giovedì 19 dicembre 2024

Arcangelo - Racconti

 

Arcangelo Colombo


RACCONTI DI

VITA


 Milano 2017

                                                                    

 

 

                                   


                                                                                                                                                                        Le storie di nonno Arcangelo

raccontate a Claudia, Francesca e Elena.

Arcangelo ringrazia:

Lucio Picca, papà di Francesca e

Elena Ferrario, per la loro collaborazione.



PENSIERI DI MONTAGNA    

(RIFUGIO PUNTA PENIA mt.3230 GHIACCIAIO DELLA MARMOLADA - 2002.)  

Sarà l’altitudine, (siamo oltre i 3000 metri), sarà stato il sacco a pelo, ma ho dormito poco. Durante la notte mi ha fatto compagnia con il suo rodere un piccolo topo di montagna che girava fra i castelli e le cuccette.

Sono le 4,30 fuori dal sacco a pelo voglio vedere il levar del sole, metto la giacca a vento, gli scarponi e apro la porta del Rifugio. Il freddo mi colpisce il viso, che sembra fatto da migliaia di spilli, naso e orecchie diventano di vetro e pare che a toccarli debbano rompersi. Il cielo è limpido di un colore azzurro pallido, come tutto il ghiaccio che è attorno a noi, all’orizzonte un chiarore arancione incomincia a fatica a colorare le montagne e brandelli di nuvole. Sopra di noi con giri lenti vola un corvo mattiniero, forse anche lui vuole assistere al sorgere del sole.

Mi siedo su un sasso e come fossi a teatro, mi godo lo spettacolo. 

Pare quasi non accada nulla, ma poi pian piano, il Sole quasi stentasse anche Lui a uscire dal sacco a pelo, illumina prima le cime, poi le valli, i boschi e il Rifugio.

I colori soffocati dalla Notte esplodono e magicamente diventano armonia e musica, che inizia in sordina, ma poi pian piano cresce d’intensità con una violenza che mi paralizza e mi fa battere più forte il cuore, è questo un momento fantastico di pura emozione, un momento purtroppo brevissimo. 

Il Sole adesso è alto nel cielo, lo spettacolo è finito, la tristezza e il rimpianto occupano il posto all’emozione di prima. Il mio compagno di arrampicata, seduto accanto a me, dice:

Qui siamo in Paradiso!

Non siamo in Purgatorio, rispondo io.

Per me il Purgatorio sarà una Montagna come questa dove, se saremo ammessi, tutte le mattine e, solo per il tempo di un’alba, vedremo apparire il Signore.                                                                             La  sua presenza per un tempo così breve e il pensiero di dover attendere un altro giorno per vederlo ancora, saranno la nostra pena, la nostra espiazione, ma anche la nostra speranza.

La sofferenza sarà lenita solo dalla speranza che quando verrà il nostro giorno potremo vedere il Signore per tutta l’Eternità.

Perché siamo in Purgatorio? Dice il mio compagno meravigliato.

Non fare caso a quel che dico, rispondo io, è stato un pensiero che si può avere solo qui sulla cima di un ghiacciaio, quando all’alba vediamo apparire il SOLE.

Dico al mio compagno: Prendiamo lo zaino e andiamo, c’è ancora molta strada da fare.

LA PRIMA VOLTA ALLA SCALA

Anno 1947, il teatro alla Scala è stato ricostruito e alla mia famiglia si presenta l’opportunità di assistere gratuitamente a un’opera in un palco.

L’occasione è imperdibile il tempo per prepararsi breve, perché lo spettacolo è fra due sere. Tutta la mia famiglia è in agitazione.

Per chi desidera accedere agli spettacoli scaligeri è di rigore l’abito grigio, la camicia bianca, la cravatta scura. Quest’abito grigio costituirà per tutta la famiglia, un problema di difficile, ma non d’impossibile soluzione. 

Per meglio comprendere quanto avverrà più avanti è importante descrivere la composizione della famiglia: siamo in quattro, io Angelo, ragazzo di 14 anni alto un metro e sessanta, mia sorella Sandra di anni 22 (di mestiere sarta, è importante!) mia mamma Maria e mio papà Carlo, ex granatiere di Sardegna alto un metro e novanta. Esterno alla famiglia, ma sempre presente, il fratello di mio papa. Questo zio mi è antipatico, perché con la scusa che cambia spesso il suo guardaroba, i suoi vestiti ancora nuovi sono riadattati per me. Lo zio elegantone, un po’ “playboy”, era alto anche lui come mio papà. Un ragazzo di quattordici anni normalmente non ha un vestito grigio da cerimonia.

E ALLORA CHE FARE?

Si prospettano le seguenti soluzioni:

Soluzione A: affitto del vestito presso un negozio specializzato; soluzione scartata, sia per il costo, sia per la carenza di taglie.

Soluzione B: prestito di un vestito da parte di un mio coetaneo. Nessun ragazzo abitante le ringhiere di Porta Genova aveva nel suo guardaroba un vestito del genere. Questa carenza era dovuta alla scarsa propensione dei miei compagni verso gli spettacoli scaligeri. Ipotesi abbandonata.

Soluzione C: Rivolgersi allo zio Pino e ricavare da un suo vestito smesso un abito da cerimonia decente. Si sceglie questa soluzione, perché mia sorella, come già detto è una sarta da donna. Il lavoro di alta sartoria ha inizio dai pantaloni, modificare la lunghezza delle gambe è cosa facile basta fare un doppio risvolto di 20 centimetri. Nei pantaloni è universalmente risaputo che fra il cavallo” e la cintura esiste una distanza ben precisa che non si può variare… Si può invece cambiare la larghezza della vita con delle “pince”, che in questo caso sono un po’ vistose ma che fortunatamente saranno coperte dalla giacca.

Sistemando il cavallo dei pantaloni nella sua posizione naturale, la “vita” ossia la cintura con i passanti viene a trovarsi così in alto da essere all’altezza del POMO D’ADAMO permettendo, a stento alla camicia e alla cravatta di fare capolino sopra i passanti della cintura.

La giacca! Il lavoro è più lungo, s’inizia accorciando le maniche con la tecnica del risvolto dei pantaloni. La lunghezza della giacca, per fortuna, resta invariata e servirà a coprire i difetti. Le due tasche laterali dopo le modifiche sono sulle ginocchia, il taschino, quello del fazzolettino, si abbassa in proporzione.

Si deve ora stringere la giacca spostando i bottoni, con questa modifica la giacca diventa un doppio petto super avvolgente e super coprente.

Dopo tutto questo lavoro di alta sartoria il manufatto potrebbe essere classificato:

VESTITO GRIGIO DA CERIMONIA CON GIACCA AMPIA AVVOLGENTE, CON TASCHE SPORTIVE, PANTALONI A VITA ALTA, GAMBA LUNGA A CADUTA MORBIDA.

In casa di ringhiera è difficile conservare un segreto, e così, complice mia mamma, si parla ampiamente sia del nostro prossimo ingresso alla SCALA, che della modifica al “mio” vestito grigio.

Il vestito è sottoposto al giudizio della “ringhiera” con le seguenti sentenze: “Qualche sacrificio va pur fatto, per godere di un palco alla Scala”, dicono i vicini.

Altri abitanti della ringhiera accennano al circo Togni, altri ancora alla Pia Opera Cottolengo: commento finale, nella vita non si può avere tutto, bisogna accontentarsi.

Il giorno dello spettacolo, all’orario stabilito, tutta la famiglia, esce di casa per prendere il tram ed andare alla Scala. I miei familiari mi circondano, quasi fossi un capo di stato con la sua scorta, cercando di farmi passare inosservato.                                                                                                                                                                                                                                  Effettivamente suscitiamo molta curiosità, sia per il mio vestito, sia per le strane manovre dei miei genitori. Come Dio vuole si entra alla Scala, senza difficoltà, c’è il vestito grigio, la camicia bianca, la cravatta scura. Le maschere non sono tenute a giudicare la qualità del mio vestito, ma ad accertarsi che sia grigio.

Tutta la famiglia, nel sospirato palco, assiste orgogliosa e contenta all’opera “GLI AMORI DEL GIOVANE WERTHER”.

Per un ragazzo di quattordici anni che ascolta per la prima volta un’opera del genere è una dura prova, che aggiunta alle altre peripezie, mi provoca un sonno inopportuno. Dopo due ore, il ritorno a casa è a notte alta con poca gente in giro ed io invece della giacca “AVVOLGENTE” indosso una giacca normale che la mamma aveva portato per me.

Il regolamento della Scala stabilisce che per entrare nel teatro si deve indossare il vestito grigio, l’uscita dal teatro è permessa anche con una giacca come quella che aveva portato la mia mamma.

Il giorno successivo a casa mia è un andar e vieni di abitanti della “RINGHIERA”, che avendo partecipato moralmente alla vicenda -Scala-, vogliono essere informati nei minimi dettagli, i vicini di ringhiera hanno molto da chiedere e criticare.

Dopo molti anni sono tornato alla Scala, questa volta con un vestito mio, non di colore grigio, sempre però con la camicia bianca e la cravatta.

LA MIA MAESTRA

La mia maestra si chiamava Margherita un nome che, anche se ero un bambino, mi stupiva e m’incuriosiva mi sembrava bello che una maestra avesse il nome di un fiore, anche noi eravamo dei fiori, delle piccole margherite che lei doveva far crescere.

La mia maestra era alta, con i capelli color argento, aveva vestiti da signora con colli di pizzo su abiti scuri, al collo portava una catenella dorata con appesi un paio di occhiali tipo pince net. Quegli occhiali e quella catenella erano anche usati per inviarci dei messaggi silenziosi che col tempo avremmo imparato a conoscere. I segnali erano: Catenella al collo e occhiali sul naso ben diritti e testa rivolta un po’ all'insù, significava silenzio e massima attenzione. Catenella al collo, occhiali inclinati verso il basso indicavano meraviglia e curiosità. Quando la maestra si toglieva gli occhiali e la catenella e li posava sul tavolo, qualcuno era rimproverato oppure, era entrato il signor Direttore.

A quei tempi noi scolari andavamo a scuola vestiti con un grembiule nero e un grosso fiocco azzurro al collo, poveri e ricchi avevano lo stessa divisa. Oggi non so bene in nome di quale libertà ognuno va a scuola conciato come gli pare, i bimbi benestanti con dei capi firmati, gli altri con dei capi senza firma proporzionati alle loro possibilità, questa differenza suscita invidie e gelosie fra gli alunni e le mamme.

La mattina quando la maestra entrava in classe ci alzavamo in piedi in silenzio con le mani sul banco e solo quando l' insegnante si era seduta e diceva, buon giorno bambini, sedevamo anche noi. Nessuno si sarebbe mai permesso di dire, vagando per la classe, CIAO MARGHERITA! Il rispetto e la buona educazione non sono un attentato alla libertà, dare del tu alla maestra è solo maleducazione e non serve a niente.

La mattinata iniziava con la maestra che girava fra i banchi controllando e aiutando gli alunni che sapeva più deboli, cosi fra scrittura e dettati arrivava l'ora della piccola merenda mattutina. Ognuno posava sul banco la sua merenda, non c'erano merendine, cioccolatini o tortine, ma per lo più panini e qualche frutto di stagione. Facevano eccezione due alunni, due cugini di nome Bolgeri e Bono, figli di pasticceri di via Tortona, che con un po’ di cattiveria mostravano le loro dolcissime merende, senza farle mai assaggiare ai compagni. Erano brutti tempi e pochi potevano permettersi simili dolci.

I B and B qualche volta avevano subito un sequestro proletario delle loro merende da parte dei compagni. A quei tempi si usava portare, non ricordo in quale occasione, dei fiori alla maestra, tutti noi portavamo un fiore o una piantina. I Bolgeri e Bono arrivavano con vistosi mazzi di fiori umiliando gli altri alunni.

La maestra Margherita, non so dire in quale modo, fece sapere ai genitori dei Bolgeri e Bono che i dolci dei loro figli mettevano in difficolta gli alunni con merende più modeste. Anche i loro mazzi di fiori erano sproporzionati per una maestra che preferiva la semplicità e l'uguaglianza nella sua classe.

Oggi le responsabili di classe alla fine dell’anno raccolgono dei quattrini per fare un regalo alla maestra, non sono fiori, a volte sono regali molto costosi. Perché? La pace e la spensieratezza all'improvviso erano finite, l'Italia era entrata in guerra e anche la scuola elementare ne risentiva, le lezioni erano spesso interrotte per esercitazioni antiaeree, il cibo era tesserato e le merende erano sempre più modeste, i fiori, un ricordo. Qualche volta presente il Direttore, cantavamo inni patriottici.

La maestra in quei giorni tristi aveva la catenella al collo e gli occhiali sul naso ben diritti e testa rivolta all'insù, era il suo segnale di grande preoccupazione. Aveva ragione, Milano era bombardata tutti sfollavano, anche noi siamo scappati. Io ho finito le elementari in tre paesi diversi, con tre maestre diverse di cui non ricordo il nome. Chissà cosa sarà accaduto alla mia maestra? Chissà se qualche vecchio alunno come me ricorda ancora la nostra Signora Maestra Margherita?  

COSA HO CERCATO DI FARE DA GRANDE

Da ragazzo ho sempre avuto un grande interesse per tutto quanto era disegno tecnico e congegni meccanici. Mi piaceva andare nell’officina di un mio amico a osservare gli operai che lavoravano. Dopo le medie mi sono iscritto alla Feltrinelli per conseguire il diploma di perito meccanico, un corso di cinque anni, che io ho frequentato regolarmente per due anni. Prima dell'inizio del terzo anno sono stato assunto da una grande industria con la qualifica di disegnatore progettista, per questo interessante lavoro ho abbandonato la scuola. Dopo tre anni dall'assunzione ho ripreso gli studi frequentando la sezione serale. E stata dura lavorare, studiare, avere la morosa, sono stati anni un po' stressanti ma finalmente mi sono diplomato. Evviva, potevo finalmente riposare, stare tranquillo, il lavoro mi piaceva il posto era sicuro.

Dopo anni di lavoro presso quest’azienda do le dimissioni e vado a lavorare in un'altra ditta, allettato da un lavoro interessante e da una buona retribuzione. Grosso errore! Dopo due anni di lavoro, al ritorno dal viaggio di nozze, trovo la ditta in liquidazione, è fallita! Ero uno sposino disoccupato! Negli anni sessanta c'era una grande richiesta di personale, erano gli anni del boom e così nel giro di pochissimo tempo ho trovato un nuovo impiego come disegnatore progettista nell'Ufficio Tecnico Centrale di Milano, in una grande fonderia che aveva stabilimenti in tutto il mondo .

Il mio compito era di progettare, di concerto con i miei colleghi dell'Ufficio Tecnico e con i capi reparto della fonderia, impianti e apparecchiature per la fusione e la lavorazione dei metalli non ferrosi. Dovevamo anche seguire il montaggio, la manutenzione e la sicurezza di quanto progettato e installato. Nei diciassette anni di lavoro presso questa Società e nei quindici anni successivi, che passerò in un'altra azienda, posso vantarmi di non aver mai procurato danni alle persone per aver trascurato l'applicazione delle norme antinfortunistiche. Erano passati diciassette anni dall'assunzione in questa fonderia, un giorno uno dei soci mi proponeva di andare a dirigere un'altra sua azienda. Il mio compito sarà di riorganizzare l'Ufficio Tecnico, stendere i capitolati per le forniture, avere rapporti con i clienti, sia tecnici che amministrativi, seguire i montaggi e la messa in funzione degli impianti presso grandi ditte come: FIAT, PIRELLI, ALFA ROMEO e altre. La nuova ditta mi offriva la dirigenza, buone condizioni economiche e un lavoro molto interessante. Ho accettato con entusiasmo questa nuova e interessante proposta. Salvo mia incapacità, il posto era sicuro. Sono passati quindici anni da quando ho accettato di dirigere quest’ultima azienda, sono stati anni impegnativi di grandi soddisfazioni, ma ero stanco, avevo trascurato la famiglia e mia moglie aveva problemi di salute, desideravo starle vicino. Avevo quaranta anni di servizio e il massimo dei contributi, era arrivato il momento giusto per andare in pensione senza rimpianti. Nei miei quaranta anni di lavoro ho sempre fatto quello che mi piaceva, non mi sono mai annoiato. L'anno dopo la mia andata in pensione ricevo questa comunicazione:

MINISTERO DEL LAVORO: Al Maestro del Lavoro Arcangelo Colombo.

Sono lieto di informarla che il Presidente della Repubblica Le ha conferito la decorazione "Stella al Merito" del Lavoro, in riconoscimento dei suoi distinti meriti di perizia, laboriosità e condotta morale.

Pochi giorni dopo il sindaco di Milano mi scriveva: ho appreso che Lei è stata insignita della Stella al Merito, a seguito di tale importante riconoscimento il Comune di Milano le ha conferito l'Ambrogino. Che cosa dire? Queste "decorazioni" mi hanno fatto piacere.

I RICORDI DEL CUORE

Dopo il bombardamento di Ottobre 1943 la mia famiglia, come tante altre, decide di “sfollare da Milano. Un amico di mio papà ci procura due camere a Gelmetto nella casa del custode di Villa Casati. Questa villa, vicina ad Arcore, sarà acquistata a fine guerra da Berlusconi. L’inverno lo passiamo a Gelmetto, dove io frequento la terza elementare per sei mesi.

Alla fine di questo breve periodo ci trasferiamo a Banchetta, un piccolo paesino sito nell'Appennino ligure abitato da nove famiglie, un paese senza corrente elettrica, senza strada per auto, senza chiesa, il paese di Ronco Scrivia è ad un'ora di cammino.

La nostra casa è su un “cucuzzolo che domina quest’altopiano, il posto è chiamato il Bricco, anche qui non c’è la corrente elettrica, l’acqua si deve prenderla alla fontana pubblica. Mi chiedo spesso con quale criterio i miei genitori abbiano scelto questo luogo molto panoramico ma scomodo.

Gli abitanti di Banchetta sono una sessantina, di cui venti sono ragazzi, questo mi permette di avere molti amici. I miei coetanei all’inizio sono ostili, loro parlano solo il dialetto e io l’italiano, io sono il “milanese“, il “cittadino“ loro i padroni del villaggio.

Io sono un bel bambino biondo educato e gentile, questo mio atteggiamento mi procura la simpatia delle bambine che convincono i maschietti ad accettarmi.

Noi arriviamo a Banchetta ai primi di Marzo ed io ho la gioia di assistere all’avvento della Primavera, allo sciogliersi della neve, allo spuntare dei primi fiori, al fiorire delle piante, tutta la campagna si risveglia dopo un pesante inverno e per me cittadino è uno spettacolo insolito che mi stupisce; a Maggio vedo maturare le ciliegie, le prugne, nei boschi posso raccogliere fragole e mirtilli, sono entusiasta, io la frutta la vedevo solo al mercato.

Con il bel tempo i miei compagni portano le mucche a pascolare sui monti, per amicizia divento anch’io un pastore, è bello essere tutto il giorno nei prati, il lavoro è anche impegnativo bisogna sorvegliare bene il bestiame che non si deve disperdere o andare in zone pericolose.

A mezzogiorno arriva sempre una ragazza che ci porta il pranzo, il più delle volte è una marmitta di pasta asciutta, oppure una pagnotta con del formaggio fatto con il latte delle "nostre mucche".

Anche a Banchetta c’è una scuola!! Una piccola costruzione formata da due stanze che misurano quattro metri per quattro, i servizi igienici sono all’aperto in una casetta di paglia sistemata sul fianco della scuola. L’aula dove si svolge la lezione ha un tavolo che fa da cattedra, tre banchi a due posti e una lavagna, sul muro sopra il tavolo, la foto del Duce. Le lezioni hanno il seguente orario: al mattino lezioni per la prima e seconda classe, al pomeriggio lezioni per terza, quarta e quinta classe, la maestra, una sfollata di Genova, viene quando può.

I nostri giochi sono i soliti di tutti i ragazzi: bocce, figurine (le mie) molto usata è la fionda per dare la caccia a uccellini e piccioni, il gioco più emozionante è rubare la frutta, quando ti "beccano" sono sberle per gli indigeni, al MILANESE usano il riguardo di avvisare la sua mamma ma, con il continuare dei furti anche IL MILANESE recidivo è punito senza pietà.  L’avvenimento più importante dell’anno è la “TREBBIATURA. Tutto il paese è in attesa che da Ronco Scrivia arrivi la trebbiatrice. Il grano seminato e raccolto con grandi fatiche finalmente diventa pane. Finita la trebbia, i contadini fanno una grande festa con ricche vivande e abbondanti bevute, per i ragazzi ci sono golose torte, anche il MILANESE ha la sua parte.

La mia prima Comunione la faccio a Banchetta, o meglio, in una chiesina sul monte Alpe alto 915 metri. Sono l’unico comunicando e questo fatto suscita la curiosità di tutto il paese, gli abitanti entusiasti partecipano all’avvenimento come se la cerimonia riguardasse uno di loro.

Gli abitanti mi accompagnano in Chiesa, assistono alla funzione e all’uscita mi festeggiano, ormai sono anch'io uno di Banchetta. Io e la mia mamma siamo commossi e felici. Tutto il paese partecipa a una grande tavolata con cibi preparati sia da noi che dai contadini, è veramente una bella festa rallegrata anche dal suono di una fisarmonica e da balli. 

A Settembre c’è la stagione dei funghi e noi ragazzi abbiamo la possibilità di raggranellare qualche soldino vendendo il nostro raccolto a dei genovesi che frequentano queste montagne.

Finalmente è arrivato l’Inverno possiamo divertici con sci e slittini costruiti da noi durante l’Estate. Alla sera dopo la cena accanto al fuoco i vecchi raccontano storie fantasiose di fantasmi, di mostri, che abitano le montagne e che qualche volta si materializzano per terrorizzare i valligiani, qualche mio amico (e anch'io) spaventati da questi racconti, finiamo la notte nel letto dei genitori.

Fin qui i ricordi piacevoli, ma poi la guerra dal fronte si sposta nei paesi e anche a Banchetta arrivano i tempi della paura, dei tedeschi, dei partigiani e i ricordi cambiano, non sono più dolci.   

I GIOCATTOLI DI “UNA VOLTA”

I giochi di quando ero bambino, contrariamente a quanto si pensa oggi, erano molti, divertenti ed economici perché frutto della nostra fantasia e della nostra capacità manuale. Non c’erano soldi per acquistare giocattoli, solo a Natale, se eri stato buono, potevi sperare in un regalino.

Quali erano i giocattoli più praticati dai maschi?

La fionda, “el tira sass una forcella di legno con due elastici e una cuffia di pelle, dove mettere il materiale da lanciare.

La cerbottana, “canetta di bussolott un tubo lungo 50 centimetri che soffiandovi dentro lanciava dei piccoli coni di carta “i pedrieu.

I bersagli preferiti erano le ragazze e i gatti.

La “lippa, una specie di baseball, era costituita da un bastone di legno lungo 60 centimetri e da un doppio cono anch’esso di legno lungo 15 centimetri.

Questi due pezzi di legno erano recuperati tagliando il manico a una scopa lasciata incautamente incustodita da qualche massaia.

L’arco con le frecce di solito era costruito con vecchie bacchette di ombrello, era un arnese pericoloso soggetto a sequestro da parte dei genitori.

I ragazzi più grandi e più abili con delle assicelle e dei cuscinetti a sfere di recupero costruivano dei carrelli, dove sedersi per lanciarsi in una discesa.

Oggi potremmo chiamarli -skateboard -.

Fra tutti questi giochi il mio preferito era quello dei soldatini, avevo soldatini di piombo, di gesso, di cartone, rappresentanti le diverse armi, c’erano bersaglieri, alpini, aviatori, carabinieri, marinai tutti con le proprie armi, alcuni sdraiati nella posizione di sparo, altri, i capitani con le spade sguainate, incitavano i soldati all’attacco, c’era poi il fante colpito dal nemico con le braccia aperte nel momento di cadere a terra. Avevo soldatini di colore, ascari, somali, etiopi, a quei tempi l’Italia aveva l’Impero, i soldati di colore facevano parte del nostro esercito.

Per accrescere il numero di soldati del mio esercito compravo in cartoleria dei fogli dove, a colori, erano rappresentati dei soldati, ritagliavo questi militari li incollavo su un foglio di compensato e lavorando di “traforo” costruivo dei nuovi guerrieri da aggiungere agli esistenti.

Un esercito che si rispetti deve avere una caserma o un forte dove riunirsi o combattere in caso di attacco. Su un foglio di compensato con la collaborazione dei miei compagni disegnavamo un fortino con mura merlate, torrette che proteggevano la porta d’ingresso dotata di ponte levatoio. Al centro del forte una torre con bandiera italiana dominava la costruzione. Tutta quest’opera militare era frutto di un lungo lavoro manuale di “traforo“ per ritagliare dalle lastre di compensato i singoli pezzi, che poi erano assemblati e colorati.

Dopo tanto lavoro era arrivato il momento di schierare le truppe e iniziare la battaglia, si davano i comandi, s’imitavano gli spari, i colpi di cannone le urla di vittoria dei combattenti, qualcuno dei partecipanti vinceva altri perdevano questa incruenta battaglia, ma alla fine eravamo contenti di aver giocato tutti assieme allegramente.

I ragazzi oggi hanno fra le mani una scatoletta nera con diversi tasti da premere, su un piccolo schermo appaiono immagini di battaglie con scene cruente di morti e di distruzione, con la loro tastiera partecipano quasi passivamente a queste rappresentazioni.

Il gioco dura pochi minuti si può ripeterlo sempre uguale sino alla noia in completa solitudine. 

IN BICI ALL’IDROSCALO

Nonno, ho visto la foto del ciclista, niente di speciale, ma forse a te ricorda la tua gioventù.

La foto mi ricorda i miei sedici anni la mia giovinezza gli anni dell’amicizia disinteressata, degli entusiasmi rivoluzionari, delle idee che avrebbero cambiato il mondo, ma che era difficile far capire, la lotta con la famiglia per avere una maggiore indipendenza e poi la scoperta delle ragazze con le prime simpatie, i primi amori.

Nonno, parliamo della foto e della bici?

La foto ritrae un ragazzo in posa appoggiato alla sua bella bici che NON indossa un paio di calzoncini corti firmati o una maglietta sgargiante, come fai tu quando vai in bicicletta con i tuoi amici, ma una camicia e un particolare tipo di calzoni detti alla zuava o in dialetto alla SBROFF.

La bici è DA CORSA con manubrio ricurvo, sellino stretto, pedali con cinturino di aggancio, telaio leggero, gomme ultra leggere tipo PALMER, ripiegato e fissato sotto la sella  per eventuali forature, un PALMER  di scorta. Quando ero ragazzo avere una bici di quel tipo era molto difficile, pochi potevano economicamente permettersela.

Tu che bicicletta avevi?

In casa mia c’era una sola bicicletta, una Legnano pesante con ruote a copertoni e camera d’aria, niente cinturini sui pedali, niente sella stretta, era una bici normale. Mio papà, qualunque fossero le condizioni atmosferiche, usava la bicicletta per andare al lavoro. Quando la sera ritornava a casa, prendeva la SPICCIOLA in spalla e la portava su in casa al terzo piano.

Perché fare tanta fatica?  Tu quando potevi usare la bici?

La bici in casa era al sicuro dai furti che erano frequenti per questo mezzo di trasporto, io usavo la bicicletta o la sera o la domenica. Quando nei giorni festivi avevo la SPICCIOLA, con i miei amici e amiche facevamo delle gite a Monza o all’Idroscalo.

Se qualche ragazza della compagnia non aveva la bici o non sapeva usarla, uno di noi si sacrificava caricandola sulla canna, era faticoso, ma anche intrigante.

La nonna aveva la bicicletta?

Tua nonna non aveva la bici.

Avevo da poco conosciuto tua nonna e le avevo proposto di vederci la domenica a Monforte dove abitava, per andare a passare un pomeriggio all’Idroscalo; all’ora stabilita mi sono presentato con la mia bici all’appuntamento, dove tua nonna tutta elegante mi aspettava, poco convinta dal mezzo di trasporto, senza dire nulla si è seduta sulla canna della bici e chiacchierando allegramente siamo arrivati all’Idroscalo, dove abbiamo passato un piacevole pomeriggio. Di ritorno dall’Idroscalo, sempre con tua nonna in canna, nei pressi dell’Ortica ho forato e per poco non siamo finiti nel fosso.

La nonna, che era persona precisa e assennata, cosa ti ha detto?

Forse la prossima volta sarà meglio prendere il tram. Nei quarantacinque anni  passati assieme tua nonna mi ha dato spesso dei buoni consigli.

Nonno ma come hai fatto a ritornare a Porta Genova con la gomma a terra?

Dopo aver lasciato tua nonna a Monforte, mi sono trascinato la bici per ben otto chilometri sino a casa, una sfaticata.

Sei mai caduto dalla bicicletta?

Sì, una sera d’estate io e altri dodici amici mentre pedalavamo in fila indiana lungo il Naviglio siamo tutti caduti rovinosamente, ci sono stati molti ragazzi feriti più di uno è finito al pronto soccorso, io ero solo un po’ scorticato, ma la bici era molto danneggiata. Per pagare i danni ho dovuto lavorare per una settimana come facchino in una ditta di traslochi.

E la nonna…?

La nonna si era molto preoccupata per la mia caduta, cosa abbia detto non lo ricordo bene, ma gite in canna con la mia bici non ne abbiamo più fatte.

CINQUANTA ANNI DOPO

Il mio cinema era il Vittoria (detto el Pissa), una sala rionale vicina alla Darsena di Porta Genova, dove si pagava poco e si potevano vedere due film dalle ore 14 alle ore 24 senza interruzioni. Le proiezioni erano continue e noi ragazzi, quando c'erano film western, li vedevamo più volte per tutto il pomeriggio. Nelle pause tra i due film consumavamo la merenda portata da casa e andavamo al bagno. Non si poteva perdere tempo. Il cinema Vittoria era detto el Pissa perché per non perdere le scene più emozionanti i ragazzi, invece di andare in bagno a fare la pipì, la facevano sul pavimento sotto le poltrone. Noi ragazzi entusiasti e concentrati al massimo vedevamo apparire sullo schermo i nostri eroi: Indiani con i loro cavalli selvaggi attaccavano e bruciavano le fattorie dei coloni, difese da soldati e da cowboy. I territori dove avvenivano queste battaglie erano, l'Arizona, con il Gran Canyon e il fiume Colorado, navigato da Indiani e cercatori d'oro, la Monument Valley, in Utah, dove nel film Ombre Rosse il cowboy John Wayne ci faceva assistere a uno spettacolare inseguimento tra un gruppo d’indiani e i cowboy della diligenza, la Death Valley, in California abitata dai cercatori d'oro e dai minatori, Yosemite Valley nella Sierra Nevada con gli orsi, gli indiani e le magnifiche cascate, e poi altre terre selvagge.

Quando sullo schermo appariva qualche scena emozionante noi ragazzi, ci alzavamo in piedi per incitare i nostri eroi. Uscendo dal cinema avevo pensato spesso che mi sarebbe piaciuto diventare un cowboy e andare in America. Per quei tempi era più di un sogno, era come se i ragazzi del giorno d'oggi sognassero di andare su Marte.

CINQUANTA ANNI DOPO

Io e i miei compagni dopo una discesa di 1300 metri facciamo il bagno nel Colorado in fondo al Gran Canyon! 

Che emozione! Finalmente siamo volati in America!

Chi l'avrebbe mai detto?

La nostra squadra è attrezzata con tende e fornelli, abbiamo deciso di passare la notte in questo fantastico posto, accendiamo un fuoco e parliamo della nostra "impresa". Il cinema el Pissa è presente, i ricordi ci fanno compagnia, siamo euforici ma anche un po’ malinconici, (non abbiamo dormito avevamo paura di essere attaccati dagli indiani?!). Gli unici indiani incontrati sono quelli che gestiscono i negozi di souvenir sulla terrazza di South Rim, punto di partenza per la discesa al Colorado. (Il fiume è lungo 2300 chilometri). 

Al mattino smontiamo le tende e risaliamo il Gran Canyon, dall'alto questa enorme opera di erosione lunga 450 chilometri ci appare in tutta la sua vastità. Abbandoniamo il Gran Canyon e con il nostro pulmino ci dirigiamo verso Monument Valley nello stato dell’UTAH, Nazione dei Navajo.

Non dobbiamo lottare contro gli indiani, anzi un indiano navajo ci guida in questa immensa pianura cosparsa da imponenti guglie rossastre dalle forme più strane. Per noi appassionati di western si rinnova il ricordo del film Ombre Rosse interpretato da John Wayne, diretto da John Ford. E’ un posto fantastico siamo emozionati. Questa sera dormiamo in un Resort e per rinnovare i nostri ricordi andiamo al Saloon. Nel locale che visitiamo, non c'è il pianista, ma un jukebox, due cowboy che suonano la chitarra elettrica, birra e caffè in abbondanza, niente ballerine, niente sceriffo, no sparatorie. Si va a dormire un po’ delusi. Domani partiremo, la strada è ancora lunga dobbiamo completare il giro dei parchi: Yosemite Park, Sequoia Park, Death Valley, Bryce Canyon, Las Vegas per poi terminare il nostro viaggio a San Francisco dove ricorderemo Clark Gable nel film "L'incendio di San Francisco". E’ prevista una visita al carcere di San Quentin, ora museo, dove fu girato un film con Burt Lancaster autore di una spettacolare evasione. Il viaggio tanto immaginato è finito. Il bambino che voleva fare il cow boy è contento? Ha realizzato il suo sogno? La risposta è sì, perché i luoghi visti sono fantastici, unici al mondo e calpestarli accompagnati dai ricordi di un bambino che sognava queste terre nel cinema di periferia el Pissa è stato veramente un avvenimento emozionante.           

ACHTUNG… ACHTUNG…

Achtung… Achtung… American Luftwagen, questo è nel 1944 il segnale d’allarme aereo annunciato in tedesco, poi ripetuto in italiano.

Io, la mia mamma, mia sorella e mio papà siamo sul treno diretto a Milano fermi in una piccola stazione nei pressi di Tortona.

Sentito l’allarme, scendiamo rapidamente dal treno, abbiamo solo degli zaini, niente valigie, così liberi corriamo velocemente verso un rifugio antiaereo scavato nel terreno vicino alla stazione. Come noi tutti i passeggeri si precipitano fuori dai vagoni spaventati trascinando i bagagli e urlando, si cercano l’un l’altro, per non perdersi. La paura è giustificata, da molti mesi l’aviazione americana distrugge i treni considerandoli obiettivi militari.

Non siamo ancora arrivati al rifugio antiaereo, quando due caccia americani volando a bassissima quota sorvolano il treno e senza sparare si allontanano, ma poi virando di 180 gradi ripassano sul treno mitragliandolo per tutta la sua lunghezza.

Le persone rimaste sul treno si buttano giù nella scarpata, nel fosso, gridando atterrite e doloranti. Sembra la scena di un film invece è realtà giornaliera di questa guerra. L’attacco non è finito gli aerei ritornano per una seconda mitragliata, poi finalmente si allontanano. Missione compiuta, hanno colpito delle persone inermi, niente obiettivi militari.

Noi fortunatamente, salvo qualche graffio su mani e gambe, siamo incolumi.

Allontanatisi gli aerei, arrivano le ambulanze, i soldati, i carabinieri che consigliano di allontanarsi. Zaini in spalla ci avviamo verso il prossimo paese, lungo la strada apprendiamo che il traffico ferroviario è sospeso per almeno due giorni.

I “LIBERATORI hanno bombardato le stazioni lungo la linea per Milano.

La nuova prospettiva è di andare con mezzi di fortuna a Voghera e poi in qualche modo a Pavia e Milano.

Percorsi un po’ di chilometri, cercando sempre di poter trovare un passaggio, a un incrocio incontriamo un giovanissimo soldato tedesco con il mitra in mano che sta ordinando al proprietario di un camion di caricare lui e anche altre persone.

La mia mamma, con il coraggio della disperazione, chiede al tedesco (più avanti si saprà che tedesco non è) se è possibile avere un passaggio.

Il tedesco forse ricordandosi della sua mamma e vedendo mia sorella, che era una bella ragazza, intima al conducente del camion di caricarci. Non sappiamo bene dove stiamo andando, ma la direzione è verso nord.

Il soldato ormai padrone del mezzo di trasporto, obbliga il conducente a fermarsi per caricare e scaricare le persone lungo la strada. Arrivati vicino a una vigna, ci fermiamo, il soldato sempre con il mitra a tracolla entra nei filari e sotto gli occhi del contadino fa un’abbondante raccolta di uva e di fichi, prima di salire sull’autocarro ringrazia il contadino che non è molto contento dell’accaduto.

Il bottino di guerra è equamente divorato dai passeggeri del mezzo.

Durante la continuazione del viaggio, il tedesco racconta di essere un russo ucraino obbligato dai tedeschi a far parte di un corpo ausiliario militare. Più tardi il russo racconterà che stava andando a consegnarsi ai partigiani operanti nel pavese.

Il camion sorpassa Voghera si avvicina al Po e a sei chilometri da Mezzana Bigli l‘ucraino russo ferma il camion, scarica tutti e scompare.

L’autista, anche se un po’ prevenuto verso di noi, dopo aver ricevuto una buona mancia da mio papà, ci consiglia di andare avanti ancora cinque o sei chilometri e cercare l’Osteria del Ponte dove è possibile avere rifugio e ristoro.

Con il buio arriviamo all’osteria dove, finalmente possiamo mangiare e avere, se pur a carissimo prezzo un letto per dormire.

L’osteria è vicina al Ponte della Becca, questo ponte che attraversa il Po, è soggetto a continui attacchi dall’aviazione americana che non riesce a distruggerlo.

L’attraversamento è consentito solo ai pedoni che passano su un corridoio di tavole di legno larghe due metri, senza parapetto Sotto di loro a quaranta metri scorre il PO. Consigliati dall’oste ladrone, il mattino alle cinque, zaino in spalla, la famiglia Colombo attraversa il ponte, mia sorella che soffre di vertigini non vuole passare piange e solo dopo un intervento di mio papà e la paura che arrivino degli aerei decide di proseguire. Percorsi un po’ di chilometri arriviamo a un gruppo di cascine, dove la nostra giornata inizia subito violenta e movimentata.

Un caccia americano spuntato improvvisamente vede su una strada di campagna, laterale alla nostra, un carretto trainato da un cavallo e con grande sprezzo del pericolo, si abbassa a mitragliarlo si allontana e ritorna per una seconda passata, fortunatamente il conducente si è buttato nel fosso.

Arrivati a una cascina, troviamo il camion che porta il latte a Milano, montiamo sul mezzo e dopo un viaggio, con sempre la paura degli aerei, arriviamo a Milano a Porta Ticinese vicino alla via Tortona, dove abitiamo.

Percorrendo la via Tortona da un bar esce un miliziano fascista della Ettore Muti, si avvicina a mio papà e gli chiede i documenti, da un’occhiata ai nostri zaini e rivolgendosi ad un suo compagno seduto all’esterno del bar dice: Sono dei sovversivi fuggiti da un campo di concentramento, dobbiamo arrestarli.

La mia mamma e mia sorella si mettono a piangere, mio papà cerca di spiegare, poi persa la pazienza prende il fascista per un braccio e mentre lo spinge all’interno del bar gli dice in milanese: Ma lù o l’è matt o l’è ciocch.

Il fascista, che era ubriaco, mette la mano sul pugnale, il padrone del bar, che assiste alla scena, interviene e dice rivolto al miliziano: Pepin gh’e nè minga de sovversivi. Chell lì l’è el Colombo mobiliee de via Tortona !!!!!! Lassa perd !!!

Dopo quest’ulteriore emozione siamo finalmente a CASA!

Entrate in casa, la mia mamma e mia sorella iniziano a riordinare la casa che era stata chiusa per più di un mese. Mio papà prima di venire in vacanza aveva tenuto in casa un cagnolino che gli avevano regalato, questo cane fortunatamente restituito al prodigo donatore, oltre ad aver mangiucchiato ciabatte, coperte e stracci vari aveva infestato la casa di pulci affamate in attesa di un pasto.

Per qualche ora la mia mamma e mia sorella procedono a una disinfestazione con largo uso di candeggina, ammoniaca e detergenti vari. Alla fine il problema pulci è risolto. Riprendiamo la nostra vita normale contenti di essere ancora tutti sani e salvi, rispetto alle avventurose giornate di viaggio le pulci, ormai speriamo debellate, sono un simpatico ultimo incidente.

Dimenticavo durante la notte ci sono stati due allarmi aerei che noi non abbiamo sentito.

OTTO SETTEMBRE 1943

Quel giorno sul far della sera, io, la mia mamma e mio papà eravamo a Isola Buona, un paesino vicino a Ronco Scrivia ai piedi dell'Appennino Ligure dove abitavano i miei zii sfollati da Genova.

Nella casa degli zii era accesa la radio e, mentre noi stavamo per tornare al nostro paesello su in montagna, improvvisa la musica si arresta e dopo un breve silenzio il Gen. Badoglio annuncia:

Il Governo Italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la soverchiante potenza degli avversari e, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al gen. Eisenhower, comandante delle forze armate angloamericane.

La richiesta è stata accolta.

Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro gli angloamericani deve cessare da parte delle forze italiane. Esse però reagiranno a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.       

Quest’ultima frase era riferita ai tedeschi, che impareremo presto a conoscere non più come alleati, ma come occupanti. 

Io ero un bambino ma ancora ricordo l’atmosfera che si era creata dopo l'annuncio. Fra i presenti c'era incredulità, stupore, paura che questo armistizio fosse peggio della guerra, che tutto continuasse come prima e magari peggio di prima. Non sapevamo più chi era il nemico, non sapevamo più da chi difenderci.

Io e i mie genitori, passato il primo momento di disorientamento, prendemmo i nostri zaini con le provviste e ci incamminammo a passo veloce verso il nostro paesello di Banchetta dove abitavamo.

Il tragitto era di circa un’ora su una strada in salita in mezzo ai boschi. Mentre camminavamo velocemente, guardandoci attorno, incontrammo all'improvviso gruppi di soldati disarmati, che smessa la divisa, abbandonate le vicine caserme, cercavano di tornare a casa.  Signori, dicevano, la guerra è finita vogliamo tornare a casa, ma abbiamo bisogno di abiti borghesi, se restiamo in divisa, fascisti e tedeschi, ci catturano e ci imprigionano. Vi preghiamo aiutateci! Soldi purtroppo non ne abbiamo, dateci un qualsiasi capo di vestiario . 

Questa fiumana di Sbandati (furono cosi definiti dai fascisti) passò per tutta la notte e nessuno di loro ci minacciò per avere dei vestiti o soldi, era brava gente stanca della guerra, abbandonata dai propri comandanti che erano fuggiti prima di loro.  

Alle 5 del mattino del 9 settembre passò un gruppetto di Sbandati che disse a tutti noi di aver minato la polveriera di Tana D'Orso, sita in una valle lontana dai paesi, la polveriera abbandonata sarebbe esplosa fra qualche ora prima dell'arrivo dei tedeschi. Come annunciato alle 7 del mattino iniziarono le esplosioni, nella valle ci fu molta paura, ma né case né persone ebbero dei danni, le esplosioni durarono per molti giorni. 

Il giorno 11 settembre, come avevano temuto gli abitanti dei paesi vicini alla polveriera, arrivarono squadre miste di fascisti e tedeschi. 

Gli Sbandati erano tutti spariti, ognuno aveva trovato la sua strada.  

Gli abitanti interrogati dissero che nei giorni precedenti erano si passate molte persone che loro non conoscevano, ma che al momento nel paese non c'erano estranei. 

Fascisti e tedeschi dopo aver minacciato di bruciare il paese se i contadini avessero dato asilo ai fuori legge, andarono verso la polveriera che continuava a esplodere.

La guerra che noi speravamo fosse finita, diventò ancor più tragica. Ora avevamo tre nemici da temere: i fascisti della repubblica di Salò in lotta con i fratelli partigiani; i tedeschi incattiviti dal nostro tradimento ed anche gli angloamericani che venivano a liberarci, ma intanto nonostante l'armistizio ci bombardavano  tutti i giorni con i loro aerei di nome Liberator .

IL VIAGGIO NEL SAHARA

Il 27 dicembre 2002 io e miei cinque compagni siamo a Linate per imbarcarci su un aereo della British Airways con destinazione Roma, dove un volo della Libian Airways ci porterà a Tripoli, punto di partenza per il nostro emozionante viaggio nel deserto del Sahara libico a bordo di quattro fuori strada.

Siamo emozionati: queste terre che abbiamo visto solo al cinema, ora possiamo visitarle, le emozioni iniziano subito; l’aereo della British con destinazione Roma si avvia sulla pista di decollo e ottenuto il via dalla torre, accelera, ma quando sta per staccarsi dal suolo, una spia rossa si accende sul cruscotto di controllo obbligando il pilota a un brusco arresto, i passeggeri non gradiscono quanto accaduto, qualcuno rinuncia al volo.

Dopo due ore si riparte, a Roma un aereo della Libian Airways ci sbarca felicemente a Tripoli, dove al ritiro bagagli ci attende un’altra sorpresa, mancano due valige. Prima del giro nel deserto dobbiamo stare un giorno a Tripoli, speriamo nel recupero delle valige. Tripoli è la classica città di mare con grandi viali con le palme, i giardini ben curati e strade pulite; molte case ricordano la dominazione coloniale dell’Italia. Centinaia di ritratti di Gheddafi di enormi dimensioni sono esposti ovunque, nell’albergo i ritratti sono in ogni camera, e se non ricordo male anche nei bagni. Il grattacielo di trenta piani nel centro di Tripoli ha un lato coperto da un sorridente Gheddafi in alta uniforme. Molto suggestiva è la visita della Medina con le sue viuzze ed il Suk dove si commercia di tutto, specialmente oro, qui non ci sono ritratti di Gheddafi.

Il giorno 28 partiamo per Sabrata, città a 70 chilometri da Tripoli, famosa per le sue rovine, che i libici hanno conservato molto bene. Negli anni 1930 gli archeologi italiani hanno fatto un grande lavoro di ricostruzione rispettato dai libici. La citta di origine fenicia è stata successivamente porto romano potenziato dall'IMPERATORE Settimio Severo di origine libica. La costruzione più imponente è il Teatro Romano con le sue 110 colonne e gli spalti che possono accogliere diecimila spettatori. Girare fra queste rovine è molto emozionante sembra di rivivere quei tempi. Sabrata è Patrimonio dell’Umanità, la visita di questa città vale un viaggio. Finita la visita, prendiamo un volo per Sebha città a mille chilometri da Tripoli, dove ci attendono i nostri fuori strada per condurci a Germa al confine con l’Algeria dove inizieremo il sospirato viaggio nel deserto. A Sebha siamo alloggiati in uno strano albergo arredato all’araba, sembra la reggia di Ali Babà, peccato che fra tanti lussi non esista la possibilità di fare una doccia, dai rubinetti dorati non esce una goccia d'acqua. Il giorno ventinove partiamo con i fuori strada guidati da dei giovani tuareg, addentrandoci attraverso un mare di dune nel deserto dell’erg di Ubari. Dopo un centinaio di chilometri scopriamo una serie di laghi circondati da una ricca vegetazione e da palmeti, un tempo, l’oasi era abitata dal popolo Dadua. Proseguendo la nostra corsa incontriamo altri due laghi l’Oum-el-Ma e il Gabr’aoun, quest’ultimo nascosto da una grande duna che ci appare all’improvviso e ci stupisce per le sue sponde contornate da canneti e palme. Le acque di questi laghi non sono potabili perché ricche di sali, unica forma di vita una specie di gamberetti che tritati e miscelati con i datteri costituivano un tempo l'alimento del popolo Adua.

I nostri pranzi sono sempre all’aperto in  compagnia dei tuareg vestiti con camicione, turbante e sciarpa che copre naso e bocca, coprirsi naso e bocca non è un vezzo, ma la necessità di recuperare il vapore acqueo della respirazione per tenere umide le narici. Questa sera pernotteremo ancora a Germa.

Giorno trenta, al mattino presto, attraverso una pista sassosa e polverosa, ci avviamo verso il campo tendato fisso Dar Auis nel comprensorio dell’Acacus.

L’Acacus è un labirinto di pietra con fiumi fossili trasformati in piste intricate dove le montagne, talvolta molto alte, sono state modellate dal vento e dalla sabbia. Sulle pareti di queste rocce vi sono molte incisioni e molti graffiti. La giornata è molto faticosa, fa caldo e soffia un forte vento che ci obbliga a tornare al campo chiusi nei fuori strada. Non è possibile stare all'aperto. 

Il campo è situato in una conca su un promontorio circondato da delle alture, è in una posizione fantastica si può vedere il deserto per molti chilometri. Le tende o meglio le piccole casette di legno, sono una trentina, ognuna con una veranda all’interno due letti e un armadio. I servizi sono lontani e sono a cielo aperto, ogni casetta ha il suo servizio che eroga 45 litri di acqua al giorno, quando ci si lava si deve recuperare l’acqua perché serve per la pulizia del water. Al centro del campo un tendone ospita il ristorante. La notte nel deserto è molto fredda si hanno escursioni di temperatura anche di 15 - 20 gradi.

Giorno 31 dicembre, la giornata è dedicata all’esplorazione dei siti Matendushe e Al Awaynat, qui troviamo i più importanti graffiti, le più belle pitture rupestri di tutta l’Africa, artisti preistorici hanno lasciato su quelle rocce incisioni e pitture rupestri che descrivono la loro vita in questa terra abitata un tempo da coccodrilli, elefanti, giraffe, animali che diecimila anni fa abitavano queste terre attraversate da fiumi e foreste. I graffiti rappresentano anche animali fantastici giganteschi come il -Gatto Mammone- incisione alta tre metri, altri graffiti evocano scene di caccia, famosa quella che illustra la cattura di un rinoceronte, ci sono anche scene di guerra, siamo di fronte ad un grandissimo museo all’aperto. Prima di tornare al campo visitiamo un’enorme caverna alta, un centinaio di metri, dove ai tempi viveva un piccolo popolo. Siamo sbalorditi ed entusiasti pensavamo al Sahara come una grande distesa desolata e invece in tutti i nostri giri abbiamo sempre incontrato siti pieni di novità e di bellezze.

Oggi è la fine dell’anno siamo tutti curiosi di vedere cosa i tuareg hanno preparato per noi. I mussulmani non festeggiano questa ricorrenza. In mezzo al campo è stato acceso un grande fuoco e noi siamo seduti attorno, come bevanda abbiamo il the, i dolci sono datteri e ceci, c’è anche la musica, una decina di donne velate percuotono dei bidoni metallici lanciando i loro caratteristici suoni gutturali. Ringraziamo per il pittoresco capodanno e andiamo a dormire, fa freddo ci sono due gradi.

Giorno 1 gennaio, oggi ci attende uno dei giri più interessanti, esploriamo l’erg di Uan Kaza una catena immensa di dune di ogni forma ed altezza dove non esistono rocce ma solo pendii sabbiosi molto ripidi. Con i fuori strada affrontiamo forti salite e discese emozionanti, i tuareg sono molto attenti su questi percorsi, è facile insabbiarsi e rovesciarsi, ci divertiamo a sciare su queste fantastiche dune che sono per la maggior parte tonde, ve ne sono anche a forma di piramide, a mezzaluna, tutte con le cime e i fianchi lavorate dal vento che crea fantastici disegni. Al ritorno al campo assistiamo al tramonto del Sole, è uno spettacolo emozionante, un Sole di fuoco grande affonda velocemente nel mare del deserto,  quasi subito è buio, si torna al campo.

Giorno 2 gennaio, abbandoniamo il bellissimo campo tendato e con un viaggio un po’ accidentato ci dirigiamo alla volta di GHAT citta dei tuareg situata in una posizione strategica per le carovane che attraversavano il deserto. Breve visita dei vecchi quartieri e di un fortino italiano dove i tuareg trucidarono duecento nostri soldati. A fine visita salutiamo i nostri tuareg dei fuori strada e ci imbarchiamo sull’aereo che ci porterà a TRIPOLI.

Siamo tutti tristi, ci piacerebbe stare ancora nel deserto.

Arrivati a Tripoli, tutti a letto siamo molto stanchi.

Giorno tre gennaio, mattinata dedicata alla visita di Leptis Magna un grandioso sito archeologico dell’Africa romana considerato patrimonio mondiale dell’Umanità, visitiamo la vecchia città con il foro, il mercato, le terme di Adriano con un magnifico colonnato, più avanti incontriamo i resti del complesso anfiteatro-circo che poteva contenere circa ventimila persone. Anche queste rovine meritano un viaggio. Alla sera pranzo ”decente” di addio alla Libia. Domani si tornerà in Italia.

A Milano allo sbarco, non troviamo le nostre valige, arriveranno il giorno dopo.

Il tour del deserto è stato un viaggio molto bello, abbiamo viaggiato nella natura e nella storia al di fuori dei soliti circuiti. Volevamo tornare ancora nel deserto ma al momento non ci sono le condizioni di accoglienza e di sicurezza che abbiamo trovato nel 2002 in Libia.

PORCELLINO UNGHERESE PORTAFORTUNA

Signora, dice il cameriere, non tenga in braccio il porcellino lo passi a suo marito. Ingegnere mi raccomando lo tratti con delicatezza il porcellino è piccolino.
NO! NO! Non cosi NOO! Quello... non deve farlo. I dirigenti di una nota industria italiana hanno organizzato un cenone di Capodanno a Budapest in un albergo a cinque stelle.

Il 31 dicembre 2001 sbarchiamo al grande albergo tutti allegri e un po’ eccitati. Il programma propone un elegante Capodanno secondo le usanze ungheresi. Per i partecipanti maschi è obbligatorio lo smoking, per le signore è gradito il "lungo". Sono invitati a questa serata anche importanti dirigenti ungheresi con le loro mogli. Alle 20:30 il Maitre dell'hotel ci accompagna in un grande ed elegante salone dove sono preparati i nostri tavoli, c'è anche un orchestra, che con i suonatori in costume ungherese, allieterà la lunga serata.

S’inizia la cena con un robusto aperitivo per poi passare alle molte prelibatezze della cucina ungherese e internazionale. Fra una portata e l'altra si balla, si chiacchera, si deve arrivare alla mezzanotte per i brindisi e gli auguri. In Ungheria è tradizione che nella notte di capodanno si debba accarezzare un porcellino per avere un felice anno. Per rispettare la tradizione entra nel salone un cameriere con in braccio un piccolo e roseo porcellino, tutti i presenti sono invitati ad accarezzare la simpatica bestiola.

Molti sono incerti, il pensiero di toccare un suino fa da freno, altri lo prendono in braccio (sconsigliati dal Maitre) fra quelli che prendono in braccio il piccolo suino c'è l 'ingegnere che, ignorando le raccomandazioni fattegli, invece di accarezzarlo gli tira ripetutamente il codino. Il porcellino si spaventa grida e scarica... TUTTA LA SUA PAURA sullo smoking dell'ingegnere, che sorpreso porge ad un vicino il piccolo animaletto. Questo signore per salvare il suo smoking, intelligentemente, appoggia sul pavimento il suino che in preda alla paura corre per la sala gridando cercando rifugio sotto i tavoli fra le gambe degli invitati, che divertiti, cercano di scansarlo. Due camerieri entrano nella sala e dopo un piccolo rodeo acchiappano il fuggitivo, ma la gustosa caccia non è finita, uno dei due camerieri uscendo dalla sala scivola sul pavimento e cade, per fortuna il porcellino resta in mano sua. Grande applauso al cameriere e la serata continua con musica e brindisi.

Considerando che il porcellino portafortuna è salvo, che nessuno si è fatto male, e che anche un ingegnere può sbagliare, ci siamo fatti tutti una grande risata.

Non so se accarezzare un porcellino ungherese porti veramente fortuna ma, iniziare l'anno ridendo è di buon augurio.

I MURALES DI CIBIANA DEL CADORE

Cibiana è un piccolo antico paese del Cadore sulla strada che porta all’omonimo Passo. Questo paese era un tempo conosciuto per la produzione artigianale delle scarpe di stoffa e di corda, che le donne del luogo producevano e vendevano nei mercati delle cittadine della Valle del Boite.

Nel 1986 a Cibiana arrivano dei pittori noti, che attratti dalla bellezza e dall’unicità di questo borgo, decidono, riprendendo un’antica usanza del Cadore, di dipingere i muri delle case. Questi murales, che al momento sono una trentina, illustrano la vita e la storia dei cibianesi nei tempi recenti e passati. Le pitture riguardano la vita del paese, gli  armenti, le favole, i boschi, le creature fantastiche che popolano le montagne.

Questa iniziativa ha richiamato molti visitatori e rivitalizzato la vita turistica e culturale di Cibiana, molto interessante è il festival dei murales che si tiene annualmente.

La foto allegata ricorda un fatto storico del marzo 1508, quando le truppe della Serenissima saccheggiarono il paese. Nella foto vediamo una casa cadente con un portico occupato da due soldati, uno con le insegne di Venezia, sullo scudo c’è il leone di S. MARCO, l’altro sdraiato stanco delle sue scorrerie.

Sul ballatoio di legno del primo piano è dipinta una donna magra, scapigliata con le braccia nude il capo chino, lo sguardo spento, gli occhi chiusi e una disperata rassegnazione dipinta sul suo volto grigio. Forte è il contrasto fra l’atteggiamento prepotente dei soldati e quello sottomesso, umile e angosciato della donna. La guerra con i suoi immancabili effetti è ben rappresentata da questi murales che è uno dei più visitati.

LA BORSA (la gaetana)

Una borsa è una borsa, può essere di pelle, di coccodrillo, servire per la spesa, per riporre le racchette da tennis, la maschera da sub e altro.

Tutto regolare niente di speciale, ma una GAETANA, salva vita da rifugio antiaereo, era una borsa speciale.

Oggi se volessimo darle un nome più moderno potremmo chiamarla “kit salvavita“. Durante l’ultima guerra nel periodo in cui la nostra Milano era bombardata, a casa mia, vicino alla porta era sempre pronta la GAETANA.

Appena suonava l’allarme aereo, tutti correvano al rifugio con la preziosa borsa in spalla il cui contenuto, frutto di attenti studi era :   

        una bottiglia d ‘acqua da litri due;

        quattro asciugamani di spugna, l’acqua era per bere, ma anche per bagnare le spugne da premere contro il naso, per proteggerci da eventuali polveri o fughe di gas;

        una bottiglia di “cordiale“, o meglio di grappa, da usare in caso di malore, veri o finti, i malori erano molto frequenti;

        una boccetta di Sali per eventuali svenimenti;

        un vasetto di miele, da usare come super alimento, nel caso restassimo bloccati nel rifugio;

        biscotti e altri articoli mangerecci;

        due candele, un candeliere, una scatola di cerini;

        alcool e relative bende;

        un libro di preghiere imbottito di santini e madonnine.

La cosa più preziosa, era la scatoletta cont l’or de famiglia contenente l’orologio d‘oro di mio nonno, l’anello di fidanzamento di mia zia e quello della mia mamma, la medaglia d’argento di mio papà, catenelle e medagliette varie di battesimi e comunioni.

Il contenuto di questa GAETANA, oggi può far sorridere, ma in quei momenti in cui la vita delle persone era legata ad una bomba lanciata da 2000 - 3000 metri, che poteva cadere sulla nostra casa, oppure su quella vicina, la borsa era l’unico mezzo di prevenzione che noi avevamo potuto approntare. Altro non si poteva fare se non sperare di non dover mai usare il tragico/ridicolo kit di speranza.

GAETANA = nel dialetto milanese, una grande borsa per la spesa.

LA SCABBIA

Le proteste di un gruppo di migranti, sottoposti a cure antiscabbia un po’ sbrigative mi ha fatto ricordare quando, finita la guerra anche i milanesi sono stati curati per la stessa infezione.

Siamo nel 1945 la guerra è finita da pochi mesi, Milano è ancora piena di macerie, c'è sporcizia e polvere ovunque, spesso mancano corrente elettrica e acqua. Le precarie condizioni igieniche personali, i trasporti super affollati, dove le persone sono a stretto contatto fra loro, l'incontro con i reduci colpiti dalla scabbia contratta nei campi di prigionia e nei lager, tutti questi accadimenti scatenano una diffusa epidemia di scabbia a Milano. Le persone colpite sono migliaia.

La malattia è un’infezione della pelle molto fastidiosa ma, non grave, che si diffonde su tutto il corpo e colpisce uomini, donne e bambini.

Il comune di Milano resosi conto di questo pericolo, organizza per la popolazione, con i pochi mezzi a disposizione, una campagna di cura obbligatoria. I milanesi debbono recarsi all'UFFICIO D'IGIENE in via Statuto, dove in uno stanzone in passato usato per le docce sono sottoposti alle cure anti scabbia. In questa grande sala gli uomini e i ragazzi sono allineati nudi uno vicino all'altro, unico "indumento" concesso un asciugamano che serve per coprire gli organi genitali durante la cura. Ha inizio l'operazione "UNTORI".

Due infermieri  trascinano ciascuno un carrello con sopra dei bidoni contenenti una pomata gialla, appiccicosa e puzzolente a base di zolfo e vaselina. Gli UNTORI  sono armati di una grande "PENNELLESSA" (grosso pennello che normalmente si usa per imbiancare grandi superfici), che intingono nei fusti della vaselina e poi spennellano "Fronte e Retro" uomini e ragazzi. Gli asciugamani servono per proteggere gli organi genitali. Ogni persona ha diritto a due PENNELLATE FRONTE E RETRO. Finito il trattamento, ci si riveste e per due giorni niente bagno o doccia, dopo questo periodo si è guariti e ci si può lavare. Anche le donne sono curate in via Statuto in un locale adiacente al nostro. Le donne nude, s’immergono in una vasca contenente un preparato liquido a base zolfo come quello degli uomini, anche per loro è proibita la doccia per due giorni.

In tempi normali questa disinfezione generale sarebbe avvenuta presso gli ospedali cittadini ma, nei primi mesi del 1945 gli ospedali stentavano, per i danni subiti durante la guerra, a curare le malattie più gravi. In situazioni di emergenza si adottano provvedimenti discutibili ma efficaci. La scabbia dopo tanti anni è riapparsa in Italia portata dalle persone che fuggono le guerre, le carestie e le barbarie. Spesso nei centri di accoglienza sono fatte delle disinfezioni simili a quelle da noi subite nel 1945. So che è umano protestare, come abbiamo fatto noi a suo tempo, ma la protesta deve tenere conto che questa eccezionale disinfezione è difficile da programmare per il grande numero di malati che ogni giorno sbarcano sulle nostre coste.            

L'INCIDENTE

L'urto è stato tremendo, la macchina guidata dal Sig. Benito è volata nel fosso adiacente alla Statale dove lo sciagurato automobilista è annegato. Com’è d'uso in questi casi, quando una persona muore, si deve decidere dove inviare il suo corpo e anche la sua anima. 

Al momento i luoghi più frequentati e conosciuti sono i tradizionali: Paradiso, Purgatorio e Inferno; il Limbo non è adatto per Benito, perché si tratta di persona battezzata. 

Per non fare delle scelte partigiane il Benito viene accompagnato in Paradiso. Qui il poveretto ancora molto spaventato per l’accaduto, bussa alla porta di San Pietro. Un Angelo lo fa entrare e lo conduce all’Ufficio Accettazione, dove registrano i morti per incidenti stradali.

Una Santa lo fa accomodare e gli chiede il nome, al sentire -Benito- la Santa si agita molto e poi dice: Il tuo nome non è da Paradiso! La tua accoglienza si fa difficile, come faccio a giustificare un nome del genere?  Signora Santa, risponde Benito, io sono nato nel 1930, sono battezzato e cresimato, a quei tempi il mio nome era importante e molto usato, come lo erano nel 1946  i nomi Joisif, Palmiro, John. 

Va bene, dice la Santa, vediamo un po’ il tuo curriculum vitae: tu sei sposato da venti anni (una rarità di questi tempi), hai due figli e tre nipoti, non ti sei mai drogato, non fumi, non bevi, ti dichiari eterosessuale. 

A questo dire il Benito si ribella e dice alla Santa: ma come posso non essere eterosessuale se ho tre figli?? La Santa si scusa per questa frase, ma aggiunge: di questi tempi si può avere tre figli e non essere etero. L'esame continua e la Santa enumera i meriti di Benito: tu risulti battezzato, comunicato, cresimato, paghi le tasse, 730, Ici prima e seconda casa, addizionale Irpef, insomma sei un bravo cittadino. Risulta anche che tu abbia sempre lavorato seriamente. DISGRAZIATAMENTE NON SEI ISCRITTO AI SINDACATI.

Il Benito cerca di scusarsi, ma poi confessa di non aver mai avuto fiducia di questa organizzazione e di non aver mai preso la tessera.

La reazione della Santa è immediata. Caro Benito, San Pietro non può accogliere chi non è tesserato, questo non per simpatia verso i sindacati, ma perché il SAP (Sindacato Angeli del Paradiso) proclamerebbe, non avendo di questi tempi molto da fare, uno sciopero generale.

San Pietro potrebbe fare un'eccezione se tu fossi di Comunione e Liberazione; la risposta di Benito è negativa e il poveraccio, senza aver il tempo di dire un "pater" si trova di colpo all 'Inferno.

Il Diavolo che riceve Benito è una persona come tutte le altre, indossa una camicia rossa sopra dei comuni jeans, unica civetteria porta al collo un ritratto di Che Guevara. Il Diavolo cerca di mettere Benito a suo agio offrendogli una "canna" e una birra, poi con fare bonario dice: non so se posso accettarti e ti spiego il motivo. Tu non sei iscritto ai sindacati, né a Comunione e Liberazione, non posso sistemarti perché questi gironi sono riservati a loro, l'affollamento in questo periodo supera quello delle carceri italiane. La Santa dei piani alti mi dice che sei felicemente sposato, ma che ti chiami Benito.  

Mi spiace ma non posso accoglierti, da qualche anno abbiamo già un Adolfo che ci procura un sacco di guai, non sarò certo io quello che vi rimetterà assieme.

Il Diavolo spara un bel calcione a Benito mandandolo...?? 

Il Benito alla fine del volo tutto sudato e spaventato si sveglia nel suo letto e dando di gomito alla moglie dice: alla sera debbo mangiare leggero, questa notte  ho fatto un sogno orribile.

LA SOLITUDINE

Vivo la Solitudine. Sono solo non spero più. La vita mi è diventata Insopportabile.

Molte di queste parole nascondono atteggiamenti e situazioni che, con la vera solitudine, non hanno nulla a che fare.

Se per determinate circostanze, vivi in un ambiente molto diverso dal tuo, per educazione, cultura, religione o censo, ti senti sicuramente a disagio, ma non puoi parlare di Solitudine.

Questo tuo disagio è dovuto alla tua incapacità di rapportarti con gli ALTRI, con chi è diverso da te. Tu non cerchi di capire, ti va bene solo il tuo modo di vivere di pensare.

Cercare di comprendere le persone diverse da te, non significa rinnegare tutto quello in cui tu hai creduto e operato ma esplorare altri mondi che ti sono completamente sconosciuti.

Nella nostra vita capita che un giorno ti venga a mancare il tuo compagno o la tua compagna, persona importante, che con te ha condiviso progetti, sogni, speranze proprie di una coppia felice che oltre ad amarsi si è sempre stimata e rispettata.

Questo evento diventa per te un fatto inaccettabile, sei addolorato, sei irato, devi subire qualcosa, che sapevi poteva accadere ma che tu hai sperato di non vivere mai, ti senti solo e sfiduciato.

E’ un momento difficile, ma tu hai i figli, i nipoti, le persone che hanno costituito con la tua compagna il comune progetto di vita e di speranza. Sono i figli che possono non farti cadere in SOLITUDINE, se tu sarai al loro fianco attento e rispettoso del loro modo di vivere, come te vogliono percorrere un proprio cammino di speranza, magari diverso dal tuo.

La SOLITUDINE va combattuta giorno per giorno, al mondo non ci sei solo tu, molte persone spesso con problemi più gravi dei tuoi continuano il loro cammino di speranza senza SENTIRSI SOLI.

SUL TRAM

Sono sul tram in piedi, un ragazzo straniero si alza e mi dice:

Prego si accomodi!

Dice a me? Rispondo io?

Si signore, si accomodi.

E' la prima volta che mi cedono il posto, sono confuso e un po’ irritato, vorrei rispondere: -grazie ma scendo alla prossima-, invece ringrazio e mi siedo.

E' successo!  Ciò che non mi aspettavo è accaduto.

Seduto, medito e mi dico; caro ragazzo doveva succedere. Sei diventato vecchio, nonostante la vita sana e attiva che ti imponi, gli anni si vedono.

La giornata per una persona che cerca di restare sana e di aspetto Giovanile è molto impegnativa.

E' consigliabile non dire mai a una persona anziana che ha un aspetto Giovanile.

Al mattino sveglia alle sette, dormire molto non fa bene, il tempo è poco, c'è da fare la ginnastica, quindici minuti di piegamenti, dieci di ciclette, un po’ di stretcing, qualche posizione YOGA, seguono doccia e barba che vanno fatte con saponi neutri. A fine rasatura si deve massaggiare il viso con creme ANTIAGE, ANTIRIDES, le creme non fanno miracoli, ma l 'importante è crederci.

La colazione è composta di: latte magro e yogurt, tre biscotti di cereali ricchi di fibre privi di grassi idrogenati, non si usa lo zucchero, non si debbono superare le 230 kcal. Per restar in forma il medico consiglia al mattino una camminata a passo veloce di almeno un'ora, il moto fa bene al cuore, alla circolazione, abbassa il colesterolo, previene il diabete, stabilizza il peso e fa vivere a lungo.

Ma questo non basta!

Due volte la settimana c'è un'ora di palestra, dove gli aspiranti sempre giovani fanno esercizi vari restando in piedi, altri con qualche problema fisico fanno la ginnastica seduti, ma non rinunciano.       

Il pranzo deve essere frugale ricco di verdure e cereali, come fagioli, ceci, cavoli neri e... poi solo carne bianca, molto pesce, poco vino; questo menù permette al nostro corpo di combattere i radicali liberi che accelerano l'invecchiamento.

La parola radicali liberi mi fa sempre pensare a Pannella.

Il motto del sempre giovane è: MENS SANA IN CORPORE SANO !!!!

La restante parte della giornata è dedicata alle attività culturali, a tal proposito Milano offre molte possibilità, una fra le molte è l'Università della Terza ETA' AUSER.

Presso l'AUSER di Lambrate si tengono conferenze sui più svariati argomenti e poi visite ai musei e località turistiche e altre interessanti iniziative, di particolare interesse un laboratorio di scrittura: NERO SU BIANCO, dove i partecipanti oltre a scrivere le storie della loro vita, spaziano sui più svariati argomenti rinverdendo il loro scrivere in corretto italiano.

Finalmente viene la sera e la cena del nostro sempre giovane è ancora più frugale del pranzo, la giornata è stata dura ma, finalmente può sdraiarsi sulla poltrona convinto di aver fatto tutto il possibile per evitare che il giorno dopo qualche ragazzo gentile (per fortuna ne esistono pochi) gli ceda il posto in tram.

PESO NETTO

Sono passati molti anni dal giorno che l’Esercito Italiano decise di occuparsi del sottoscritto, per farne un buon soldato.

Un futuro buon soldato deve essere sano, di buona costituzione, obbediente, pronto a eseguire gli ordini ricevuti senza discutere. Nei tre giorni di prove che si fanno al Distretto, devi compilare un questionario e una delle domande più intelligenti recita: Il cavallo ha cinque zampe. Rispondere comunque SI.

L’aspirante soldato deve essere sano e per verificare questo stato, è obbligatorio per tutti i coscritti di essere completamenti nudi durante la visita sanitaria di controllo.

In un grande salone, non riscaldato (era Novembre) ci sono centinaia di ragazzi nudi come vermi molto imbarazzati durante l’inevitabile e interminabile fila, attenti a non spingere e a non farsi spingere dalle altre reclute che, a piedi nudi attendono il controllo sanitario.

La visita inizia con la pesatura, un carabiniere controlla che il futuro soldato sia COMPLETAMENTE NUDO, per una pesata precisa e senza brogli.

Arrivato il mio turno, il carabiniere dice: Togli la catenina, la legge dice che devi essere pesato NUDO. Tolgo la catenina, la tengo in mano (non sapevo dove posarla) salgo sulla bilancia, lui mi pesa e poi dice: Ora puoi rimetterla.

Nei tre giorni destinati alle prove, si è sottoposti a dei test che hanno lo scopo di capire quali siano le specializzazioni da assegnarti durante il servizio militare.

Al sottoscritto alla fine dei tre giorni sono assegnate le seguenti specializzazioni: Genio trasmissioni, Officina meccanica reparto operativo, Genio trasmissioni radar.     

L’ultimo giorno, con il risultato di questi test mi presento al capitano che deve assegnarmi l’arma definitiva, letto il curriculum il capitano sentenzia:

GENIO PONTIERI!

Perché, dico io?

Risposta: Alto come sei resterai sempre con la testa fuori dall’acqua.

Ero definitivamente un pontiere.

LA TERRA SANTA PAESE DELLE PIETRE

La Palestina è la culla del monoteismo. Cristiani, Ebrei e Mussulmani professano tre religioni diverse riconoscendo un solo Dio, il loro.

Gerusalemme, la città Santa, comune ai tre popoli, sacra alle tre religioni, evidenzia con i suoi luoghi di culto, come questo Dio unico invece di unire, divida profondamente e ferocemente i suoi fedeli.

Le Chiese cristiane, custodite da Cattolici, Cristiani Ortodossi, Copti, Cristiani Maroniti, hanno ricchi interni con pareti di marmo, immagini di santi, e statue che rappresentano Dio. Le chiese e il Santo Sepolcro in particolare, sono gremite di fedeli, ma anche da una grande massa di turisti, talvolta invadenti, irrispettosi, ma tollerati. Le Sinagoghe sono luoghi austeri con pochi simboli, arredate sobriamente, dove l’accesso è molto limitato.

Le moschee, a Gerusalemme, quella di Omar in particolare, sono costruzioni dove l’arredo è costituito soltanto da marmi e tappeti, sono proibite le immagini del mondo animale, l’ingresso è controllato, non sono ammessi comportamenti irrispettosi.

Le tre religioni hanno risvolti anche nella vita di tutti i giorni, i Cristiani osservano il riposo settimanale alla domenica, gli Ebrei il sabato, i Musulmani il venerdì.

Questi tre popoli, spesso influenzati dal “potere temporale” dei loro capi religiosi, dovrebbero ricordare che, sia nella loro storia antica sia nella loro vita attuale hanno un elemento che li accomuna: LE PIETRE, LE PIETRE DI TUTTI.

Mosè sul Monte Sinai riceve da DIO i DIECI COMANDAMENTI che saranno incisi su lastre di pietra.

Gesù nasce a Betlemme in una grotta.

La croce del sacrificio di Gesù era infissa in una roccia sul Golgota, questa roccia è conservata nella chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme.

In Palestina si può visitare la Grotta dell’Angelo (pietre), la Grotta con la tomba di Adamo, la grotta dell’Apparizione.

Il primo apostolo fu Pietro. Gesù disse: Tu Sei Pietro e su questa pietra costruirai la mia Chiesa.

Viaggiando da TEL AVIV sino alla grande Depressione si attraversa una pianura sassosa, dove sono siti gli insediamenti israeliani, grandi edifici costruiti con pietra locale. La bibbia racconta che il coraggioso Davide uccise il gigante Golia con una pietra lanciata dalla sua fionda.

La giustizia ebrea e quella musulmana usavano punire con la lapidazione le adultere, i bestemmiatori, gli esecutori erano gli stessi cittadini.

Quando gli Ebrei al cimitero visitano i loro defunti, non depositano fiori sulle tombe ma pietre, che rappresentano con la loro incorruttibilità l’eternità.

Il Muro del Pianto adorato dagli ebrei è quanto rimane dell’antico Tempio, ed è costituito da grandi blocchi di pietra.

Nella grande moschea di Omar, a Gerusalemme, è custodita e adorata la pietra dalla quale Maometto è asceso al cielo.

I mussulmani osservanti debbono, almeno una volta nella loro vita, fare pellegrinaggio alla Mecca per adorare la Pietra Nera”.

Pietre sono le armi che i palestinesi usano contro i soldati israeliani.

Masnada, Rocca degli Zeloti. Questa piccola comunità religiosa ebraica, di rigidissima osservanza della Legge, attaccata dai romani si difese solamente con le pietre.

Che cosa divide questi tre popoli, queste tre religioni, che hanno in comune oltre alle pietre, anche la Bibbia e persino Gesù Cristo?

Parlando con le singole persone di questi luoghi si ha la sensazione che tutti vorrebbero, fermo restando il loro credo, vivere assieme in pace.

Chi li divide e li incita all’odio e alla guerra? 

Sicuramente la politica, i grandi interessi economici, ma, specialmente il potere temporale esercitato in modo assoluto dai capi delle singole religioni, che usano il loro Dio solo per dividere e non per unire queste popolazioni.  

SPERANZA

Istitut, terz pian

Stanzètta bianca

Odor de Ospedaa,

de medesin, de naranz                  

Duu lett ,duu patanin,                    

do tèstin senza cavèi                     

Faccin smort tutt occ

Brascitt bianc, con taccaa ona canètta

Gott de velen e de speranza,

vann in di vènn                                   

A pe del lètt,

do mamm che piangen                     

che riessen nò a capi                         

e disen: Perchè Signor?                   

Perchè propri a lor?                          

Ma el Signor el tas e dal

Crocefisss misterious....El sorrid  

SPERANZA

Istituto, terzo piano

Una bianca stanzetta.

Odore di Ospedale,

di medicine, di arance.

Due letti, due bambini,

due testine bianche, senza capelli.

due visi pallidi , occhi tristi.

Piccole braccia, con un ago.

Gocce di veleno e di speranza,

vanno nelle vene.

Al capezzale,

due mamme piangono

non vogliono capire

e dicono: Perché Signore?

Perché  proprio a loro?

Ma il Signore tace, e dal

Crocefisso Misterioso... sorride.   

VENTO

Una Nuvola dilaniata dal Vento

dona i suoi brandelli all’Azzurro.

I figli nati dal parto arcano

La inseguono nell’Infinito Liquido,

sperando di ricongiungersi.

ma il Vento della Vita non dà tregua,

e sospinge la Madre lacerata verso il Nulla.

EMOZIONI

Un fiore e il suo colore,

Un battito d’ali nell’aria profumata

Il sorriso di un bimbo

tra le lacrime,

di una paura passata.

La montagna, cattedrale di DIO,

Illuminata.

UN LITRO DI LATTE

La fila, molto lunga iniziava sul viale Toscana, io ero arrivato in ritardo alla Centrale del Latte, un breve allarme aereo mi aveva costretto a rifugiarmi in un ricovero antiaereo in via Vigevano.

La guardia all’entrata della Centrale mi aveva detto, che dopo di me non doveva entrare più nessuno, il latte era esaurito.

Era la metà del dicembre 1944 faceva molto freddo ed io e i miei compagni di ringhiera, tutti imbacuccati, aspettavamo pazientemente in coda all’aperto.

Ognuno aveva il suo contenitore per il latte, il mio era un secchiello di latta da litro con maniglia. La centrale del Latte di Milano, nel 1944, quando era possibile, distribuiva gratuitamente presso la sede vicino al parco Ravizza, ai ragazzi minori di 16 anni, un litro di latte.

Quel litro di latte era prezioso, perché razionato e molto spesso introvabile. Finalmente arriva il mio turno e l’addetto alla distribuzione riempie il mio secchiello, poi con un tampone intriso d’inchiostro mi timbra il polso.

L’accorgimento serviva per impedire, a noi ragazzi, di rimetterci in fila e prelevare un altro litro di latte. Molti anni dopo, ho saputo che questo stratagemma, era usato in India durante le elezioni, per impedire, il doppio voto.

Con il mio prezioso carico, avendo cura di non rovesciarne una goccia, ritorno a casa, sono fortunato, niente allarmi, proseguo sino al ponte di ferro che collega la stazione di Porta Genova alla via Tortona, dove al numero 12, in una casa di ringhiera abitava la mia famiglia.

Ai piedi del ponte un drappello di miliziani repubblichini, della famigerata Ettore Muti, composta da ragazzi giovanissimi, controlla i documenti di chi attraversa il ponte, cercano renitenti alla leva, partigiani, oppositori al regime. Anch’io, come tutte le altre persone mi metto in fila per il controllo, quando è il mio turno, il fascistello, senza guardarmi, dice: Documenti!

Con un po’ di tremarella rispondo che non ho documenti, il repubblichino che si aspettava un adulto, quando vede che sono un bambino mi dice: Ehi, pirletti. Cosa fai? Mi prendi per il culo? Vai via pacialatt (mangialatte) e mi allunga un calcio nel sedere.

L’offesa è grave, ma quel che è peggio il calcio fa cadere il secchiello.                                                                                                                                                                                          Addio latte! Addio torta di compleanno!

A undici anni non si hanno ancora idee precise sulla libertà, sulla politica e altre cose del genere, ma quell’atto di prepotenza e di stupidità mi offende.

A casa alla mia mamma, un po’ spaventata per l’accaduto, ricordo di aver detto, che mi spiaceva non avere l’età per fare il partigiano e così nell’attesa di crescere, restavo un futuro partigiano, senza torta di compleanno.

LE VERRUCHE

La mia compagna di corso NERO SU BIANCO è meravigliata e anche un po’ scettica quando le dico che la prossima settimana il mio piccolo racconto sarà sulle verruche. A dodici anni sulle mani e sulle braccia di mia figlia Laura compaiono delle piccole verruche, niente di speciale le abbiamo avute tutti da bambino, le cure sono le solite: pomate, piccole gocce di acido, latte di fiore di tarassaco (insalata matta) la criobruciatura non esisteva ancora.

Con il passare dei mesi queste verruche si moltiplicano in maniera abnorme e cominciano a preoccupare anche il dottore, che ci consiglia di andare da un dermatologo, meglio se da uno specialista dell'Istituto dei Tumori. Siamo tutti preoccupati, anche perché qualche verruca è apparsa sulla fronte di Laura, all'attaccatura dei capelli. Il dermatologo dice che bisogna bloccare la diffusione di queste verruche e consiglia di irradiare quelle sulle mani e sulle braccia. Per proteggere l'avambraccio dalle radiazioni costruisce un bracciale di piombo da indossare durante le dieci applicazioni necessarie. Se la cura non avrà buon esito si dovrà ripeterla fra un mese. Siamo nel mese di luglio e dopo un ciclo di cure la famiglia un po’ preoccupata per gli scarsi risultati va in vacanza in collina dal nonno Carlo, il mio ottantenne papà. Il nonno Carlo al sentire che sua nipote sarà irradiata per curare le verruche ci rimprovera per non averlo informato dell'accaduto; lui ha una cura sicura, sperimentata sulle sue verruche avute quando era un ragazzo. Noi siamo un po’ scettici ma un po’ per gioco, un po’ per non offendere il nonno accettiamo di sperimentare su Laura la cura miracolosa. Ecco la cura: andare in giardino sotto il pesco, strappare una manciata di foglie e con queste massaggiare tutte le verruche più volte. Terminato il vigoroso massaggio far girare le spalle a Laura in modo che non possa vedere la fossa scavata sotto il pesco dove verranno sepolte le foglie, è importante che Laura non si volti e non veda le foglie interrate.

E poi ?? 

Dopo quaranta giorni quando le foglie saranno marcite, le verruche scompariranno! 

Risultato garantito! 

Siamo tornati a Milano e abbiamo dimenticato questa strana cura. A ottobre mentre cercavamo altri rimedi un bel mattino Laura facendosi la doccia ha visto di colpo sparire tutte le verruche.

Ognuno la pensi come vuole, ma le verruche sono sparite.

Bravo papà !

Esiste una variante a questa cura in caso di recidive: invece delle foglie di pesco si può usare un lumacone per strofinare le verruche. 

NON ABBIAMO SEGNALATO QUESTA CURA AI NOSTRI PRECEDENTI MEDICI CURANTI.

BISCOTTI A LINATE

Io sono seduto nelle poltroncine della sala di attesa dell’aeroporto di Linate.

Accanto a me c’è una ragazza immersa nella lettura dei giornali. Da un po’ osservo stupito e divertito questa giovane, che fingendo di essere presa dalla lettura dei suoi giornali, attinge con calma, un biscotto dopo l’altro dalla mia scatola posata sul tavolino che sta fra le nostre due poltrone.

I BISCOTTI sono, anzi erano, la mia mancata prima colazione.

La mia vicina, ogni tanto, mi lancia delle occhiate strane, quasi di rimprovero, che non capisco, ma che m’incuriosiscono.

Arrivati all’ultimo biscotto, lo prendo e spezzandolo in due ne offro una metà alla ragazza dicendo: Spero che i mie biscotti le siano piaciuti.

La ragazza, mi guarda male, si alza stizzita, prende la sua borsa e allontanandosi mi dice: Lo sa che lei è proprio un bel maleducato!

LA RAGAZZA

Essere una donna sola è un po’ imbarazzante se poi incontri un “furbacchione“ che ti accusa di avergli mangiato i biscotti, l’accaduto ti fa innervosire.

I biscotti erano stati un mio acquisto al DUTY FREE.

Finalmente salgo sull’aereo e occupo il posto vicino al finestrino, tranquilla e rilassata, spengo il cellulare, apro la borsa e prendo i giornali.

Fra i miei quotidiani, meravigliata, trovo il pacchetto di biscotti acquistati al DUTY FREE. Cosa ho mangiato? Cosa fare? Niente. Cosa penso? Penso che quel signore invece di fare lo spiritoso poteva avvertirmi, sarei meno a disagio. Proseguo tranquilla la lettura dei giornali, debbo dire che i biscotti erano di mio gradimento.

 

 

VITA DOMESTICA

Posso assicurare che questo dialogo è una fedele registrazione di quanto avviene in molte famiglie. Protagonisti sono la signora Gina e suo marito Carlo, felicemente sposati da molti anni.

Gina - Carlo oggi sono proprio stanca e nervosa, c'è sempre il problema di cosa            cucinare....

Carlo - Perché ti lamenti tesoro? Cosa è successo?

Gina - Tesoro un corno! Sono stanca di cucinare! Mi sembra di essere una cuoca del Grand Hotel.

Carlo - A me non sembra di essere al Grand Hotel, ma all'osteria delle quattro "F": Fame, Fumo, Freddo e Fastidio.

Gina - Brutto villano quadro! Cosa pretendi? Si sa che il "signorino" era molto coccolato dalla sua mammina (la mia cara suocera !) che pur di tener in casa il suo cocco esaudiva ogni suo capriccio con mangiarini sfiziosi. Pancia mia fatti capanna! Roba da suocere!                              

Carlo - Verità, verità!! Ricordati che la mia mammetta ogni mattina mi portava il caffè a letto assieme alle previsioni del tempo.

Gina - Roba da Medio Evo! E' così che le suocere rovinano i futuri mariti e mettono in difficoltà le nuore.

Carlo - Per piacere Gina lascia stare quella santa donna della mia mamma.

Gina - Santa si, santa no, oggi siamo in democrazia e la critica "costruttiva" è permessa, e poi tu hai sempre da criticare i miei Menu.

Carlo - Io critico con ragione i tuoi Menu. Fai delle pietanze che andrebbero bene come primo pasto per una persona che ha fatto il trapianto di fegato.

Gina - Ha parlato il Sig. Veronelli! Oltre a lamentarti fai anche lo spiritoso. Io passo tutto il giorno a fare la spesa, a cucinare e come ringraziamento sono diventata la cuoca dei malati, insomma una cuoca dell’ASL.

Carlo - Ginetta, non ti arrabbiare, ma ogni tanto, lasciatelo dire fai della "brodaglia".

Gina - Brodaglia si, brodaglia no, da domani se vorrai mangiare dovrai assumermi, tu diventi il mio datore di lavoro e io la tua dipendente stipendiata.

Carlo - Attenta che i dipendenti si possono licenziare .

Gina - Senti Bamba, guarda che io conosco i miei diritti! Otto ore al giorno, ferie, tredicesima, premio di produzione e mensa e poi "sono vietate le molestie sessuali". Quindi come dipendente ti costo molto di più. Eventuali tenerezze, se gradite, saranno da concordare di volta in volta.

Carlo - Ha parlato Cleopatra l'Insaziabile con il "mal di testa" undici mesi l’anno.

Gina - Perché undici mesi l’anno?

Carlo -Perché un mese l’anno è giusto che una persona non ne abbia voglia. 

Gina - Senti amatore del sabato sera, nella tua nuova veste di datore lavoro ordina il nuovo Menu.

Carlo - Allora... a pranzo vorrei ravioli al sugo e ossi buchi, per cena minestrone di verdura e piatto freddo di salumi, il dessert...

Gina - Frena, frena Carletto. Il Menu non è possibile!

Carlo - Perché?

Gina - C'è un problema di "SINERGIE".

Carlo – Cos’è quella roba lì?

Gina - Ignorante! La casa oggi, caro il mio cavernicolo, va gestita come un’Azienda. Adesso ti spiego: io ieri ho fatto bollire del bianco costato, quindi a mezzogiorno c'è brodo e carne lessa. Questa sera "recupero integrale degli avanzi" che vuol dire risotto e polpette. Hai capito?

Carlo - Va bene... se bisogna fare ... sinergia. Domani però facciamo gli gnocchi?

Gina - Non è possibile.

Carlo - Perché non è possibile?

Gina - Domani c'è l'offerta di surgelati Findus e di pizza Catari. A mezzogiorno sofficini e la sera una bella pizza.

Carlo - Pizza alla napoletana?

Gina - No l'offerta è per la pizza margherita.

Carlo - Pazienza, ormai siamo un'azienda. Domenica, però andiamo a mangiare al ristorante.

Gina - Ohi bambino (piccolo bamba) Lo sai che alla domenica siamo sempre dalla mia mamma!

Carlo - Che felicità! E allora cosa succede?

Gina - E allora... siccome la mia mamma è delicata di stomaco, faremo un bel semolino di riso, pesce in bianco e frutta cotta. Va bene signor padrone?

Carlo - Io sarò il tuo datore di lavoro, ma mi sembra che sia tu a comandare. Fai come vuoi, io non parlo più, mangio e taccio. Va bene?

Gina - Ehi Carlo oltre che brontolone sei anche "un grasso da arrosto" Una volta fai il dittatore, un'altra volta fai la vittima. Sai cosa ho deciso?  Da domani si tornerà all'antica. Solito sano Menu della Ginetta e niente stravizzi. Hai capito o ti faccio un disegno?

Indice

04 - Pensieri di Montagna

06 - La prima volta alla Scala

10 - La mia maestra

13 - Cosa ho cercato di fare da grande

16 - I Ricordi del cuore

20 - I giocattoli di “una volta”

23 - In Bici all'Idroscalo

26 - Cinquanta anni dopo

29 - Achtung… Achtung…

34 - Otto Settembre 1943

37 - Il viaggio nel Sahara

43 - Porcellino ungherese portafortuna

45 - I murales di Cibiana Del Cadore

47 - La Borsa (la gaetana)

49 - La Scabbia

52 - L’incidente

55 - La solitudine

57 - Sul Tram

60 - Peso netto

62 - La Terra Santa paese delle pietre

65 - Speranza

67 - Vento - Emozioni

68 - Un litro di latte

70 - Le verruche

72 - Biscotti a Linate

73 - La ragazza

74 - Vita domestica

1 commento:

  1. Abbiamo letto tutto con piacere.....a volte con allegria a volte con commozione. Ci siamo ritrovati in tante situazioni uguali e pensiamo che questo libretto debba essere conservato con amore

    RispondiElimina