Commissione Parlamentare d'inchiesta
su la strage di via Fani,
il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro,
la strategia e gli obiettivi
perseguiti dai terroristi
RELAZIONE DI MINORANZA
PRESENTATA DAL DEPUTATO
LEONARDO SCIASCIA
Numerosa di quaranta membri più il presi-
dente, nel succedersi di tre presidenti, l’ulti-
mo dei quali — il senatore Valiante — nomina-
to quando già le acquisizioni erano ingenti, e
necessitato dunque a informarsene, la Com-
missione Parlamentare d'inchiesta sulla stra-
ge di via Fani, il sequestro e l'assassinio di
Aldo Moro e la strategia e gli obiettivi perse-
guiti dai terroristi, si è mossa in questa prima
parte dei suoi lavori, sopratutto devoluti al
caso Moro, con inevitabili ritardi, lentezze e
dispersioni. Il fatto che la presenza dei com-
ponenti si riducesse di media tra la metà e i
due terzi, le è stato di minima agevolazione
sulle audizioni, sempre troppo lunghe e in
parte ripetitive. A ciò va aggiunta la latente e
a volte esplicita conflittualità, tra i membri
della Commissione, che riproduceva quella
manifestatasi tra i partiti del cosidetto arco
costituzionale — e specialmente tra il comuni-
sta e il democristiano da un lato, il socialista
dall’altro — nei giorni del sequestro Moro ed
oltre, fino al sequestro e al rilascio del magi-
strato D'Urso: e cioè sulla posizione detta
«umanitaria » dei socialisti, che affermava la
necessità di trattare coi terroristi, pur tenen-
do presenti i limiti del possibile cedimento, e
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quella detta « della fermezza », sostenuta da
comunisti, democristiani e altri, di assoluta e
inscalfibile intransigenza. Tali posizioni si ri-
petevano nella Commissione col perseguire
da una parte la dimostrazione che un minimo
cedimento, conseguente alle trattative con le
Brigate rosse, avrebbe potuto salvare la vita
di Aldo Moro (così come poi la chiusura del
carcere dell'Asinara e l'intervento di parla-
mentari presso i brigatisti carcerati si ritenne
— ma non da tutti, e non da noi — avesse
salvata quella del magistrato D'Urso); e dal-
l’altra che la disponibilità a trattare del Parti-
to Socialista, nonché incrinare la cosidetta
«solidarietà nazionale» fondata sulla fer-
mezza, non solo non poteva portare alla sal-
vezza di Moro, ma si configurava — nella ri-
cerca di un contatto particolare e riservato
con le Brigate rosse, negli incontri tra espo-
nenti socialisti ed esponenti dell’Autonomia
romana che si credeva potessero fare da tra-
mite (e si è visto poi che potevano) — come un
vero e proprio reato, visto che i magistrati
inquirenti non ne erano stati informati. Que-
sta conflittualità, che ad evidenza corre nei
verbali della Commissione, anche se mai e-
spressa nei termini netti in cui noi la riassu-
miamo, è stata nel lavoro della Commissione
— a parer nostro — una grave remora, una
incommensurabile perdita di tempo. Da ciò,
per esempio, le inutili udienze dedicate al
caso Rossellini-Radio « Città futura »: se Ros-
sellini aveva o no dato notizia dell’avveni-
mento di via Fani almeno mezz'ora prima che
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si verificasse (e se si fosse riusciti a provarla,
ne sarebbe venuta la conseguenza che Ros-
sellini era « dentro », e dunque i suoi contatti
coi socialisti diventavano automaticamente
gravi: beninteso peri socialisti). Ma Rossellini
non poteva aver dato quella notizia: poiché —
se ne ha l'impressione — aveva ben studiato gli
scopi e i comportamenti delle Brigate rosse,
poteva avere, se mai, azzardato una ipotesi.
Comunque, la domanda se Moro si poteva o
no salvare attraverso trattative, finisce con
l'apparire gratuita e irrilevante, dopo tante
ore di audizioni e migliaia di pagine di verba-
li. Gratuita e irrilevante, diciamo, ai fini di
una Commissione Parlamentare d'inchiesta;
mentre la si può considerare non gratuita e
non irrilevante in una inchiesta tra le Brigate
rosse, dentro le Brigate rosse e da loro con-
dotta: poiché a loro era possibile la scelta di
rilasciare Moro invece che di assassinarlo; e
dalla scelta di assassinarlo ha avuto principio,
nel dissenso tra loro insorto, la crisi che va
portandole alla disgregazione, all’annienta-
mento. La domanda prima ed essenziale cui
la Commissione ha il dovere di rispondere, a
noi appare invece questa: perché Moro non è
stato salvato, nei cinquantacinque giorni della sua
prigionia, da quelle forze che lo Stato prepone alla
salvaguardia, alla sicurezza, all’incolumità dei sin-
goli cittadini, della collettività, delle istituzioni?
Ovviamente, né si poteva evitare, altro tempo
si è perso nell’inseguire una risposta alla do-
manda posta dal punto a), articolo I, della
legge che istituiva la Commissione («se vi
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siano state informazioni, comunque collega-
bili alla strage di via Fani, concernenti pos-
sibili azioni terroristiche nel periodo prece-
dente il sequestro di Aldo Moro, e come tali
informazioni siano state controllate ed even-
tualmente utilizzate »). Intorno a tale do-
manda si sono accagliate insondabili mitoma-
nie, scarti della memoria, incontrollabili giri
di tempo (e ne fa parte anche il caso Rosselli-
ni-Radio « Città futura »). Né meno inutile è
stato il lavoro della Commissione per rispon-
dere al punto b) della legge: «se Aldo Moro
abbia ricevuto, nei mesi precedenti il rapi-
mento, minacce o avvertimenti diretti a fargli
abbandonare l’attività politica »; poiché è da
credere che ogni uomo politico di preminen-
te ruolo ne riceva, anonimamente e non, co-
me consiglio o come minaccia; e specialmen-
te ne avrà ricevuto — ne ha ricevuto — Aldo
Moro, i cui intendimenti non sempre deci-
frabili potevano facilmente dar luogo a frain-
tendimenti. Ma anche l’avvertimento (o mi-
naccia) che ebbe mentre presumibilmente si
trovava in un paese « amico », e da parte di
una personalità in quel paese autorevole, non
crediamo sia possibile collegarlo alla sua e-
liminazione: e per il fatto stesso che c'è stato.
Cose del genere — lo si sa persino proverbial-
mente — si fanno senza dirle; il non dirle è
anzi la condizione necessaria per farle. Era
invece rigorosamente prevedibile — a rigore
del loro cercare e colpire i gangli e le perso-
nalità dello « Stato delle multinazionali », del
sistema democratico e capitalistico — che le
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Brigate rosse puntassero alla cattura e all’eli-
minazione di un uomo come Moro, al vertice
della Democrazia Cristiana e sul punto — si
credeva — di allargarle intorno il consenso e
comunque di renderla più duttile, più pren-
sile, più durevolmente sicura (e però nella
misura in cui più duttili sì, ma meno prensili e
meno sicure diventavano le forze d’opposi-
zione). Ma che secondo i loro schemi, piutto-
sto rigidi ed elementari, le Brigate rosse fa-
cessero una diagnosi della situazione che por-
tasse alla cattura e/o all'eliminazione di Al-
do Moro, si era ben lontani, negli organi che
ne avevano il dovere, dal prevederlo; e figu-
riamoci dal prevenirlo. Sicché alla doman-
da che pone il punto c) della legge (« le even-
tuali carenze di adeguate misure di preven-
zione e tutela della persona di Aldo Moro »),
si può nettamente rispondere che non solo le
carenze ci furono, ma che ai tentativi della
Commissione per accertarle sono state oppo-
ste denegazioni così assolute da apparire in-
credibili. A renderle incredibili è la persona-
lità del maresciallo Leonardi, capo della scor-
ta di Moro, per come concordemente, da di-
versi punti di vista, ci è stata descritta. Giu-
dicando la scorta di Moro dentro l’università,
l’ex brigatista Savasta dice: « Io ho notato tre
uomini, fra cui uno anziano ... Erano tre mol-
to visibili, tra cui questo anziano, che era il
più bravo di tutti perché si muoveva nella
folla ... Sì, era il maresciallo Leonardi, che si
muoveva meglio di tutti, perché la ressa era
molto grossa per partecipare alle lezioni di
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Aldo Moro. Nonostante questo riusciva a te-
nere sotto controllo la situazione. Mi colpì
questo aspetto specifico anche per capire che
tipo di scorta c'era, cioè se era una scorta pro
forma o una scorta reale ... L'atteggiamento
del maresciallo Leonardi era quello di una
scorta reale, molto preparata: era quel tipo
di scorta che non eravamo abituati a vedere.
C'è un modo chesi capisce subito: primai il fat-
to che erano sempre pronti a prendere la pi-
stola; secondo, poi, come si muovevano tra la
gente. Cioè era un modo diverso. Se la scorta
È pro forma, non si sta molto a guardare;
quando è reale, si capisce subito, cioè come si
guarda la gente, come si vedono gli sposta-
menti delle altre persone. Sembrava una scor-
ta reale...». Nel loro lavoro di osservazio-
ne, i brigatisti erano dunque arrivati al giudi-
zio che tutte le scorte fossero pro forma; e
perciò la meraviglia di scoprire invece reale —
anche se in un determinato luogo — quella di
Aldo Moro. Ma il merito era tutto di quell'an-
ziano « molto bravo », che « riusciva a tenere
sotto controllo tutta la situazione ». Questo
giudizio, di innegabile competenza, concor-
da con quello del generale Ferrara: « Leo-
nardi era un sottufficiale eccellente sotto o-
gni riguardo: austero, serio, distintissimo,
fisicamente prestante, costantemente sicuro
di sé; era un ragazzo coraggioso e sempre
pronto, tiratore scelto, cintura nera... ». Que-
sti giudizi ci portano a considerare veridiche
tutte le testimonianze sulle preoccupazioni
del maresciallo Leonardi in ordine alla sicu-
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rezza dell'onorevole Moro (e alla propria); e
specialmente quella della moglie. Leonardi
aveva chiesto altri uomini, al ministero del-
l’Interno: forse in più, forse in sostituzione di
quelli che già aveva e che non gli pareva
fossero «ben preparati per il servizio che
dovevano svolgere ». Questa richiesta, che la
signora Leonardi colloca tra la fine del’77 e il
principio del ’78, non ha lasciato traccia né
nei documenti né nella memoria di chi avreb-
be dovuto riceverla. E pure non può non
esserci stata: proprio in quel periodo le abitu-
dini e i comportamenti di Moro e della sua
scorta venivano — sappiamo — studiati dalle
Brigate rosse; e ciò non sfuggiva all’attenzio-
ne di Leonardi. La sua preoccupazione cre-
sceva a misura che, per certi segni, vedeva il
pericolo avvicinarsi. Si era anche accorto che
lo seguivano, ne aveva parlato alla moglie e
ad altri aveva precisato che lo seguiva una
128 bianca. Negli ultimi tempi era così preoc-
cupato, teso, dimagrito, si sentiva talmente
insicuro da far dire alla moglie che « non era
più lo stesso». E quasi tutti i pomeriggi,
quand'era libero, andava, dice la moglie, «a
conferire col generale Ferrara, sempre per
motivi di servizio ». Ma il generale Ferrara
decisamente nega, avvalorando la sua nega-
zione col preciso ricordo di un solo incontro
con Leonardi: il 26 gennaio 1978, e per moti-
vi non di servizio. Con chi dunque parlava
Leonardi, a chi faceva i suoi rapporti? Che li
facesse, la signora se ne dice « sicura al cento
per cento ». Ma il generale Ferrara, pur am-
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mettendo che Leonardi « aveva contatti con
tutta la scala gerarchica », afferma: «il mare-
sciallo Leonardi non ha mai mandato rap-
porti a chicchessia ... abbiamo svolto un'in-
chiesta per controllare presso tutti i comandi
gerarchici della capitale se Leonardi avesse
fatto cenno anche verbale: non risultò nien-
te ... nessuna richiesta, né di personale né di
rinforzi di uomini e di mezzi, era mai stata
inoltrata ». Il che, ribadiamo, non è credibile
Leonardi può non aver parlato col generale
Ferrara, ma con qualcuno dei « comandi ge-
rarchici della capitale » ha parlato di certo.
Che ne sia scomparsa ogni traccia e che lo si
neghi è un fatto straordinariamente inquie-
tante.
Uguale immagine di preoccupazione, di ner-
vosismo, di paura dà del marito la vedova
dell’appuntato Ricci. Non parlava molto del
servizio, in casa: ma poiché faceva da autista,
diceva dei guai che la 130 che gli avevano
affidata dava (« si rompeva continuamente »)
e sospirava l’arrivo della 130 blindata. Alla
fine del ‘77, disse alla moglie che finalmente
arrivava: il che vuol dire che era stata richie-
sta e promessa. Ma non arrivò. Da ciò, forse,
verso il mese di febbraio, un più accentuato
nervosismo (« appariva nervoso e si compor-
tava in maniera strana »): che corrisponden-
do al comportamento del maresciallo Leo-
nardi, vuol dire che condividevano la stessa
preoccupazione, scorgevano gli stessi segni
Ma così come per i rapporti di Leonardi,
nessuno sa nulla della richiesta di una mac-
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china blindata; è stato anzi detto alla Com-
missione che se fosse stata richiesta sarebbe
stata data senza difficoltà. Ma com'è che, non
richiesta, la si aspettava e, ad un certo punto,
non la si aspettò più?
«Reale», dunque, dentro l'università, la
scorta di Moro diventava « pro forma » fuori,
nella deficienza e insicurezza dei mezzi: il che
certamente non sfuggì alla osservazione delle
Brigate rosse. Il dire, oggi, che una macchina
blindata e meglio funzionante per Moro; al-
tra coi freni a posto per la scorta che lo segui-
va; armi di sicura efficienza e addestramen-
to a prontamente usarle, non sarebbero stati
elementi di dissuasione o di non riuscita al
piano delle Brigate rosse, è altrettanto insen-
sato che affermare lo sarebbero stati. In azio-
ni come quella attuata per il sequestro di
Moro, basta che una piccola cosa funzioni o
non funzioni per deciderne la riuscita o il
fallimento. E comunque, quel che non fun-
ziona suppone delle responsabilità, che van-
no accertate e individuate. Ma nella ricerca
delle responsabilità — che sono sempre indivi-
duali anche se estensibili e concatenate — la
Commissione si è sempre fermata un po’ pri-
ma, al limite di scoprirle, di accertarle: per
ragioni formali, per difficoltà interne ed e-
sterne.
Il punto d) della legge che istituisce la Com-
missione d'inchiesta, richiede si faccia luce su
«le eventuali disfunzioni od omissioni e le
conseguenti responsabilità verificatesi nella
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direzione e nell’espletamento delle indagini,
sia per la ricerca e la liberazione di Aldo
Moro, sia successivamente all’assassinio dello
stesso, e nel coordinamento di tutti gli organi
e apparati che le hanno condotte»; ma il
materiale raccolto dalla Commissione a tal
proposito è così vasto che conviene estrarne
i fatti essenziali o emblematici, conferendo
importanza ad alcuni che sembrano non a-
verne e rovesciando il significato e il valore
di certi altri cui si è voluto invece dare impor-
tanza. Per esempio: sembrano importanti, e
se ne parla come di uno « sforzo imponente »
da riconoscere e da elogiare, le operazioni
condotte dalle forze dell'ordine nel giro dei
cinquantacinque giorni che vanno dal seque-
stro all’assassinio di Moro. Si tratta davvero
di uno sforzo imponente, e ne trascriviamo il
compendio: 72.460 posti di blocco, di cui
6.296 nella cinta urbana di Roma; 37.702
perquisizioni domiciliari, di cui 6.933 a Ro-
ma; 6.413.713 persone controllate, di cui
167.409 a Roma; 3.383.123 automezzi con-
trollati, di cui 96.572 a Roma; 150 persone
arrestate; 400 fermate. In queste operazio-
ni erano impegnati quotidianamente 13.000
uomini, 4.300 nella città di Roma. Sforzo
imponente, ma per nulla da elogiare. Preva-
lentemente condotte «a tappeto » (e però,
come si vedrà, con inconsulte eccezioni), le
operazioni condotte in quei giorni erano o
inutili o sbagliate. Si ebbe allora l'impressione
— e se ne trova ora conferma — che si voles-
se impressionare l'opinione pubblica con la
170
quantità e la vistosità delle operazioni, non-
curanti affatto della qualità. E si trattò pro-
priamente di una scelta subito fatta, di un
criterio (paradossalmente consistente nella
mancanza di un criterio effettuale) subito as-
sunto: e ci riferiamo a quell’ordine, diramato
alle questure dalla direzione dell’Ucigos di
attuare, subito dopo il sequestro di Moro, il
«piano zero ». Il « piano zero » esisteva sol-
tanto per la provincia di Sassari; ma il dir-
gente dell’Ucigos, che era stato questore a
Sassari, credeva esistesse per tutte le provin-
cie italiane. Ne nacque un convulso telefo-
narsi di questori tra loro, prima che si arri-
vasse a capire che il piano non esisteva. Ma il
punto non è quello dell'errore e del comico
che ne derivò; il punto è come mai si pensò
che l’attuazione di un « piano zero » in tutte le
provincie italiane potesse avere un qualche
effetto. Che senso aveva istituire posti di
blocco, controllare mezzi e persone, la matti-
na del 16 marzo, a Trapani o ad Aosta? Nes-
suno: se non quello di offrire lo spettacolo
dello « sforzo imponente ». Si partì dunque —
per volontà o per istinto — verso effetti spetta:
colari e forse confidando nel calcolo delle
probabilità (che non funzionò). Ed è com-
prensibile che per conseguire tali effetti si sia
trascurato l'impiego di forze meno imponen-
ti ma più sagaci per dare un corso meno vi-
stoso ma più producente alle indagini: a tal
punto che la Commissione si è sentita rispon-
dere dall'allora questore di Roma che manca-
va di uomini per un lavoro di pedinamento
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che non ne avrebbe richiesto più di una doz-
zina; mentre solo a Roma 4.300 agenti spet-
tacolarmente ma vanamente annaspavano.
Ma torneremo su questo punto. Aggiungia-
mo, intanto, che la nostra opinione sulla va-
cuità delle operazioni di polizia è condivisa e
trova autorevole conferma in questa dichia-
razione del dottor Pascalino, allora procura-
tore generale a Roma: «in quei giorni si fece-
ro operazioni di parata, più che ricerche ».
Ed è incontrovertibile che chi volle, chi assen-
tì, chi nulla fece per meglio indirizzare il
corso delle cose, va considerato — nel grado di
responsabilità che gli competeva — piena-
mente responsabile.
Curiosamente, a queste operazioni di para-
ta, corrisponde un contraddittorio segno di
preparazione e di efficienza, da parte della
polizia, che non è stato giustamente valutato:
e riguarda la segnalazione dei ricercati in
quanto presunti brigatisti; segnalazione che,
attraverso la diffusione di fotografie sulla
stampa e per televisione, fu fatta appena
qualche giorno dopo l’eccidio di via Fani. Si
segnalarono ventidue individui: ma subito si
scoprì che due di loro erano già in carcere,
uno notoriamente residente in Francia, un
altro regolarmente registrato nell'albergo in
cui alloggiava. Questi errori — che crediamo
trovino giustificazione nella endemica inco-
municabilità, nel nostro paese, delle istituzio-
ni tra loro — impedirono all’opinione pubbli-
ca di vedere quel che invece c'era di positivo
nella segnalazione: e cioè che su diciotto indi-
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vidui la polizia non si era sbagliata. Giusta-
mente un funzionario di polizia (il dottor
Improta) ha rivendicato, davanti alla Com-
missione, la preparazione e la prontezza di
mostrata dalla questura di Roma in questo
fatto, che invece l'opinione pubblica valutò al
contrario e arrivando quasi al dileggio. Lo
Stato non era impreparato, se dopo tre giorni
la questura di Roma era in grado di indicare—
precorrendo acquisizioni più certe, provate
e confessate — diciotto brigatisti, alcuni dei
quali facenti parte del gruppo di via Fani, e se
conosceva benissimo gli elementi più attivi
dell’area extraparlamentare (e persino nelle
loro differenziazioni ideologiche e strategi-
che, di prassi, di temperamento). Il concorde
coro di funzionari e uomini politici, sull’im-
preparazione dello Stato a fronteggiare l’at-
tacco terroristico, è dunque da accettare con
beneficio d’inventario. Il fatto che le prece-
denti « risoluzioni » delle Brigate rosse e gli
scritti dei loro teorici e fiancheggiatori non
fossero stati convenientemente studiati, dalla
polizia e dai servizi di sicurezza, non pone
come conseguenza necessaria l'incertezza, la
confusione, i disguidi, le omissioni, le vuote
operazioni che si sono verificate durante i
cinquantacinque giorni del sequestro Moro.
Bastava una normale, ordinaria professiona-
lità investigativa. Anche senza lo studio dei
testi (che peraltro sarebbe stato più utile alla
prevenzione che di fronte al fatto compiuto),
si aveva il vantaggio di conoscere approssi-
mativamente la natura e il fine di un’associa-
173
zione per delinquere denominata Brigate
rosse; si era già arrivati a individuare un con-
gruo numero di affiliati; si aveva sufficien-
te informazione sul tessuto protettivo di cui
l'associazione poteva godere. Se l'operazione
di via Fani fosse stata fatta a solo fine di lucro
e da un'associazione per delinquere mai ma-
nifestatasi, oscura, improvvisata, lo svantag-
gio sarebbe stato indubbiamente più forte.
Ma appunto dei vantaggi non si è saputo fare
alcun uso.
Ma andiamo per ordine, attenendoci stretta-
mente ai fatti in cui disfunzioni e omissioni
(e «conseguenti responsabilità » sempre) più
vistosamente appaiono. Nel pomeriggio del-
lo stesso giorno 16 in cui era avvenuto l’ecci-
dio della scorta e il rapimento di Aldo Moro,
la Fiat 132 in cui Moro era stato trasportato
viene ritrovata in via Licinio Calvo: ciò vuol
dire che nella zona stessa in cui era accaduto
il fatto, poche ore dopo, goliardicamente i
brigatisti potevano avventurarsi indenni a
bordo di una segnalatissima automobile. La
beffarda restituzione, segno di un sicuro
muoversi dei brigatisti nel quartiere, avrebbe
dovuto far nascere il sospetto che vi abitasse-
ro, e quindi incrementare ed acuire la vigi-
lanza. Ma così non fu, e altre due macchine
che erano servite per l'operazione venivano
trovate, nella stessa via, il 17 e il 19. Rischio
che sarebbe da considerare corso abbastanza
scioccamente dai brigatisti: ma evidentemen-
te sapevano quel che facevano e che senza
danno ne sarebbero usciti. Si procedeva in-
174
tanto — 17 marzo — al fermo di polizia giudi
ziaria per Franco Moreno, su cui sembrava
gravassero indizi probanti di una partecipa-
zione all'impresa: provvedimento non del
tutto comprensibile anche nel caso ci si fosse
trovati a indagare soltanto sull’eccidio, ma
del tutto incomprensibile trattandosi anche
di un sequestro di persona. Poiché il Moreno
era in quel momento, a giudizio degli investi-
gatori, il solo elemento visibile dell’associazio-
ne, il suo fermo non solo veniva a recidere un
possibile tramite per raggiungere gli altri e
il luogo in cui Aldo Moro era detenuto, ma
poteva anche essere fatale per la vita del se-
questrato. Ma forse anche in questo caso il
criterio della parata prevalse sù quello della
professionalità, della ponderata investigazio-
ne. Ma gli indizi che sembravano (e, a rileg-
gerne l'elenco, sembrano) gravi, si dissolsero
non sappiamo come nell'esame del magistra-
to; e tre giorni dopo il Moreno veniva rila-
sciato.
Intanto il giorno 18 — il terzo dei cinquanta-
cinque — la polizia, nelle sue operazioni di
perquisizione a tappeto, arrivava all’apparta
mento di via Gradoli affittato a un sedicente
ingegnere Borghi, più tardi identificato co-
me Mario Moretti. Vi arrivò: ma si fermò
davanti alla porta chiusa. E qui bisogna osser-
vare che per quanto si voglia le operazioni
fossero di parata, tant'è che si facevano; e in
ordine all’istinto e al raziocinio professionale
una porta chiusa, una porta cui nessuno ri-
spondeva, doveva apparire tanto più interes-
175
sante di una porta che al bussare si apriva. E
tanto più che il dottore Infelisi, il magistrato
che conduceva l'indagine, aveva ordinato che
degli appartamenti chiusi o si sfondassero le
porte o si attendesse l’arrivo degli inquilini.
Ordine eseguito in innumerevoli casi, e con
gran disagio di cittadini innocenti; ma pro-
prio in quell’unico caso (unico per quanto
sappiamo), che poteva sortire a un effetto
incalcolabile portata, non eseguito. Pare che
l'assicurazione dei vicini che l'appartamento
fosse abitato da persone tranquille, sia basta-
ta al funzionario di polizia per rinunciare a
visitarlo: mentre appunto tale assicurazio-
ne avrebbe dovuto insospettirlo. È pensabi-
le che le Brigate rosse non si comportassero
tranquillamente, e anzi più tranquillamente
di altri, abitando piccoli appartamenti di po-
polosi quartieri?
Esattamente un mese dopo — il 18 aprile —
l'appartamento di via Gradoli di cui la polizia
aveva preso atto come abitato da persone
tranquille, fortuitamente si rivelava covo del-
le Brigate rosse. Ma il nome Gradoli era già
corso nelle indagini, e vanamente, grazie a
una seduta spiritica tenutasi nella campagna
di Bologna il 2 aprile. E non meravigli che
negli atti di una commissione parlamentare
d'inchiesta si parli, come in una commedia
dialettale, di una seduta spiritica: ma dodici
persone, come si suol dire, degne di fede, e
per di più appartenenti al ceto dotto della
dotta Bologna, sono state sentite una per una
dalla Commissione e tutte hanno testimonia-
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to della seduta spiritica da loro tenuta e da cui
è venuto fuori il nome Gradoli. Non una di
loro si è dichiarata esperta o credente riguar-
do a fenomeni del genere; tutte hanno parla-
to di un'atmosfera «ludica » che attorno al
«piattino » e agli altri elementi necessari al-
l’evocazione, si era stabilita in un pomeriggio
uggioso: di gioco, dunque, di passatempo. E
non solo tutti sembravano, nel riferire al-
la Commissione, credere alla semovenza del
« piattino »; ma di fatto ci credettero, se l’in-
domani ne riferirono alla Digos di Bologna e,
successivamente, al dottor Cavina, capo del-
l'ufficio stampa dell'onorevole Zaccagnini.
Tra i farfugliamenti del « piattino », un no-
me era venuto fuori nettamente: Gradoli.
Poiché c'è in provincia di Viterbo un paese di
questo nome, la polizia vi si recò in forze,
presumibilmente facendovi le solite perqui-
sizioni a tappeto; e senz’alcun risultato, si
capisce. Il suggerimento della signora Moro,
di cercare a Roma una via Gradoli, non fu
preso in considerazione; le si rispose, anzi,
che nelle pagine gialle dell'elenco telefonico
non esisteva. Il che vuol dire che non ci si era
scomodati a cercarla, quella via, nemmeno
nelle pagine gialle: poiché c'era.
All'appartamento di via Gradoli abitato dal
sedicente ingegnere Borghi, si arriva final-
mente, e per caso, alle 9,47 del 18 aprile: a
tamponare una dispersione d’acqua, non a
sorprendervi dei brigatisti. E qui è da notare
che una specie di fatalità idrica incombe sulle
Brigate rosse, non essendo quello di via Gra-
177
doli il solo caso in cui un covo viene scoperto
perla disfunzione di un condotto. E del resto
abbiamo parlato di spiriti, potremmo anche
parlare di veggenti che nella vicenda hanno
avuto un certo ruolo: perché non parlare
della fatalità? Vi arrivarono primi i pompieri,
naturalmente; e capirono e segnalarono di
trovarsi in un covo. E a questo punto altro
garbuglio, altro mistero: i giornalisti arriva-
rono prima della polizia; i carabinieri seppe-
ro della scoperta soltanto perché riuscirono a
intercettare una comunicazione radio della
polizia; il giudice inquirente apprese la noti-
zia due ore dopo: non dalla polizia, ma dai
carabinieri. E fu costretto, il giudice Infelisi,
a ordinare il sequestro dei documenti trovati
nel covo, a far sì che anche i carabinieri ne
prendessero visione (ma il questore De Fran-
cesco nega di aver posto il veto a che i docu-
menti li vedessero i carabinieri e dice di igno-
rare il sequestro ordinato dal giudice: con-
trasto rimasto irrisolto). Non si provvide,
noltre, al rilevamento delle impronte digita-
li nel covo; né pare sia stato prontamente e
accuratamente inventariato e vagliato il ma-
teriale rinvenuto. Il qual materiale, a giudizio
del dottor Infelisi, non apportava alcuna in-
dicazione relativamente al luogo in cui pote-
va trovarsi Moro; ma sente il bisogno, il giu-
dice, di mettere questo inquietante inciso:
«almeno quello di cui io ho avuto conoscen-
za »: così aprendo come possibile il fatto che
possa esserci stato del materiale sottratto alla
sua conoscenza. Insomma: tutto quel che in-
178
tercorre dal 18 marzo al 18 aprile intorno al
covo di via Gradoli attinge all'inverosimile,
all’incredibile: spiriti (che in una lettera in-
viata dall'onorevole Tina Anselmi alla Com-
missione ne appaiono molto meglio informa-
ti di quanto poi riferito dai partecipanti alla
seduta), provvidenziale dispersione d’acqua
(ma la Provvidenza aiutata, per distrazione o
per volontà, da mano umana), assenza della
più elementare professionalità, della più ele-
mentare coordinazione, della più elementare
intelligenza.
E ancora abbiamo da fermarci su altri episo-
di. Sorvoliamo su quello del lago della Du-
chessa: in cui, non credendo al comunicato, e
perdendo tempo a stabilirne l’inautentica-
autenticità © l’autentica-inautenticità, si agì
come credendoci, con conseguente distrazio-
ne e dispersione di forze; e fissiamoci per un
momento su quello della tipografia Triaca.
La prima segnalazione, relativa a persone
che gravitavano intorno alla tipografia, e co-
munque di persone sospettate di avere a che
fare con le Brigate rosse, l’Ucigos la ebbe il 28
marzo. Ma passò giusto un mese prima che
fosse in grado di farne rapporto alla Digos: il
29 aprile. Tanta lentezza crediamo dovuta
principalmente a quello che il dottor Fariello
(dell’Ucigos) chiama « pedinamento a inter-
valli»: che sarebbe il pedinare le persone
sospette, a che non si accorgano di essere
pedinate, quando sì e quando no. Il che equi-
vale a non pedinarle affatto, poiché soltanto
il caso può dare effetto a una siffatta vigilan-
179
za.Come se il recarsi in luoghi segreti, gli
incontri clandestini e tutto ciò che s'appartie-
ne all’occulto cospirare e delinquere, fosse
regolato da abitudini ed orari. Né la possibili
tà che la persona si accorga di essere oggetto
di vigilanza viene dall’assiduità con cui la si
segue, ma dall’accortezza o meno con cui l’o-
perazione viene eseguita.
Passa dunque un mese — e Moro sempre
chiuso nella « prigione del popolo » — perché
la segnalazione, resa più consistente dalla
fortuna che finalmente arride al « pedina-
mento a intervalli », arrivi dall'Ucigos alla Di-
gos. Il 1° maggio si ha cognizione della tipo-
grafia Triaca, in via Pio Foà. Lo stesso giorno,
la Digos chiede di poter effettuare controlli
telefonici, otto giorni dopo l'autorizzazione a
perquisire. La perquisizione si sarebbe dovu-
ta effettuare il 9, il giorno stesso in cui le
Brigate rosse consegnano il cadavere di Mo-
ro: e perciò viene rimandata al 17. E qui si
può anche essere d'accordo col dottor Fariel-
io: che tanto valeva attendere ancora. Moro
ormai assassinato, una vigilanza non ad in-
tervalli, ma continua e sagace intorno alla
tipografia avrebbe persino consentita la cat-
tura di Moretti: ma tanto il dirigente dell'U-
cigos che il questore De Francesco ammetto-
no di aver dovuto precipitare l'operazione
per «la pressione dell'opinione pubblica ».
Dall’operazione al tempo stesso tardiva e
precipitosa presso la tipografia Triaca dira-
ma una rivelazione che ancora ci costringe a
usare la parola incredibile: nella tipografia
180
venivano rinvenute una stampatrice prove-
niente dal Raggruppamento Unità Speciali
dell'Esercito e una fotocopiatrice provenien-
te dal ministero dei Trasporti. Per quanto
riguarda la fotocopiatrice, nessun elemento
si è riusciti ad acquisire per capire come dal
ministero dei Trasporti sia finita nella tipo-
grafia delle Brigate rosse: il che può dare al
Parlamento e all'opinione pubblica (quella
che non preme per operazioni di parata e sa
essere attenta) sufficiente idea delle difficoltà
incontrate dalla Commissione. Per quanto ri-
guarda la stampatrice, si sono avute sì delle
risposte: ma non servono a formularne una
sicura sull’iter della macchina dal Raggrup-
pamento Unità Speciali (RUS) — che è poi
parte del SISMI, e cioè dei servizi segreti con
tal sigla rifondati sulla dissoluzione del SID —
alla tipografia Triaca. Che nelle amministra-
zioni dello Stato sia uso alienare come « ferri-
vecchi » macchine che, irrisoriamente acqui-
state da privati, miracolosamente tornano a
funzionare, può anche — nel disordine delle
cose — ammettersi; ma che proprio vadano a
finire in mano alle Brigate rosse, è un po”
troppo; e merita una severa inchiesta.
Altro fatto da segnalare, sempre in relazione
«alle disfunzioni, alle omissioni e alle conse-
guenti responsabilità verificatesi nella dire-
zione e nell’espletamento delle indagini », è
l’avere trascurato quello che sarebbe stato un
vero e proprio filo conduttore per arrivare
all’individuazione e alla cattura di un certo
numero di brigatisti e, con tutta probabilità,
181
al luogo in cui Aldo Moro era detenuto. A ciò
noi arriviamo col senno del poi; ma la polizia
avrebbe potuto e dovuto arrivarci col senno
di allora. Dice l'allora questore di Roma De
Francesco (e la sua convinzione è pienamente
condivisa dal dottore Improta, che era stato
a capo della divisione politica): « L'area del-
l'Autonomia è stata forse privilegiata nelle
indagini, anche precedenti al sequestro del-
l'onorevole Moro, poiché ritenevo e sono tut-
tora convinto che si trattasse dell’area più
pericolosa della capitale ... Sul problema del-
l'Autonomia fin dal primo giorno, cioè dal 16
marzo, ho insistito perché quella — a mio avvi-
so — era l’area nella quale alcune unità delle
Brigate rosse avevano potuto trovare un sup-
porto essenziale ». Ma non si riesce a vedere
come la privilegiasse, come insistesse, se non
devolveva sorveglianza alcuna ai capi del mo-
vimento, che pure conosceva benissimo. Noi
ora sappiamo quel che allora il questore era
in grado di sospettare, conseguentemente al-
le sue convinzioni, e di accertare: che i rap-
porti tra almeno due brigatisti e i « grossi
esponenti » dell’Autonomia romana c'erano
e si mantennero durante i cinquantacinque
giorni e oltre. E si concretizzavano in incon-
tri. Un’accorta sorveglianza — e sopratutto
senza intervalli — di Piperno e Pace avrebbe
consentito l’individuazione di Morucci e Fa-
randa, i due brigatisti che avevano preso par-
teall’azione di via Fani, che con ogni probabi-
lità continuavano a frequentare il luogo in
cui Moro era detenuto e con tutta certezza ad
182
avere incontri con coloro che lo detenevano.
Ma a chi, in Commissione, si meravigliava
non avere la polizia presa una così elemente
re misura, come quella di far sorvegliare i
capi dell’Autonomia, il questore De France-
sco rispondeva che mancava di uomini. E ne
teneva impegnati più di 4.000 in operazioni
di parata!
A questo breve catalogo di omissioni e di
sfunzioni va aggiunto come esemplare l’e-
pisodio riferito dall’allora comandante la
Guardia di Finanza: il giorno 16, poco dopo
l’azione di via Fani, « un individuo, fermo in
via Sorelle Marchisio, ha notato due perso-
ne: una più magra, di statura 1,70-1,75, ve-
stita con una uniforme di pilota civile, l’altra
di corporatura robusta, tarchiata, più bassa,
con barba folta. La prima sorreggeva la se-
conda per un braccio, stringendolo forte-
mente al disopra del gomito. Provenivano da
via Pineta Sacchetti, angolo via Montiglio;
hanno percorso un tratto di via Sorelle Mar-
chisio, raggiunto via Marconi, svoltato verso
via Cogoleto ... In quella zona c'è una clini-
ca ». Riversata subito l'informazione alla Di-
gos, l'ordine di perquisire la clinica arrivò alla
Guardia di Finanza « qualche settimana do-
po». E tutto lasciava sospettare che quel che
l'anonimo informatore aveva visto fosse da
mettere in connessione con quel che pochi
minuti prima era accaduto in via Fani.
Ci si chiede da che tanta estravaganza, tanta
lentezza, tanto spreco, tanti errori professio-
nali possano essere derivati. Si dice: l’impre-
183
parazione di fronte al fenomeno terroristico
e, particolarmente, di fronte a un'azione così
eclatante nei mezzi, nell'oggetto, negli scopi,
come quella di via Fani. Ma non è una giusti-
ficazione convincente: abbiamo visto come si
fosse in grado di segnalare subito un certo
numero di brigatisti, alcuni dei quali siamo
ora certi che hanno partecipato all'azione, e
come si avessero precise convinzioni riguar-
do alle aree di complicità o di più o meno
diretto sostegno. È si può anche ammettere
una impreparazione più generale e remota
di fronte a fatti delinquenziali che scaturisco-
no da associazioni protette dalla paura e dal
silenzio dei cittadini, da un lato; dagli adden-
tellati reali o supposti col potere, dall'altro.
Ma non è che una spiegazione parziale. Biso-
gna, per il caso Moro, metterne avanti altre:
che sono insieme politiche, psicologiche, psi-
canalitiche. Certamente quel che si fece di
sbagliato — e che impedì si facessero più pro-
ducenti e giuste azioni — fu in parte dettato
dal condizionamento dei « media » (non di-
remmo dalla pressione dell'opinione pubbli-
ca: l'opinione pubblica, quando davvero c'è e
si fa sentire, è meno informe, meno dispo-
nibile ad appagarsi di qualsiasi cosa: capa-
ce, insomma, di critica e di scelta): operazioni
di parata, come (direbbe Machiavelli) da un
«luogo alto » le giudica il dottor Pascalino
(ma fece qualcosa, accorgendosene, per farle
finire?). Queste operazioni, che per apparire,
per rendersi a spettacolo, dovevano essere
ben consistenti nell'impiego di uomini e di
184
mezzi, bisogna ribadire che impedirono se ne
facessero altre di necessarie, di essenziali, per
una ponderata, continua e rapida investiga-
zione. E senza dire (cioè dicendolo ancora)
che nell'unico caso in cui fortuitamente le
operazioni di parata avrebbero potuto rag-
giungere un effetto, non funzionarono: da-
vanti alla porta chiusa dell’appartamento di
via Gradoli, il 18 marzo.
Ma crediamo che l'impedimento più forte, la
remora più vera, la turbativa più insidiosa sia
venuta dalla decisione di non riconoscere nel
Moro prigioniero delle Brigate rosse il Mo-
ro di grande accortezza politica, riflessivo, di
ponderati giudizi e scelte, che si riconosceva
(riconoscimento ormai quasi unanime: ap-
punto perché come postumo, come da ne-
crologio) era stato fino alle 8,55 del 16 marzo.
Da quel momento Moro non era più se stesso,
era diventato un altro: e se ne indicava la
certificazione nelle lettere in cui chiedeva di
essere riscattato, e sopratutto per il fatto che
chiedeva di essere riscattato.
Abbiamo usato la parola decisione: formal-
mente imprecisa ma sostanzialmente esatta.
Spontanea o di volontà, improvvisa o gra-
dualmente insorgente, di pochi o di molti, è
stata certamente una decisione — e per il fatto
stesso che se ne poteva prendere altra. E ci
rendiamo conto della impossibilità di prova-
re documentalmente che una tale decisione —
ufficialmente mai dichiarata — abbia potuto
avere degli effetti a dir poco diluenti sui tem-
pi e i modi dell'indagine. Possiamo anche
185
ammettere che gli effetti non furono a livello
di coscienza e di consapevolezza — e insomma
di malafede; ma non si può non riconoscere —
e basta rivedere la stampa di quei giorni — che
si era stabilita un'atmosfera, una temperie,
uno stato d’animo per cui in ciascuno ed in
tutti (con delle sparute eccezioni) si insinuava
l'occulta persuasione che il Moro di prima
fosse come morto e che trovare vivo il Moro
altro quasi equivalesse a trovarlo cadavere nel
portabagagli di una Renault. Si parlò dappri-
ma, a giustificare il contenuto delle sue lette-
re, di coercizioni, di maltrattamenti, di dro-
ghe; ma quando Moro cominciò insisten-
temente a rivendicare la propria lucidità e
libertà di spirito («tanta lucidità almeno,
quanta può averne chi è da quindici giorni in
una situazione eccezionale, che non può ave-
re nessuno che lo consoli, che sa che cosa lo
aspetti »), si passò ad offrire compassionevol-
mente l’immagine di un Moro altro, di un
Moro due, di un Moro non più se stesso:
tanto da credersi lucido e libero mentre non
lo era affatto. Il Moro due in effetti chiedeva
fossero posti in essere, per salvare la propri:
vita, quegli stessi meccanismi che il Moro uno
aveva, nelle sue responsabilità politiche e di
governo, usati o approvati in deroga alle leg-
gi dello Stato ma al fine di garantire tranquil-
lità al Paese: « non una, ma più volte, furono
liberati con meccanismi vari palestinesi dete-
nuti ed anche condannati, allo scopo di stor-
nare gravi rappresaglie che sarebbero poi
state poste in essere, se fosse continuata la
186
detenzione... ». Simili meccanismi, di cui l'o-
pinione pubblica non era al corrente, erano
stati adoperati — evidentemente — nel silenzio
del governo, dei partiti al governo, del Parla
mento; e si poteva rispondere a Moro che
tuttaltro che in silenzio, e anzi con sicuro
clamore e perdita di prestigio e credibilità, vi
si poteva ricorrere nel suo caso. Si preferì
invece sminuire, invalidare e smentire i suoi
argomenti da un punto di vista clinico inve-
ce che politico, relegandoli alla sua delirante
condizione di prigioniero. Da ciò la nessuna
importanza conferita dagli investigatori alle
sue lettere. L'onorevole Cossiga, allora mini-
stro dell'Interno, ha escluso nel modo più
netto che sia stata tentata una decifrazio-
ne dei messaggi di Moro: « una decifrazione
non fu fatta durante il sequestro. Procedeva-
mo con metodi artigianali. Furono invece e-
seguite analisi linguistiche sui messaggi del-
le Brigate rosse... » (in che consistessero i me-
todi artigianali e quali risultati dessero le ana-
lisi linguistiche, lo si è intravisto anche allo-
ra). Ma lo stesso Cossiga, dopo aver detto che
sulle lettere di Moro si possono esprimere
«giudizi contrastanti ed anche dolorosi » fi-
nisce col riconoscere che in esse « Moro, nella
sua lucidità, nella sua intelligenza, con tutti i
suoi argomenti, aveva capito che era questo
che in realtà volevano coloro che colloquiava-
no con lui: essere riconosciuti come parte che
può essere fuori dello Stato, ma che è nella
società e con la quale è possibile un rapporto
dialettico ». Appunto: e Moro, senza prescin-
187
dere dalle sue convinzioni più radicate (che
Cossiga ha ben riassunto: e si vedano, di Mo-
ro, le lezioni sullo Stato), non poteva che as-
secondarne il gioco, a guadagnar tempo e a
darne alla polizia a che lo trovasse. Non si
vede perché Moro, uomo di grande intelli-
genza e perspicacia, avrebbe dovuto compor-
tarsi come un cretino: se gli era consentito di
guadagnar tempo e di comunicare con l’e-
sterno, di queste due favorevoli circostanze
non poteva non approfittare. E anche se la
speranza che manifestava era soltanto quella
dello scambio, è da credere—in tutta ovvietà —
che ne nutrisse altra: che le forze dell’ordi-
ne arrivassero al luogo in cui era segregato.
Conseguentemente, deve aver tentato di da-
re qualche indicazione sul posto in cui si tro-
vava: nascondendola, si capisce, cifrandola.
Chiunque l'avrebbe tentato: a Moro invece,
di fatto, questa capacità e questo intento sono
stati pregiudizialmente negati. Ed era inve-
ce, per l’attenzione che sapeva dedicare alle
parole, per l’uso anche tortuoso che sapeva
farne, la persona più adatta a nascondere
(per dirla pirandellianamente) tra le parole le
cose.
La cifra dei suoi messaggi poteva, per esem-
pio, essere cercata nell'uso impreciso di cer-
te parole, nella disattenzione appariscente.
Quando Cossiga e Zaccagnini, per dire delle
condizioni in cui Moro si trovava, citano la
frase di una sua lettera (quella, appunto, di
retta a Cossiga ministro dell'Interno): «
trovo sotto un dominio pieno ed incontrolla-
188
to», è curioso non si accorgano che proprio
questa contiene una incongruenza e che non
definisce precisamente il tipo di dominio sot-
to cui Moro si trovava. Che vuol dire, infatti,
«incontrollato »? Chi poteva o doveva con-
trollare le Brigate rosse? E perciò appare
attendibilissima (e specialmente dopo le rive-
lazioni degli ex brigatisti) la decifrazione che
ci è stata suggerita: « mi trovo in un condomi-
nio molto abitato e non ancora controllato
dalla polizia ». E probabilmente anche le pa-
role « sotto » e « sottoposto » erano da inten-
dere come indicazione topografica. Ma non-
ché decifrare non si è voluto nemmeno esse-
re attenti all'evidenza: come in quel « qui » —
sfuggito forse all’autocensura che Moro non
poteva non imporsi e certamente alla censura
delle Brigate rosse — che inequivocabilmente
è da leggere « a Roma » (« si dovrebbe essere
in condizioni di chiamare qui l'ambasciatore
Cottafavi »). E non era indicazione da poco,
considerando con quanto spreco lo si cerca-
va fuori Roma. Non si è fatto alcun credito,
insomma, all’intelligenza di Moro: da valu.
tarla quanto meno superiore a quella dei suoi
carcerieri. Si poteva, senza venir meno a po-
sizioni di fermezza, continuare a dialogare con
lui: sia pubblicamente — nell’opporre ragioni
alle sue: che erano ragioni e non farnetica-
zioni — sia segretamente — cercando nelle sue
lettere quei messaggi che era probabile e pos-
sibile nascondessero. Gli esperti sono stati
invece adibiti a studiare il linguaggio delle
Brigate rosse: e non c'era bisogno di esperti
189
per scoprirlo poveramente pietrificato, fatto
di slogans, di « idées recues » dalla palingene-
tica rivoluzionaria, di detriti di manuali so-
ciologici e guerriglieri. E che l'italiano ma-
neggiato dalle Brigate rosse sia di traduzio-
ne da altra o da altre lingue, è questione da
laciarcalere L’italano delle Brigate rosse è
semplicemente, lapalissianamente, l'italiano
delle Brigate rosse. Ipotesi di ben diverse
«traduzioni » si possono formulare. Ma che
allo stato attuale, e forse anche nel più vicino
futuro, restano e resteranno come ipotesi. E
si può anche muovere, nel formulare, da
questa frase di una delle ultime lettere di
Moro: « Con questa tesi si avalla il peggior
rigore comunista ed a servizio dell’unicità del
comunismo »; frase cui finora non si è data
l’importanza, l’attenzione e l’analisi che me-
rita.
Le tesi cui Moro si riferisce sono quelle del
non trattare, della fermezza: e si capisce che
le attribuisca al peggior rigore comunista
corso a sostegno della Democrazia Cristiana,
partito che lui ben conosce come non rigoro-
so. Ma «l'unicità del comunismo » che cosa
può voler dire? Non è possibile abbia voluto
‘adombrare in questa espressione il sospetto,
se non la certezza, di un qualche legame delle
Brigate rosse col comunismo internazionale
o con qualche paese di regime comunista?
La ricerca di un simile legame (e non necessa-
riamente, s'intende, col comunismo e coi
paesi comunisti, ma con quei paesi, regimi e
governi che potevano e possono avere un
190
qualche interesse alla « destabilizzazione » i-
taliana) è tra i compiti demandati dal Par-
lamento alla Commissione, precisamente ai
punti g) e 4) della legge. La risposta, per
quanto riguarda i collegamenti con gruppi
terroristici stranieri, si può dare senza esita-
zione: ci sono stati, anche se non se ne cono-
sce esattamente la frequenza, la continuità e
la rilevanza. Ma sulle trame, i complotti, i
collegamenti internazionali al di là e al di
sopra degli avvicinamenti, comunicazioni e
scambi dei gruppi terroristici tra loro, una
risposta sicura non si può dare. E si capisce:
lerispostesicure,inquestogeneredicose, ven-
gono alla distanza di anni, dagli archivi, sotto
gli occhi dello storico. Possiamo dire che ci
sono nomi di paesi stranieri che tornano con
una certa frequenza, con una certa insisten-
za. E con più frequenza e insistenza quelli di
paesi del Medio Oriente, della Cecoslovac-
chia, della Libia e — recentemente — della
Bulgaria. Ma sono, per dirla col linguaggio
degli uomini di governo cui la Commissione
ne ha domandato, « voci ». Si sarebbe portati
a credere che non si basasse su « voci » l'ono-
revole Andreotti, allora presidente del Con-
siglio, quando al Senato, nella seduta del 18
maggio 1973, parlò di un paese in cui dei
giovani italiani erano stati addestrati a un
determinato tipo di guerriglia e quando, alle
proteste del senatore Bufalini che credeva
volesse alludere all'Unione Sovietica, precisò
che si trattava della Cecoslovacchia. Si basava
191
invece su « voci », se il 23 maggio 1980 dava
alla Commissione una versione estremamen-
te riduttiva di quel che sette anni prima, co-
me presidente del Consiglio, aveva perento-
riamente affermato: « Alcuni terroristi, in-
fatti, che erano accusati di atti di terrorismo,
risultò che fossero stati anche in Cecoslovac-
chia. In Cecoslovacchia, però, ci vanno deci-
ne di migliaia di persone, né risultò assolu-
tamente che vi potesse essere un rapporto
diverso di quello che può essere di ordine
turistico ». Evidentemente, l'onorevole An-
dreotti non aveva sentito la « voce » che, tra le
decine di migliaia d’italiani che vanno in Ce-
coslovacchia « en touriste », i servizi di sicu-
rezza ne avevano selezionato 600 circa che
potevano essere considerati meno turisti de-
gli altri. E questa « voce » viene da un rappo!
to del CESIS (Comitato Esecutivo per i Servi
zi di Informazione e di Sicurezza), certamen-
te redatto dopo il settembre 1979, che racco-
gliendo altre « voci» del SISMI, del SISDE
e del Comando Generale dell'Arma dei Ca-
rabinieri, affermava: « almeno 2.000 italia-
ni (dai rilevamenti effettuati da varie fonti)
dal’48 ad oggi hanno frequentato corsi riser-
vati ad attivisti estremisti, in Cecoslovacchia
ed in altri Paesi. Di questi sono noti al SISMI
circa 600 nominativi ». E riguardo alla Ceco-
slovacchia precisava: « In particolare a Mila-
no e a Roma risiedono elementi italiani del
servizio segreto cecoslovacco di contatto con i
vari gruppi terroristici. Essi provvedono alla
192
raccolta di un'accurata documentazione sui
candidati, tutti volontari, che trasmettono al-
l'Ambasciata cecoslovacca, che la inoltra suc-
cessivamente a Praga. A questo punto gli ele-
menti ritenuti di maggior spicco per fana-
tismo, aggressività e attitudine militare ven-
gono avviati a veri e propri corsi paramili-
tari, in Cecoslovacchia o in altro paese, for-
niti di passaporti falsificati nelle nazioni ospi-
ti. Una volta superato il ciclo addestrativo, i
terroristi fanno ritorno in Italia con un baga-
glio notevole di nozioni teoriche e pratiche
sulla guerriglia, che possono a loro volta ri-
versare sugli altri elementi delle organizza-
zioni di appartenenza ». E se questo passo del
rapporto, così particolareggiato, è da consi-
derare una « voce », bisogna dire che CESIS,
SISMI, SISDE e Arma dei Carabinieri non
fanno che raccogliere « voci » ed essere non
altro che «voci ». Il che, per il contribuente
italiano, è constatazione tutt'altro che rassi-
curante. O è da concludere come conclude il
dottor Lugaresi, direttore del SISMI: « Su
questi collegamenti internazionali vorrei di-
re questo: c'è un forte commercio di armi che
non è facile colpire perché è come il commer-
cio della droga: non investe tanto la matrice
politica quanto la convenienza commerciale.
C'è uno scambio di uomini fra coloro che
hanno obiettivi di destabilizzazione comune
Potrà esserci un indirizzo di carattere politi
co-strategico. Ma queste deduzioni dalle in-
formazioni singole che noi giornalmente for-
193
niamo non possono essere tratte che in se-
de politica... ». Appunto.
È da notare a questo proposito che il generale
Dalla Chiesa, che nella sua prima deposizio-
ne inclinava a considerare anche lui « voci»
quel che si diceva riguardo ai collegamenti
delle Brigate rosse con servizi segreti stranie-
riea ritenere Moretti la personalità di vertice
delle Brigate, a distanza di quasi due anni,
nella seconda deposizione, a una domanda
sulla persistenza delle sue convinzioni di allo-
ra, così rispondeva: «In questi giorni mi è
sorto un dubbio ... Mi chiedo oggi (perché
sono ormai fuori dalla mischia da un po’ di
tempo e faccio in qualche modo l'osservatore
che ha alle spalle un po’ di esperienza) dove
sono le borse, dov'è la prima copia (del così-
detto memoriale Moro). Nulla che potesse
condurre alle borse, non c'è stato brigatista
pentito o dissociato che abbia nominato una
cosa di questo tipo, né lamentato la sparizio-
ne di qualcosa ... Lo penso che ci sia qualcuno
che possa aver recepito tutto questo ... Dob-
biamo pensare anche ai viaggi all’estero che
faceva questa gente. Moretti andava e veni-
va».
È rallegrante che il dubbio gli sia venuto; un
po’ meno che gli sia venuto al momento che si
è trovato « fuori dalla mischia ».
Un ultimo particolare si vuole mettere in
evidenza, a dimostrare come la volontà di
trovare Moro veniva inconsciamente dete-
194
riorandosi e svanendo. Subito dopo il rapi-
mento, venne istituito un Comitato Intermi-
nisteriale per la Sicurezza che si riunì nei
giorni 17, 19, 29, 81 del mese di marzo; una
sola volta în aprile, il 24; e poi nei giorni 3 e 5
maggio. Ma quel che è peggio è che il Grup-
po politico-tecnico-operativo, presieduto dal
ministro dell'Interno e composto da perso-
nalità del governo, dai comandanti delle for-
ze di polizia e dei servizi di informazione e
sicurezza, dal questore di Roma e da altre
autorità di Pubblica Sicurezza, si riunì quoti-
dianamente fino al 31 marzo, ma successiva-
mente tre volte per settimana. Solo che di
queste riunioni dopo il 31 non esistono ver-
bali e «non risultano agli atti nemmeno ap-
punti ». Ed era il gruppo — costituito con giu-
sto intento — che doveva vagliare le informa-
zioni, decidere le azioni, avviarle e coordi-
narle.
Roma, 22 giugno 1982
P.S. Consegnata nel giugno 1982 (poiché
entro quel mese si era dapprima stabilito si
dovessero consegnare le relazioni), questa
mia relazione richiede oggi, sulle bozze, due
rettifiche dovute a tardive acquisizioni da
parte della Commissione: 1) l'iter delle due
macchine rinvenute nella tipografia Triaca è
stato finalmente ricostruito, per come si leg-
ge nella relazione di maggioranza. Va dun-
195
que ascritto alla fatalità che macchine alie-
nate come ferrivecchi da enti di Stato siano
finite, funzionanti, alle Brigate rosse; 2) il
rapporto che era stato attribuito al CESIS si
ritiene sia prodotto dal SISMI. Leggendolo,
permane però l'impressione che provenga
da un organismo di cui il SISMI era parte.
196
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