuto, nei mesi precedenti il rapi-

mento, minacce o avvertimenti diretti a fargli

abbandonare l’attività politica »; poiché è da

credere che ogni uomo politico di preminen-

te ruolo ne riceva, anonimamente e non, co-

me consiglio o come minaccia; e specialmen-

te ne avrà ricevuto — ne ha ricevuto — Aldo

Moro, i cui intendimenti non sempre deci-

frabili potevano facilmente dar luogo a frain-

tendimenti. Ma anche l’avvertimento (o mi-

naccia) che ebbe mentre presumibilmente si

trovava in un paese « amico », e da parte di

una personalità in quel paese autorevole, non

crediamo sia possibile collegarlo alla sua e-

liminazione: e per il fatto stesso che c'è stato.

Cose del genere — lo si sa persino proverbial-

mente — si fanno senza dirle; il non dirle è

anzi la condizione necessaria per farle. Era

invece rigorosamente prevedibile — a rigore

del loro cercare e colpire i gangli e le perso-

nalità dello « Stato delle multinazionali », del

sistema democratico e capitalistico — che le

 

164

 

Brigate rosse puntassero alla cattura e all’eli-

minazione di un uomo come Moro, al vertice

della Democrazia Cristiana e sul punto — si

credeva — di allargarle intorno il consenso e

comunque di renderla più duttile, più pren-

sile, più durevolmente sicura (e però nella

misura in cui più duttili sì, ma meno prensili e

meno sicure diventavano le forze d’opposi-

zione). Ma che secondo i loro schemi, piutto-

sto rigidi ed elementari, le Brigate rosse fa-

cessero una diagnosi della situazione che por-

tasse alla cattura e/o all'eliminazione di Al-

do Moro, si era ben lontani, negli organi che

ne avevano il dovere, dal prevederlo; e figu-

riamoci dal prevenirlo. Sicché alla doman-

da che pone il punto c) della legge (« le even-

tuali carenze di adeguate misure di preven-

zione e tutela della persona di Aldo Moro »),

si può nettamente rispondere che non solo le

carenze ci furono, ma che ai tentativi della

Commissione per accertarle sono state oppo-

ste denegazioni così assolute da apparire in-

credibili. A renderle incredibili è la persona-

lità del maresciallo Leonardi, capo della scor-

ta di Moro, per come concordemente, da di-

versi punti di vista, ci è stata descritta. Giu-

dicando la scorta di Moro dentro l’università,

l’ex brigatista Savasta dice: « Io ho notato tre

uomini, fra cui uno anziano ... Erano tre mol-

to visibili, tra cui questo anziano, che era il

più bravo di tutti perché si muoveva nella

folla ... Sì, era il maresciallo Leonardi, che si

muoveva meglio di tutti, perché la ressa era

molto grossa per partecipare alle lezioni di

 

165

 

Aldo Moro. Nonostante questo riusciva a te-

nere sotto controllo la situazione. Mi colpì

questo aspetto specifico anche per capire che

tipo di scorta c'era, cioè se era una scorta pro

forma o una scorta reale ... L'atteggiamento

del maresciallo Leonardi era quello di una

scorta reale, molto preparata: era quel tipo

di scorta che non eravamo abituati a vedere.

C'è un modo chesi capisce subito: primai il fat-

to che erano sempre pronti a prendere la pi-

stola; secondo, poi, come si muovevano tra la

gente. Cioè era un modo diverso. Se la scorta

È pro forma, non si sta molto a guardare;

quando è reale, si capisce subito, cioè come si

guarda la gente, come si vedono gli sposta-

menti delle altre persone. Sembrava una scor-

ta reale...». Nel loro lavoro di osservazio-

ne, i brigatisti erano dunque arrivati al giudi-

zio che tutte le scorte fossero pro forma; e

perciò la meraviglia di scoprire invece reale —

anche se in un determinato luogo — quella di

Aldo Moro. Ma il merito era tutto di quell'an-

ziano « molto bravo », che « riusciva a tenere

sotto controllo tutta la situazione ». Questo

giudizio, di innegabile competenza, concor-

da con quello del generale Ferrara: « Leo-

nardi era un sottufficiale eccellente sotto o-

gni riguardo: austero, serio, distintissimo,

fisicamente prestante, costantemente sicuro

di sé; era un ragazzo coraggioso e sempre

pronto, tiratore scelto, cintura nera... ». Que-

sti giudizi ci portano a considerare veridiche

tutte le testimonianze sulle preoccupazioni

del maresciallo Leonardi in ordine alla sicu-

 

166

 

rezza dell'onorevole Moro (e alla propria); e

specialmente quella della moglie. Leonardi

aveva chiesto altri uomini, al ministero del-

l’Interno: forse in più, forse in sostituzione di

quelli che già aveva e che non gli pareva

fossero «ben preparati per il servizio che

dovevano svolgere ». Questa richiesta, che la

signora Leonardi colloca tra la fine del’77 e il

principio del ’78, non ha lasciato traccia né

nei documenti né nella memoria di chi avreb-

be dovuto riceverla. E pure non può non

esserci stata: proprio in quel periodo le abitu-

dini e i comportamenti di Moro e della sua

scorta venivano — sappiamo — studiati dalle

Brigate rosse; e ciò non sfuggiva all’attenzio-

ne di Leonardi. La sua preoccupazione cre-

sceva a misura che, per certi segni, vedeva il

pericolo avvicinarsi. Si era anche accorto che

lo seguivano, ne aveva parlato alla moglie e

ad altri aveva precisato che lo seguiva una

128 bianca. Negli ultimi tempi era così preoc-

cupato, teso, dimagrito, si sentiva talmente

insicuro da far dire alla moglie che « non era

più lo stesso». E quasi tutti i pomeriggi,

quand'era libero, andava, dice la moglie, «a

conferire col generale Ferrara, sempre per

motivi di servizio ». Ma il generale Ferrara

decisamente nega, avvalorando la sua nega-

zione col preciso ricordo di un solo incontro

con Leonardi: il 26 gennaio 1978, e per moti-

vi non di servizio. Con chi dunque parlava

Leonardi, a chi faceva i suoi rapporti? Che li

facesse, la signora se ne dice « sicura al cento

per cento ». Ma il generale Ferrara, pur am-

 

167

 

mettendo che Leonardi « aveva contatti con

tutta la scala gerarchica », afferma: «il mare-

sciallo Leonardi non ha mai mandato rap-

porti a chicchessia ... abbiamo svolto un'in-

chiesta per controllare presso tutti i comandi

gerarchici della capitale se Leonardi avesse

fatto cenno anche verbale: non risultò nien-

te ... nessuna richiesta, né di personale né di

rinforzi di uomini e di mezzi, era mai stata

inoltrata ». Il che, ribadiamo, non è credibile

Leonardi può non aver parlato col generale

Ferrara, ma con qualcuno dei « comandi ge-

rarchici della capitale » ha parlato di certo.

Che ne sia scomparsa ogni traccia e che lo si

neghi è un fatto straordinariamente inquie-

tante.

Uguale immagine di preoccupazione, di ner-

vosismo, di paura dà del marito la vedova

dell’appuntato Ricci. Non parlava molto del

servizio, in casa: ma poiché faceva da autista,

diceva dei guai che la 130 che gli avevano

affidata dava (« si rompeva continuamente »)

e sospirava l’arrivo della 130 blindata. Alla

fine del ‘77, disse alla moglie che finalmente

arrivava: il che vuol dire che era stata richie-

sta e promessa. Ma non arrivò. Da ciò, forse,

verso il mese di febbraio, un più accentuato

nervosismo (« appariva nervoso e si compor-

tava in maniera strana »): che corrisponden-

do al comportamento del maresciallo Leo-

nardi, vuol dire che condividevano la stessa

preoccupazione, scorgevano gli stessi segni

Ma così come per i rapporti di Leonardi,

nessuno sa nulla della richiesta di una mac-

 

168

 

china blindata; è stato anzi detto alla Com-

missione che se fosse stata richiesta sarebbe

stata data senza difficoltà. Ma com'è che, non

richiesta, la si aspettava e, ad un certo punto,

non la si aspettò più?

«Reale», dunque, dentro l'università, la

scorta di Moro diventava « pro forma » fuori,

nella deficienza e insicurezza dei mezzi: il che

certamente non sfuggì alla osservazione delle

Brigate rosse. Il dire, oggi, che una macchina

blindata e meglio funzionante per Moro; al-

tra coi freni a posto per la scorta che lo segui-

va; armi di sicura efficienza e addestramen-

to a prontamente usarle, non sarebbero stati

elementi di dissuasione o di non riuscita al

piano delle Brigate rosse, è altrettanto insen-

sato che affermare lo sarebbero stati. In azio-

ni come quella attuata per il sequestro di

Moro, basta che una piccola cosa funzioni o

non funzioni per deciderne la riuscita o il

fallimento. E comunque, quel che non fun-

ziona suppone delle responsabilità, che van-

no accertate e individuate. Ma nella ricerca

delle responsabilità — che sono sempre indivi-

duali anche se estensibili e concatenate — la

Commissione si è sempre fermata un po’ pri-

ma, al limite di scoprirle, di accertarle: per

ragioni formali, per difficoltà interne ed e-

sterne.

 

Il punto d) della legge che istituisce la Com-

missione d'inchiesta, richiede si faccia luce su

«le eventuali disfunzioni od omissioni e le

conseguenti responsabilità verificatesi nella

 

169

 

direzione e nell’espletamento delle indagini,

sia per la ricerca e la liberazione di Aldo

Moro, sia successivamente all’assassinio dello

stesso, e nel coordinamento di tutti gli organi

e apparati che le hanno condotte»; ma il

materiale raccolto dalla Commissione a tal

proposito è così vasto che conviene estrarne

i fatti essenziali o emblematici, conferendo

importanza ad alcuni che sembrano non a-

verne e rovesciando il significato e il valore

di certi altri cui si è voluto invece dare impor-

tanza. Per esempio: sembrano importanti, e

se ne parla come di uno « sforzo imponente »

da riconoscere e da elogiare, le operazioni

condotte dalle forze dell'ordine nel giro dei

cinquantacinque giorni che vanno dal seque-

stro all’assassinio di Moro. Si tratta davvero

di uno sforzo imponente, e ne trascriviamo il

compendio: 72.460 posti di blocco, di cui

6.296 nella cinta urbana di Roma; 37.702

perquisizioni domiciliari, di cui 6.933 a Ro-

ma; 6.413.713 persone controllate, di cui

167.409 a Roma; 3.383.123 automezzi con-

trollati, di cui 96.572 a Roma; 150 persone

arrestate; 400 fermate. In queste operazio-

ni erano impegnati quotidianamente 13.000

uomini, 4.300 nella città di Roma. Sforzo

imponente, ma per nulla da elogiare. Preva-

lentemente condotte «a tappeto » (e però,

come si vedrà, con inconsulte eccezioni), le

operazioni condotte in quei giorni erano o

inutili o sbagliate. Si ebbe allora l'impressione

— e se ne trova ora conferma — che si voles-

se impressionare l'opinione pubblica con la

 

170

 

quantità e la vistosità delle operazioni, non-

curanti affatto della qualità. E si trattò pro-

priamente di una scelta subito fatta, di un

criterio (paradossalmente consistente nella

mancanza di un criterio effettuale) subito as-

sunto: e ci riferiamo a quell’ordine, diramato

alle questure dalla direzione dell’Ucigos di

attuare, subito dopo il sequestro di Moro, il

«piano zero ». Il « piano zero » esisteva sol-

tanto per la provincia di Sassari; ma il dir-

gente dell’Ucigos, che era stato questore a

Sassari, credeva esistesse per tutte le provin-

cie italiane. Ne nacque un convulso telefo-

narsi di questori tra loro, prima che si arri-

vasse a capire che il piano non esisteva. Ma il

punto non è quello dell'errore e del comico

che ne derivò; il punto è come mai si pensò

che l’attuazione di un « piano zero » in tutte le

provincie italiane potesse avere un qualche

effetto. Che senso aveva istituire posti di

blocco, controllare mezzi e persone, la matti-

na del 16 marzo, a Trapani o ad Aosta? Nes-

suno: se non quello di offrire lo spettacolo

dello « sforzo imponente ». Si partì dunque —

per volontà o per istinto — verso effetti spetta:

colari e forse confidando nel calcolo delle

probabilità (che non funzionò). Ed è com-

prensibile che per conseguire tali effetti si sia

trascurato l'impiego di forze meno imponen-

ti ma più sagaci per dare un corso meno vi-

stoso ma più producente alle indagini: a tal

punto che la Commissione si è sentita rispon-

dere dall'allora questore di Roma che manca-

va di uomini per un lavoro di pedinamento

 

171

 

che non ne avrebbe richiesto più di una doz-

zina; mentre solo a Roma 4.300 agenti spet-

tacolarmente ma vanamente annaspavano.

Ma torneremo su questo punto. Aggiungia-

mo, intanto, che la nostra opinione sulla va-

cuità delle operazioni di polizia è condivisa e

trova autorevole conferma in questa dichia-

razione del dottor Pascalino, allora procura-

tore generale a Roma: «in quei giorni si fece-

ro operazioni di parata, più che ricerche ».

Ed è incontrovertibile che chi volle, chi assen-

tì, chi nulla fece per meglio indirizzare il

corso delle cose, va considerato — nel grado di

responsabilità che gli competeva — piena-

mente responsabile.

Curiosamente, a queste operazioni di para-

ta, corrisponde un contraddittorio segno di

preparazione e di efficienza, da parte della

polizia, che non è stato giustamente valutato:

e riguarda la segnalazione dei ricercati in

quanto presunti brigatisti; segnalazione che,

attraverso la diffusione di fotografie sulla

stampa e per televisione, fu fatta appena

qualche giorno dopo l’eccidio di via Fani. Si

segnalarono ventidue individui: ma subito si

scoprì che due di loro erano già in carcere,

uno notoriamente residente in Francia, un

altro regolarmente registrato nell'albergo in

cui alloggiava. Questi errori — che crediamo

trovino giustificazione nella endemica inco-

municabilità, nel nostro paese, delle istituzio-

ni tra loro — impedirono all’opinione pubbli-

ca di vedere quel che invece c'era di positivo

nella segnalazione: e cioè che su diciotto indi-

 

172

 

vidui la polizia non si era sbagliata. Giusta-

mente un funzionario di polizia (il dottor

Improta) ha rivendicato, davanti alla Com-

missione, la preparazione e la prontezza di

mostrata dalla questura di Roma in questo

fatto, che invece l'opinione pubblica valutò al

contrario e arrivando quasi al dileggio. Lo

Stato non era impreparato, se dopo tre giorni

la questura di Roma era in grado di indicare—

precorrendo acquisizioni più certe, provate

e confessate — diciotto brigatisti, alcuni dei

quali facenti parte del gruppo di via Fani, e se

conosceva benissimo gli elementi più attivi

dell’area extraparlamentare (e persino nelle

loro differenziazioni ideologiche e strategi-

che, di prassi, di temperamento). Il concorde

coro di funzionari e uomini politici, sull’im-

preparazione dello Stato a fronteggiare l’at-

tacco terroristico, è dunque da accettare con

beneficio d’inventario. Il fatto che le prece-

denti « risoluzioni » delle Brigate rosse e gli

scritti dei loro teorici e fiancheggiatori non

fossero stati convenientemente studiati, dalla

polizia e dai servizi di sicurezza, non pone

come conseguenza necessaria l'incertezza, la

confusione, i disguidi, le omissioni, le vuote

operazioni che si sono verificate durante i

cinquantacinque giorni del sequestro Moro.

Bastava una normale, ordinaria professiona-

lità investigativa. Anche senza lo studio dei

testi (che peraltro sarebbe stato più utile alla

prevenzione che di fronte al fatto compiuto),

si aveva il vantaggio di conoscere approssi-

mativamente la natura e il fine di un’associa-

 

173

 

zione per delinquere denominata Brigate

rosse; si era già arrivati a individuare un con-

gruo numero di affiliati; si aveva sufficien-

te informazione sul tessuto protettivo di cui

l'associazione poteva godere. Se l'operazione

di via Fani fosse stata fatta a solo fine di lucro

e da un'associazione per delinquere mai ma-

nifestatasi, oscura, improvvisata, lo svantag-

gio sarebbe stato indubbiamente più forte.

Ma appunto dei vantaggi non si è saputo fare

alcun uso.

Ma andiamo per ordine, attenendoci stretta-

mente ai fatti in cui disfunzioni e omissioni

(e «conseguenti responsabilità » sempre) più

vistosamente appaiono. Nel pomeriggio del-

lo stesso giorno 16 in cui era avvenuto l’ecci-

dio della scorta e il rapimento di Aldo Moro,

la Fiat 132 in cui Moro era stato trasportato

viene ritrovata in via Licinio Calvo: ciò vuol

dire che nella zona stessa in cui era accaduto

il fatto, poche ore dopo, goliardicamente i

brigatisti potevano avventurarsi indenni a

bordo di una segnalatissima automobile. La

beffarda restituzione, segno di un sicuro

muoversi dei brigatisti nel quartiere, avrebbe

dovuto far nascere il sospetto che vi abitasse-

ro, e quindi incrementare ed acuire la vigi-

lanza. Ma così non fu, e altre due macchine

che erano servite per l'operazione venivano

trovate, nella stessa via, il 17 e il 19. Rischio

che sarebbe da considerare corso abbastanza

scioccamente dai brigatisti: ma evidentemen-

te sapevano quel che facevano e che senza

danno ne sarebbero usciti. Si procedeva in-

 

174

 

tanto — 17 marzo — al fermo di polizia giudi

ziaria per Franco Moreno, su cui sembrava

gravassero indizi probanti di una partecipa-

zione all'impresa: provvedimento non del

tutto comprensibile anche nel caso ci si fosse

trovati a indagare soltanto sull’eccidio, ma

del tutto incomprensibile trattandosi anche

di un sequestro di persona. Poiché il Moreno

era in quel momento, a giudizio degli investi-

gatori, il solo elemento visibile dell’associazio-

ne, il suo fermo non solo veniva a recidere un

possibile tramite per raggiungere gli altri e

il luogo in cui Aldo Moro era detenuto, ma

poteva anche essere fatale per la vita del se-

questrato. Ma forse anche in questo caso il

criterio della parata prevalse sù quello della

professionalità, della ponderata investigazio-

ne. Ma gli indizi che sembravano (e, a rileg-

gerne l'elenco, sembrano) gravi, si dissolsero

non sappiamo come nell'esame del magistra-

to; e tre giorni dopo il Moreno veniva rila-

sciato.

Intanto il giorno 18 — il terzo dei cinquanta-

cinque — la polizia, nelle sue operazioni di

perquisizione a tappeto, arrivava all’apparta

mento di via Gradoli affittato a un sedicente

ingegnere Borghi, più tardi identificato co-

me Mario Moretti. Vi arrivò: ma si fermò

davanti alla porta chiusa. E qui bisogna osser-

vare che per quanto si voglia le operazioni

fossero di parata, tant'è che si facevano; e in

ordine all’istinto e al raziocinio professionale

una porta chiusa, una porta cui nessuno ri-

spondeva, doveva apparire tanto più interes-

 

175

 

sante di una porta che al bussare si apriva. E

tanto più che il dottore Infelisi, il magistrato

che conduceva l'indagine, aveva ordinato che

degli appartamenti chiusi o si sfondassero le

porte o si attendesse l’arrivo degli inquilini.

Ordine eseguito in innumerevoli casi, e con

gran disagio di cittadini innocenti; ma pro-

prio in quell’unico caso (unico per quanto

sappiamo), che poteva sortire a un effetto

incalcolabile portata, non eseguito. Pare che

l'assicurazione dei vicini che l'appartamento

fosse abitato da persone tranquille, sia basta-

ta al funzionario di polizia per rinunciare a

visitarlo: mentre appunto tale assicurazio-

ne avrebbe dovuto insospettirlo. È pensabi-

le che le Brigate rosse non si comportassero

tranquillamente, e anzi più tranquillamente

di altri, abitando piccoli appartamenti di po-

polosi quartieri?

Esattamente un mese dopo — il 18 aprile —

l'appartamento di via Gradoli di cui la polizia

aveva preso atto come abitato da persone

tranquille, fortuitamente si rivelava covo del-

le Brigate rosse. Ma il nome Gradoli era già

corso nelle indagini, e vanamente, grazie a

una seduta spiritica tenutasi nella campagna

di Bologna il 2 aprile. E non meravigli che

negli atti di una commissione parlamentare

d'inchiesta si parli, come in una commedia

dialettale, di una seduta spiritica: ma dodici

persone, come si suol dire, degne di fede, e

per di più appartenenti al ceto dotto della

dotta Bologna, sono state sentite una per una

dalla Commissione e tutte hanno testimonia-

 

176

 

to della seduta spiritica da loro tenuta e da cui

è venuto fuori il nome Gradoli. Non una di

loro si è dichiarata esperta o credente riguar-

do a fenomeni del genere; tutte hanno parla-

to di un'atmosfera «ludica » che attorno al

«piattino » e agli altri elementi necessari al-

l’evocazione, si era stabilita in un pomeriggio

uggioso: di gioco, dunque, di passatempo. E

non solo tutti sembravano, nel riferire al-

la Commissione, credere alla semovenza del

« piattino »; ma di fatto ci credettero, se l’in-

domani ne riferirono alla Digos di Bologna e,

successivamente, al dottor Cavina, capo del-

l'ufficio stampa dell'onorevole Zaccagnini.

Tra i farfugliamenti del « piattino », un no-

me era venuto fuori nettamente: Gradoli.

Poiché c'è in provincia di Viterbo un paese di

questo nome, la polizia vi si recò in forze,

presumibilmente facendovi le solite perqui-

sizioni a tappeto; e senz’alcun risultato, si

capisce. Il suggerimento della signora Moro,

di cercare a Roma una via Gradoli, non fu

preso in considerazione; le si rispose, anzi,

che nelle pagine gialle dell'elenco telefonico

non esisteva. Il che vuol dire che non ci si era

scomodati a cercarla, quella via, nemmeno

nelle pagine gialle: poiché c'era.

All'appartamento di via Gradoli abitato dal

sedicente ingegnere Borghi, si arriva final-

mente, e per caso, alle 9,47 del 18 aprile: a

tamponare una dispersione d’acqua, non a

sorprendervi dei brigatisti. E qui è da notare

che una specie di fatalità idrica incombe sulle

Brigate rosse, non essendo quello di via Gra-

 

177

 

doli il solo caso in cui un covo viene scoperto

perla disfunzione di un condotto. E del resto

abbiamo parlato di spiriti, potremmo anche

parlare di veggenti che nella vicenda hanno

avuto un certo ruolo: perché non parlare

della fatalità? Vi arrivarono primi i pompieri,

naturalmente; e capirono e segnalarono di

trovarsi in un covo. E a questo punto altro

garbuglio, altro mistero: i giornalisti arriva-

rono prima della polizia; i carabinieri seppe-

ro della scoperta soltanto perché riuscirono a

intercettare una comunicazione radio della

polizia; il giudice inquirente apprese la noti-

zia due ore dopo: non dalla polizia, ma dai

carabinieri. E fu costretto, il giudice Infelisi,

a ordinare il sequestro dei documenti trovati

nel covo, a far sì che anche i carabinieri ne

prendessero visione (ma il questore De Fran-

cesco nega di aver posto il veto a che i docu-

menti li vedessero i carabinieri e dice di igno-

rare il sequestro ordinato dal giudice: con-

trasto rimasto irrisolto). Non si provvide,

noltre, al rilevamento delle impronte digita-

li nel covo; né pare sia stato prontamente e

accuratamente inventariato e vagliato il ma-

teriale rinvenuto. Il qual materiale, a giudizio

del dottor Infelisi, non apportava alcuna in-

dicazione relativamente al luogo in cui pote-

va trovarsi Moro; ma sente il bisogno, il giu-

dice, di mettere questo inquietante inciso:

«almeno quello di cui io ho avuto conoscen-

za »: così aprendo come possibile il fatto che

possa esserci stato del materiale sottratto alla

sua conoscenza. Insomma: tutto quel che in-

 

178

 

tercorre dal 18 marzo al 18 aprile intorno al

covo di via Gradoli attinge all'inverosimile,

all’incredibile: spiriti (che in una lettera in-

viata dall'onorevole Tina Anselmi alla Com-

missione ne appaiono molto meglio informa-

ti di quanto poi riferito dai partecipanti alla

seduta), provvidenziale dispersione d’acqua

(ma la Provvidenza aiutata, per distrazione o

per volontà, da mano umana), assenza della

più elementare professionalità, della più ele-

mentare coordinazione, della più elementare

intelligenza.

E ancora abbiamo da fermarci su altri episo-

di. Sorvoliamo su quello del lago della Du-

chessa: in cui, non credendo al comunicato, e

perdendo tempo a stabilirne l’inautentica-

autenticità © l’autentica-inautenticità, si agì

come credendoci, con conseguente distrazio-

ne e dispersione di forze; e fissiamoci per un

momento su quello della tipografia Triaca.

La prima segnalazione, relativa a persone

che gravitavano intorno alla tipografia, e co-

munque di persone sospettate di avere a che

fare con le Brigate rosse, l’Ucigos la ebbe il 28

marzo. Ma passò giusto un mese prima che

fosse in grado di farne rapporto alla Digos: il

29 aprile. Tanta lentezza crediamo dovuta

principalmente a quello che il dottor Fariello

(dell’Ucigos) chiama « pedinamento a inter-

valli»: che sarebbe il pedinare le persone

sospette, a che non si accorgano di essere

pedinate, quando sì e quando no. Il che equi-

vale a non pedinarle affatto, poiché soltanto

il caso può dare effetto a una siffatta vigilan-

 

179

 

za.Come se il recarsi in luoghi segreti, gli

incontri clandestini e tutto ciò che s'appartie-

ne all’occulto cospirare e delinquere, fosse

regolato da abitudini ed orari. Né la possibili

tà che la persona si accorga di essere oggetto

di vigilanza viene dall’assiduità con cui la si

segue, ma dall’accortezza o meno con cui l’o-

perazione viene eseguita.

Passa dunque un mese — e Moro sempre

chiuso nella « prigione del popolo » — perché

la segnalazione, resa più consistente dalla

fortuna che finalmente arride al « pedina-

mento a intervalli », arrivi dall'Ucigos alla Di-

gos. Il 1° maggio si ha cognizione della tipo-

grafia Triaca, in via Pio Foà. Lo stesso giorno,

la Digos chiede di poter effettuare controlli

telefonici, otto giorni dopo l'autorizzazione a

perquisire. La perquisizione si sarebbe dovu-

ta effettuare il 9, il giorno stesso in cui le

Brigate rosse consegnano il cadavere di Mo-

ro: e perciò viene rimandata al 17. E qui si

può anche essere d'accordo col dottor Fariel-

io: che tanto valeva attendere ancora. Moro

ormai assassinato, una vigilanza non ad in-

tervalli, ma continua e sagace intorno alla

tipografia avrebbe persino consentita la cat-

tura di Moretti: ma tanto il dirigente dell'U-

cigos che il questore De Francesco ammetto-

no di aver dovuto precipitare l'operazione

per «la pressione dell'opinione pubblica ».

Dall’operazione al tempo stesso tardiva e

precipitosa presso la tipografia Triaca dira-

ma una rivelazione che ancora ci costringe a

usare la parola incredibile: nella tipografia

 

180

 

venivano rinvenute una stampatrice prove-

niente dal Raggruppamento Unità Speciali

dell'Esercito e una fotocopiatrice provenien-

te dal ministero dei Trasporti. Per quanto

riguarda la fotocopiatrice, nessun elemento

si è riusciti ad acquisire per capire come dal

ministero dei Trasporti sia finita nella tipo-

grafia delle Brigate rosse: il che può dare al

Parlamento e all'opinione pubblica (quella

che non preme per operazioni di parata e sa

essere attenta) sufficiente idea delle difficoltà

incontrate dalla Commissione. Per quanto ri-

guarda la stampatrice, si sono avute sì delle

risposte: ma non servono a formularne una

sicura sull’iter della macchina dal Raggrup-

pamento Unità Speciali (RUS) — che è poi

parte del SISMI, e cioè dei servizi segreti con

tal sigla rifondati sulla dissoluzione del SID —

alla tipografia Triaca. Che nelle amministra-

zioni dello Stato sia uso alienare come « ferri-

vecchi » macchine che, irrisoriamente acqui-

state da privati, miracolosamente tornano a

funzionare, può anche — nel disordine delle

cose — ammettersi; ma che proprio vadano a

finire in mano alle Brigate rosse, è un po”

troppo; e merita una severa inchiesta.

Altro fatto da segnalare, sempre in relazione

«alle disfunzioni, alle omissioni e alle conse-

guenti responsabilità verificatesi nella dire-

zione e nell’espletamento delle indagini », è

l’avere trascurato quello che sarebbe stato un

vero e proprio filo conduttore per arrivare

all’individuazione e alla cattura di un certo

numero di brigatisti e, con tutta probabilità,

 

181

 

al luogo in cui Aldo Moro era detenuto. A ciò

noi arriviamo col senno del poi; ma la polizia

avrebbe potuto e dovuto arrivarci col senno

di allora. Dice l'allora questore di Roma De

Francesco (e la sua convinzione è pienamente

condivisa dal dottore Improta, che era stato

a capo della divisione politica): « L'area del-

l'Autonomia è stata forse privilegiata nelle

indagini, anche precedenti al sequestro del-

l'onorevole Moro, poiché ritenevo e sono tut-

tora convinto che si trattasse dell’area più

pericolosa della capitale ... Sul problema del-

l'Autonomia fin dal primo giorno, cioè dal 16

marzo, ho insistito perché quella — a mio avvi-

so — era l’area nella quale alcune unità delle

Brigate rosse avevano potuto trovare un sup-

porto essenziale ». Ma non si riesce a vedere

come la privilegiasse, come insistesse, se non

devolveva sorveglianza alcuna ai capi del mo-

vimento, che pure conosceva benissimo. Noi

ora sappiamo quel che allora il questore era

in grado di sospettare, conseguentemente al-

le sue convinzioni, e di accertare: che i rap-

porti tra almeno due brigatisti e i « grossi

esponenti » dell’Autonomia romana c'erano

e si mantennero durante i cinquantacinque

giorni e oltre. E si concretizzavano in incon-

tri. Un’accorta sorveglianza — e sopratutto

senza intervalli — di Piperno e Pace avrebbe

consentito l’individuazione di Morucci e Fa-

randa, i due brigatisti che avevano preso par-

teall’azione di via Fani, che con ogni probabi-

lità continuavano a frequentare il luogo in

cui Moro era detenuto e con tutta certezza ad

 

182

 

avere incontri con coloro che lo detenevano.

Ma a chi, in Commissione, si meravigliava

non avere la polizia presa una così elemente

re misura, come quella di far sorvegliare i

capi dell’Autonomia, il questore De France-

sco rispondeva che mancava di uomini. E ne

teneva impegnati più di 4.000 in operazioni

di parata!

A questo breve catalogo di omissioni e di

sfunzioni va aggiunto come esemplare l’e-

pisodio riferito dall’allora comandante la

Guardia di Finanza: il giorno 16, poco dopo

l’azione di via Fani, « un individuo, fermo in

via Sorelle Marchisio, ha notato due perso-

ne: una più magra, di statura 1,70-1,75, ve-

stita con una uniforme di pilota civile, l’altra

di corporatura robusta, tarchiata, più bassa,

con barba folta. La prima sorreggeva la se-

conda per un braccio, stringendolo forte-

mente al disopra del gomito. Provenivano da

via Pineta Sacchetti, angolo via Montiglio;

hanno percorso un tratto di via Sorelle Mar-

chisio, raggiunto via Marconi, svoltato verso

via Cogoleto ... In quella zona c'è una clini-

ca ». Riversata subito l'informazione alla Di-

gos, l'ordine di perquisire la clinica arrivò alla

Guardia di Finanza « qualche settimana do-

po». E tutto lasciava sospettare che quel che

l'anonimo informatore aveva visto fosse da

mettere in connessione con quel che pochi

minuti prima era accaduto in via Fani.

Ci si chiede da che tanta estravaganza, tanta

lentezza, tanto spreco, tanti errori professio-

nali possano essere derivati. Si dice: l’impre-

 

183

 

parazione di fronte al fenomeno terroristico

e, particolarmente, di fronte a un'azione così

eclatante nei mezzi, nell'oggetto, negli scopi,

come quella di via Fani. Ma non è una giusti-

ficazione convincente: abbiamo visto come si

fosse in grado di segnalare subito un certo

numero di brigatisti, alcuni dei quali siamo

ora certi che hanno partecipato all'azione, e

come si avessero precise convinzioni riguar-

do alle aree di complicità o di più o meno

diretto sostegno. È si può anche ammettere

una impreparazione più generale e remota

di fronte a fatti delinquenziali che scaturisco-

no da associazioni protette dalla paura e dal

silenzio dei cittadini, da un lato; dagli adden-

tellati reali o supposti col potere, dall'altro.

Ma non è che una spiegazione parziale. Biso-

gna, per il caso Moro, metterne avanti altre:

che sono insieme politiche, psicologiche, psi-

canalitiche. Certamente quel che si fece di

sbagliato — e che impedì si facessero più pro-

ducenti e giuste azioni — fu in parte dettato

dal condizionamento dei « media » (non di-

remmo dalla pressione dell'opinione pubbli-

ca: l'opinione pubblica, quando davvero c'è e

si fa sentire, è meno informe, meno dispo-

nibile ad appagarsi di qualsiasi cosa: capa-

ce, insomma, di critica e di scelta): operazioni

di parata, come (direbbe Machiavelli) da un

«luogo alto » le giudica il dottor Pascalino

(ma fece qualcosa, accorgendosene, per farle

finire?). Queste operazioni, che per apparire,

per rendersi a spettacolo, dovevano essere

ben consistenti nell'impiego di uomini e di

 

184

 

mezzi, bisogna ribadire che impedirono se ne

facessero altre di necessarie, di essenziali, per

una ponderata, continua e rapida investiga-

zione. E senza dire (cioè dicendolo ancora)

che nell'unico caso in cui fortuitamente le

operazioni di parata avrebbero potuto rag-

giungere un effetto, non funzionarono: da-

vanti alla porta chiusa dell’appartamento di

via Gradoli, il 18 marzo.

Ma crediamo che l'impedimento più forte, la

remora più vera, la turbativa più insidiosa sia

venuta dalla decisione di non riconoscere nel

Moro prigioniero delle Brigate rosse il Mo-

ro di grande accortezza politica, riflessivo, di

ponderati giudizi e scelte, che si riconosceva

(riconoscimento ormai quasi unanime: ap-

punto perché come postumo, come da ne-

crologio) era stato fino alle 8,55 del 16 marzo.

Da quel momento Moro non era più se stesso,

era diventato un altro: e se ne indicava la

certificazione nelle lettere in cui chiedeva di

essere riscattato, e sopratutto per il fatto che

chiedeva di essere riscattato.

Abbiamo usato la parola decisione: formal-

mente imprecisa ma sostanzialmente esatta.

Spontanea o di volontà, improvvisa o gra-

dualmente insorgente, di pochi o di molti, è

stata certamente una decisione — e per il fatto

stesso che se ne poteva prendere altra. E ci

rendiamo conto della impossibilità di prova-

re documentalmente che una tale decisione —

ufficialmente mai dichiarata — abbia potuto

avere degli effetti a dir poco diluenti sui tem-

pi e i modi dell'indagine. Possiamo anche

 

185

 

ammettere che gli effetti non furono a livello

di coscienza e di consapevolezza — e insomma

di malafede; ma non si può non riconoscere —

e basta rivedere la stampa di quei giorni — che

si era stabilita un'atmosfera, una temperie,

uno stato d’animo per cui in ciascuno ed in

tutti (con delle sparute eccezioni) si insinuava

l'occulta persuasione che il Moro di prima

fosse come morto e che trovare vivo il Moro

altro quasi equivalesse a trovarlo cadavere nel

portabagagli di una Renault. Si parlò dappri-

ma, a giustificare il contenuto delle sue lette-

re, di coercizioni, di maltrattamenti, di dro-

ghe; ma quando Moro cominciò insisten-

temente a rivendicare la propria lucidità e

libertà di spirito («tanta lucidità almeno,

quanta può averne chi è da quindici giorni in

una situazione eccezionale, che non può ave-

re nessuno che lo consoli, che sa che cosa lo

aspetti »), si passò ad offrire compassionevol-

mente l’immagine di un Moro altro, di un

Moro due, di un Moro non più se stesso:

tanto da credersi lucido e libero mentre non

lo era affatto. Il Moro due in effetti chiedeva

fossero posti in essere, per salvare la propri:

vita, quegli stessi meccanismi che il Moro uno

aveva, nelle sue responsabilità politiche e di

governo, usati o approvati in deroga alle leg-

gi dello Stato ma al fine di garantire tranquil-

lità al Paese: « non una, ma più volte, furono

liberati con meccanismi vari palestinesi dete-

nuti ed anche condannati, allo scopo di stor-

nare gravi rappresaglie che sarebbero poi

state poste in essere, se fosse continuata la

 

186

 

detenzione... ». Simili meccanismi, di cui l'o-

pinione pubblica non era al corrente, erano

stati adoperati — evidentemente — nel silenzio

del governo, dei partiti al governo, del Parla

mento; e si poteva rispondere a Moro che

tuttaltro che in silenzio, e anzi con sicuro

clamore e perdita di prestigio e credibilità, vi

si poteva ricorrere nel suo caso. Si preferì

invece sminuire, invalidare e smentire i suoi

argomenti da un punto di vista clinico inve-

ce che politico, relegandoli alla sua delirante

condizione di prigioniero. Da ciò la nessuna

importanza conferita dagli investigatori alle

sue lettere. L'onorevole Cossiga, allora mini-

stro dell'Interno, ha escluso nel modo più

netto che sia stata tentata una decifrazio-

ne dei messaggi di Moro: « una decifrazione

non fu fatta durante il sequestro. Procedeva-

mo con metodi artigianali. Furono invece e-

seguite analisi linguistiche sui messaggi del-

le Brigate rosse... » (in che consistessero i me-

todi artigianali e quali risultati dessero le ana-

lisi linguistiche, lo si è intravisto anche allo-

ra). Ma lo stesso Cossiga, dopo aver detto che

sulle lettere di Moro si possono esprimere

«giudizi contrastanti ed anche dolorosi » fi-

nisce col riconoscere che in esse « Moro, nella

sua lucidità, nella sua intelligenza, con tutti i

suoi argomenti, aveva capito che era questo

che in realtà volevano coloro che colloquiava-

no con lui: essere riconosciuti come parte che

può essere fuori dello Stato, ma che è nella

società e con la quale è possibile un rapporto

dialettico ». Appunto: e Moro, senza prescin-

 

187

 

dere dalle sue convinzioni più radicate (che

Cossiga ha ben riassunto: e si vedano, di Mo-

ro, le lezioni sullo Stato), non poteva che as-

secondarne il gioco, a guadagnar tempo e a

darne alla polizia a che lo trovasse. Non si

vede perché Moro, uomo di grande intelli-

genza e perspicacia, avrebbe dovuto compor-

tarsi come un cretino: se gli era consentito di

guadagnar tempo e di comunicare con l’e-

sterno, di queste due favorevoli circostanze

non poteva non approfittare. E anche se la

speranza che manifestava era soltanto quella

dello scambio, è da credere—in tutta ovvietà —

che ne nutrisse altra: che le forze dell’ordi-

ne arrivassero al luogo in cui era segregato.

Conseguentemente, deve aver tentato di da-

re qualche indicazione sul posto in cui si tro-

vava: nascondendola, si capisce, cifrandola.

Chiunque l'avrebbe tentato: a Moro invece,

di fatto, questa capacità e questo intento sono

stati pregiudizialmente negati. Ed era inve-

ce, per l’attenzione che sapeva dedicare alle

parole, per l’uso anche tortuoso che sapeva

farne, la persona più adatta a nascondere

(per dirla pirandellianamente) tra le parole le

cose.

La cifra dei suoi messaggi poteva, per esem-

pio, essere cercata nell'uso impreciso di cer-

te parole, nella disattenzione appariscente.

Quando Cossiga e Zaccagnini, per dire delle

condizioni in cui Moro si trovava, citano la

frase di una sua lettera (quella, appunto, di

retta a Cossiga ministro dell'Interno): «

trovo sotto un dominio pieno ed incontrolla-

 

188

 

to», è curioso non si accorgano che proprio

questa contiene una incongruenza e che non

definisce precisamente il tipo di dominio sot-

to cui Moro si trovava. Che vuol dire, infatti,

«incontrollato »? Chi poteva o doveva con-

trollare le Brigate rosse? E perciò appare

attendibilissima (e specialmente dopo le rive-

lazioni degli ex brigatisti) la decifrazione che

ci è stata suggerita: « mi trovo in un condomi-

nio molto abitato e non ancora controllato

dalla polizia ». E probabilmente anche le pa-

role « sotto » e « sottoposto » erano da inten-

dere come indicazione topografica. Ma non-

ché decifrare non si è voluto nemmeno esse-

re attenti all'evidenza: come in quel « qui » —

sfuggito forse all’autocensura che Moro non

poteva non imporsi e certamente alla censura

delle Brigate rosse — che inequivocabilmente

è da leggere « a Roma » (« si dovrebbe essere

in condizioni di chiamare qui l'ambasciatore

Cottafavi »). E non era indicazione da poco,

considerando con quanto spreco lo si cerca-

va fuori Roma. Non si è fatto alcun credito,

insomma, all’intelligenza di Moro: da valu.

tarla quanto meno superiore a quella dei suoi

carcerieri. Si poteva, senza venir meno a po-

sizioni di fermezza, continuare a dialogare con

lui: sia pubblicamente — nell’opporre ragioni

alle sue: che erano ragioni e non farnetica-

zioni — sia segretamente — cercando nelle sue

lettere quei messaggi che era probabile e pos-

sibile nascondessero. Gli esperti sono stati

invece adibiti a studiare il linguaggio delle

Brigate rosse: e non c'era bisogno di esperti

 

189

 

per scoprirlo poveramente pietrificato, fatto

di slogans, di « idées recues » dalla palingene-

tica rivoluzionaria, di detriti di manuali so-

ciologici e guerriglieri. E che l'italiano ma-

neggiato dalle Brigate rosse sia di traduzio-

ne da altra o da altre lingue, è questione da

laciarcalere L’italano delle Brigate rosse è

semplicemente, lapalissianamente, l'italiano

delle Brigate rosse. Ipotesi di ben diverse

«traduzioni » si possono formulare. Ma che

allo stato attuale, e forse anche nel più vicino

futuro, restano e resteranno come ipotesi. E

si può anche muovere, nel formulare, da

questa frase di una delle ultime lettere di

Moro: « Con questa tesi si avalla il peggior

rigore comunista ed a servizio dell’unicità del

comunismo »; frase cui finora non si è data

l’importanza, l’attenzione e l’analisi che me-

rita.

Le tesi cui Moro si riferisce sono quelle del

non trattare, della fermezza: e si capisce che

le attribuisca al peggior rigore comunista

corso a sostegno della Democrazia Cristiana,

partito che lui ben conosce come non rigoro-

so. Ma «l'unicità del comunismo » che cosa

può voler dire? Non è possibile abbia voluto

‘adombrare in questa espressione il sospetto,

se non la certezza, di un qualche legame delle

Brigate rosse col comunismo internazionale

o con qualche paese di regime comunista?

La ricerca di un simile legame (e non necessa-

riamente, s'intende, col comunismo e coi

paesi comunisti, ma con quei paesi, regimi e

governi che potevano e possono avere un

 

190

 

qualche interesse alla « destabilizzazione » i-

taliana) è tra i compiti demandati dal Par-

lamento alla Commissione, precisamente ai

punti g) e 4) della legge. La risposta, per

quanto riguarda i collegamenti con gruppi

terroristici stranieri, si può dare senza esita-

zione: ci sono stati, anche se non se ne cono-

sce esattamente la frequenza, la continuità e

la rilevanza. Ma sulle trame, i complotti, i

collegamenti internazionali al di là e al di

sopra degli avvicinamenti, comunicazioni e

scambi dei gruppi terroristici tra loro, una

risposta sicura non si può dare. E si capisce:

lerispostesicure,inquestogeneredicose, ven-

gono alla distanza di anni, dagli archivi, sotto

gli occhi dello storico. Possiamo dire che ci

sono nomi di paesi stranieri che tornano con

una certa frequenza, con una certa insisten-

za. E con più frequenza e insistenza quelli di

paesi del Medio Oriente, della Cecoslovac-

chia, della Libia e — recentemente — della

Bulgaria. Ma sono, per dirla col linguaggio

degli uomini di governo cui la Commissione

ne ha domandato, « voci ». Si sarebbe portati

a credere che non si basasse su « voci » l'ono-

revole Andreotti, allora presidente del Con-

siglio, quando al Senato, nella seduta del 18

maggio 1973, parlò di un paese in cui dei

giovani italiani erano stati addestrati a un

determinato tipo di guerriglia e quando, alle

proteste del senatore Bufalini che credeva

volesse alludere all'Unione Sovietica, precisò

che si trattava della Cecoslovacchia. Si basava

 

191

 

invece su « voci », se il 23 maggio 1980 dava

alla Commissione una versione estremamen-

te riduttiva di quel che sette anni prima, co-

me presidente del Consiglio, aveva perento-

riamente affermato: « Alcuni terroristi, in-

fatti, che erano accusati di atti di terrorismo,

risultò che fossero stati anche in Cecoslovac-

chia. In Cecoslovacchia, però, ci vanno deci-

ne di migliaia di persone, né risultò assolu-

tamente che vi potesse essere un rapporto

diverso di quello che può essere di ordine

turistico ». Evidentemente, l'onorevole An-

dreotti non aveva sentito la « voce » che, tra le

decine di migliaia d’italiani che vanno in Ce-

coslovacchia « en touriste », i servizi di sicu-

rezza ne avevano selezionato 600 circa che

potevano essere considerati meno turisti de-

gli altri. E questa « voce » viene da un rappo!

to del CESIS (Comitato Esecutivo per i Servi

zi di Informazione e di Sicurezza), certamen-

te redatto dopo il settembre 1979, che racco-

gliendo altre « voci» del SISMI, del SISDE

e del Comando Generale dell'Arma dei Ca-

rabinieri, affermava: « almeno 2.000 italia-

ni (dai rilevamenti effettuati da varie fonti)

dal’48 ad oggi hanno frequentato corsi riser-

vati ad attivisti estremisti, in Cecoslovacchia

ed in altri Paesi. Di questi sono noti al SISMI

circa 600 nominativi ». E riguardo alla Ceco-

slovacchia precisava: « In particolare a Mila-

no e a Roma risiedono elementi italiani del

servizio segreto cecoslovacco di contatto con i

vari gruppi terroristici. Essi provvedono alla

 

192

 

raccolta di un'accurata documentazione sui

candidati, tutti volontari, che trasmettono al-

l'Ambasciata cecoslovacca, che la inoltra suc-

cessivamente a Praga. A questo punto gli ele-

menti ritenuti di maggior spicco per fana-

tismo, aggressività e attitudine militare ven-

gono avviati a veri e propri corsi paramili-

tari, in Cecoslovacchia o in altro paese, for-

niti di passaporti falsificati nelle nazioni ospi-

ti. Una volta superato il ciclo addestrativo, i

terroristi fanno ritorno in Italia con un baga-

glio notevole di nozioni teoriche e pratiche

sulla guerriglia, che possono a loro volta ri-

versare sugli altri elementi delle organizza-

zioni di appartenenza ». E se questo passo del

rapporto, così particolareggiato, è da consi-

derare una « voce », bisogna dire che CESIS,

SISMI, SISDE e Arma dei Carabinieri non

fanno che raccogliere « voci » ed essere non

altro che «voci ». Il che, per il contribuente

italiano, è constatazione tutt'altro che rassi-

curante. O è da concludere come conclude il

dottor Lugaresi, direttore del SISMI: « Su

questi collegamenti internazionali vorrei di-

re questo: c'è un forte commercio di armi che

non è facile colpire perché è come il commer-

cio della droga: non investe tanto la matrice

politica quanto la convenienza commerciale.

C'è uno scambio di uomini fra coloro che

hanno obiettivi di destabilizzazione comune

Potrà esserci un indirizzo di carattere politi

co-strategico. Ma queste deduzioni dalle in-

formazioni singole che noi giornalmente for-

 

193

 

niamo non possono essere tratte che in se-

de politica... ». Appunto.

È da notare a questo proposito che il generale

Dalla Chiesa, che nella sua prima deposizio-

ne inclinava a considerare anche lui « voci»

quel che si diceva riguardo ai collegamenti

delle Brigate rosse con servizi segreti stranie-

riea ritenere Moretti la personalità di vertice

delle Brigate, a distanza di quasi due anni,

nella seconda deposizione, a una domanda

sulla persistenza delle sue convinzioni di allo-

ra, così rispondeva: «In questi giorni mi è

sorto un dubbio ... Mi chiedo oggi (perché

sono ormai fuori dalla mischia da un po’ di

tempo e faccio in qualche modo l'osservatore

che ha alle spalle un po’ di esperienza) dove

sono le borse, dov'è la prima copia (del così-

detto memoriale Moro). Nulla che potesse

condurre alle borse, non c'è stato brigatista

pentito o dissociato che abbia nominato una

cosa di questo tipo, né lamentato la sparizio-

ne di qualcosa ... Lo penso che ci sia qualcuno

che possa aver recepito tutto questo ... Dob-

biamo pensare anche ai viaggi all’estero che

faceva questa gente. Moretti andava e veni-

va».

È rallegrante che il dubbio gli sia venuto; un

po’ meno che gli sia venuto al momento che si

è trovato « fuori dalla mischia ».

 

Un ultimo particolare si vuole mettere in

evidenza, a dimostrare come la volontà di

trovare Moro veniva inconsciamente dete-

 

194

 

riorandosi e svanendo. Subito dopo il rapi-

mento, venne istituito un Comitato Intermi-

nisteriale per la Sicurezza che si riunì nei

giorni 17, 19, 29, 81 del mese di marzo; una

sola volta în aprile, il 24; e poi nei giorni 3 e 5

maggio. Ma quel che è peggio è che il Grup-

po politico-tecnico-operativo, presieduto dal

ministro dell'Interno e composto da perso-

nalità del governo, dai comandanti delle for-

ze di polizia e dei servizi di informazione e

sicurezza, dal questore di Roma e da altre

autorità di Pubblica Sicurezza, si riunì quoti-

dianamente fino al 31 marzo, ma successiva-

mente tre volte per settimana. Solo che di

queste riunioni dopo il 31 non esistono ver-

bali e «non risultano agli atti nemmeno ap-

punti ». Ed era il gruppo — costituito con giu-

sto intento — che doveva vagliare le informa-

zioni, decidere le azioni, avviarle e coordi-

narle.

 

Roma, 22 giugno 1982

 

P.S. Consegnata nel giugno 1982 (poiché

entro quel mese si era dapprima stabilito si

dovessero consegnare le relazioni), questa

mia relazione richiede oggi, sulle bozze, due

rettifiche dovute a tardive acquisizioni da

parte della Commissione: 1) l'iter delle due

macchine rinvenute nella tipografia Triaca è

stato finalmente ricostruito, per come si leg-

ge nella relazione di maggioranza. Va dun-

 

195

 

que ascritto alla fatalità che macchine alie-

nate come ferrivecchi da enti di Stato siano

finite, funzionanti, alle Brigate rosse; 2) il

rapporto che era stato attribuito al CESIS si

ritiene sia prodotto dal SISMI. Leggendolo,

permane però l'impressione che provenga

da un organismo di cui il SISMI era parte.

 

196

 

 

Nessun commento:

Posta un commento