Sfollati nella campagna di Rocca Massima
Rimanemmo da questi amici in via Acqua
Palomba per qualche giorno, poi i miei pensarono di rifugiarsi in un luogo più
sicuro e partimmo in direzione Rocca Massima portando le poche cose che avevamo.
Prendemmo la via di Cori. Mio fratello Maurizio aveva appena tre anni un po’
veniva portato in braccio un po’ camminava, io ne avevo sei dovetti fare tutto
il viaggio a piedi per circa 15 chilometri. Prima di arrivare a Giulianello notai
un tedesco che attraversava i campi portando a mo’ di zaino una bobina di filo
rosso che si svolgeva e si posava a terra. Immagino che fosse un filo
telefonico. Arrivati a Giulianello passammo sul ponte della ferrovia. Si fece
ben attenzione a passare ai lati perché al centro della ferrovia erano state
posizionate delle mine, che non furono fatte esplodere neppure quando di lì
passò il fronte. Il ponte è ancora in piedi anche se non c’è più la ferrovia;
si può vedere a sinistra del ponte di via di Cori prima di arrivare a Giulianello.
Proseguimmo la strada per Rocca Massima fino alla località Boschetto poi
prendemmo la strada di campagna a sinistra fino alla località Macchiarella. Lì
fummo ospitati in una capanna insieme ad una altra famiglia (forse lontani parenti
nostri) che abitavano in contrada Malatesta nel territorio di Velletri. Da
quella altezza si riusciva a vedere la pianura Pontina e la sera si notavano
bene i bagliori delle esplosioni lungo il fronte di guerra. Lì stavamo
abbastanza sicuri, ma non troppo.
Quando una colonna di carri tedeschi
in ritirata prese la via di Rocca Massima, non sapendo che quella via non aveva
sfondo, i caccia americani li inseguirono e li bombardarono, una scheggia
sfiorò mio fratello Maurizio e troncò di netto una grossa pianta di vite.
RITORNO
DALLO SFOLLAMENTO
Appena passato il fronte, d’accordo
con l’altra famiglia, i miei decisero di tornare a casa, alla vigna in contrada
Papazzano. Naturalmente si viaggiava a piedi, carichi delle povere cose più
necessarie che eravamo riusciti a portare con noi. Lungo la strada erano ancora
evidenti i segni della distruzione e di morte della guerra appena passata. Poco
prima di arrivare a Giulianello, precisamente subito dopo il passaggio a
livello della ferrovia Velletri-Terracina, incrocio via di Rocca Massima e via
di Artena, ora non c’è più la ferrovia, avanzando verso Giulianello, sulla
nostra sinistra sul prato che fiancheggiava la strada, (ora vi hanno costruito
villette) feci il primo incontro con la crudeltà della morte che aveva seminato
la guerra. Sul prato era rimasta una gamba intera fino alla coscia di un
soldato americano, e dopo un centinaio di metri, l’altra gamba. Lascio
immaginare la sensazione che ebbi di fronte a questa scena, che è rimasta viva
nella mia memoria fino ad oggi. Proseguimmo la strada verso casa incontrando
residuati bellici di ogni tipo, anche un carro armato bruciato. Arrivati alla
vigna, l’abbiamo trovata devastata. Qualche carro armato era sceso dalla sede
ferroviaria e aveva fatto numerose manovre devastando la vigna.
HO RISCHIATO
DI MORIRE BRUCIATO
Era appena passata la guerra a
Velletri. Per le strade e nei campi si trovavano residuati bellici di ogni tipo:
armi, bombe a mano, mine, bombe inesplose, carri armati bruciati, perfino la
carcassa di un aereo caduto in mezzo alla ferrovia nei pressi del ponte S.
Alba. Papà trovò una ghirba di benzina. A quei tempi nelle campagne non c’era
la luce elettrica e si faceva luce con lumi a petrolio e qualche candela. Papà
ebbe un’idea: sostituire il petrolio con la benzina aggiungendo una certa
quantità di acqua. La cosa funzionava a perfezione, anche se l’acqua non
serviva a niente perché la benzina galleggiava sull’acqua. Una sera, era già
buio, papà doveva rifornire il lume di benzina. Accese un mozzicone di candela,
che conservava per le emergenze, lo consegnò a me e mi mise lontano da lui,
mentre riforniva il lume di benzina. Io avevo sei anni, pensai che a quella
distanza papà non potesse vedere bene e mi avvicinai per fargli luce. In un attimo
fui avvolto da una fiammata. Scappai fuori della capanna correndo con la fiamma
attaccata al polpaccio. Feci un po’ di metri, ma la fiamma non di spegneva: il
polpaccio bruciava come un pezzo di legno secco. Per il dolore mi gettai a
terra sull’erba sul lato destro, la parte che bruciava. La fiamma si soffocò e
si spense. Intanto mio padre colpito anche lui alla mano destra, ebbe la
prontezza di prendere una coperta e gettarla sulle fiamme che minacciavano di
diffondersi. Così riuscì a spegnere l’incendio che si stava diffondendo. Io
ebbi la carne del polpaccio destro e della coscia letteralmente bruciata. Oggi
potrei classificarle come bruciature di terzo grado e oltre. I miei non mi
portarono all’ospedale, che, oltre tutto era stato distrutto dal bombardamento.
E non cercarono neppure un medico, anche questo introvabile in quei giorni. Ci
pensò mia madre a curarmi con i metodi della tradizione popolare. Prese vino e
olio sbattendoli in un piatto per farli amalgamare e li passò sulle ferite,
senza fasciarle. Rimasi a letto per qualche giorno, ma per il dolore piegai il
ginocchio e feci combaciare il polpaccio con la coscia. Quando provai a
stendere la gamba non ci riuscii più: la coscia e il polpaccio si erano saldati,
erano diventati un corpo unico. Per spostarmi mi mettevo a terra e facendo leva
con le mani e la gamba sana mi muovevo con fatica. Riuscii anche a stare in
piedi e a camminare appoggiandomi ad un bastone, ma sempre con il piede destro
piegato e saldato alla coscia. Dopo qualche giorno i miei decisero
d’intervenire con i mezzi a loro disposizione, cioè senza niente, solo con la
forza delle loro braccia. Mia madre si mise d’accordo con zia Filomena. Non
ricordo chi delle due mi teneva mentre l’altra mi prendeva per il piede e
tirava. Dopo vari tentativi, con uno strattone più forte il piede finalmente si
distese. L’operazione era riuscita! Lascio solo immaginare il mio dolore. Fui
curato ancora con olio e vino e la ferita lentamente si rimarginò.
Mi è rimasta la cicatrice su tutto il
polpaccio, ma ho dimenticato il dolore.
A distanza di anni, sono convinto che
sono vivo solo per grazia di Dio.
Se non mi fossi buttato a terra dalla
parte giusta, la fiamma avrebbe raggiunto i calzoncini e la maglietta e io non
avrei avuto scampo. E poi, con quelle cure inadeguate, come mai non mi è venuta
nessuna infezione? Mi convinco sempre più che il Signore aveva già messo gli
occhi su di me: mi voleva prete!
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