martedì 17 dicembre 2024

Don Paolo - 03

 

Sfollati nella campagna di Rocca Massima

  

Rimanemmo da questi amici in via Acqua Palomba per qualche giorno, poi i miei pensarono di rifugiarsi in un luogo più sicuro e partimmo in direzione Rocca Massima portando le poche cose che avevamo. Prendemmo la via di Cori. Mio fratello Maurizio aveva appena tre anni un po’ veniva portato in braccio un po’ camminava, io ne avevo sei dovetti fare tutto il viaggio a piedi per circa 15 chilometri. Prima di arrivare a Giulianello notai un tedesco che attraversava i campi portando a mo’ di zaino una bobina di filo rosso che si svolgeva e si posava a terra. Immagino che fosse un filo telefonico. Arrivati a Giulianello passammo sul ponte della ferrovia. Si fece ben attenzione a passare ai lati perché al centro della ferrovia erano state posizionate delle mine, che non furono fatte esplodere neppure quando di lì passò il fronte. Il ponte è ancora in piedi anche se non c’è più la ferrovia; si può vedere a sinistra del ponte di via di Cori prima di arrivare a Giulianello. Proseguimmo la strada per Rocca Massima fino alla località Boschetto poi prendemmo la strada di campagna a sinistra fino alla località Macchiarella. Lì fummo ospitati in una capanna insieme ad una altra famiglia (forse lontani parenti nostri) che abitavano in contrada Malatesta nel territorio di Velletri. Da quella altezza si riusciva a vedere la pianura Pontina e la sera si notavano bene i bagliori delle esplosioni lungo il fronte di guerra. Lì stavamo abbastanza sicuri, ma non troppo.

Quando una colonna di carri tedeschi in ritirata prese la via di Rocca Massima, non sapendo che quella via non aveva sfondo, i caccia americani li inseguirono e li bombardarono, una scheggia sfiorò mio fratello Maurizio e troncò di netto una grossa pianta di vite.

 

RITORNO DALLO SFOLLAMENTO

 

 

Appena passato il fronte, d’accordo con l’altra famiglia, i miei decisero di tornare a casa, alla vigna in contrada Papazzano. Naturalmente si viaggiava a piedi, carichi delle povere cose più necessarie che eravamo riusciti a portare con noi. Lungo la strada erano ancora evidenti i segni della distruzione e di morte della guerra appena passata. Poco prima di arrivare a Giulianello, precisamente subito dopo il passaggio a livello della ferrovia Velletri-Terracina, incrocio via di Rocca Massima e via di Artena, ora non c’è più la ferrovia, avanzando verso Giulianello, sulla nostra sinistra sul prato che fiancheggiava la strada, (ora vi hanno costruito villette) feci il primo incontro con la crudeltà della morte che aveva seminato la guerra. Sul prato era rimasta una gamba intera fino alla coscia di un soldato americano, e dopo un centinaio di metri, l’altra gamba. Lascio immaginare la sensazione che ebbi di fronte a questa scena, che è rimasta viva nella mia memoria fino ad oggi. Proseguimmo la strada verso casa incontrando residuati bellici di ogni tipo, anche un carro armato bruciato. Arrivati alla vigna, l’abbiamo trovata devastata. Qualche carro armato era sceso dalla sede ferroviaria e aveva fatto numerose manovre devastando la vigna.

 

 

HO RISCHIATO DI MORIRE BRUCIATO

 

 

Era appena passata la guerra a Velletri. Per le strade e nei campi si trovavano residuati bellici di ogni tipo: armi, bombe a mano, mine, bombe inesplose, carri armati bruciati, perfino la carcassa di un aereo caduto in mezzo alla ferrovia nei pressi del ponte S. Alba. Papà trovò una ghirba di benzina. A quei tempi nelle campagne non c’era la luce elettrica e si faceva luce con lumi a petrolio e qualche candela. Papà ebbe un’idea: sostituire il petrolio con la benzina aggiungendo una certa quantità di acqua. La cosa funzionava a perfezione, anche se l’acqua non serviva a niente perché la benzina galleggiava sull’acqua. Una sera, era già buio, papà doveva rifornire il lume di benzina. Accese un mozzicone di candela, che conservava per le emergenze, lo consegnò a me e mi mise lontano da lui, mentre riforniva il lume di benzina. Io avevo sei anni, pensai che a quella distanza papà non potesse vedere bene e mi avvicinai per fargli luce. In un attimo fui avvolto da una fiammata. Scappai fuori della capanna correndo con la fiamma attaccata al polpaccio. Feci un po’ di metri, ma la fiamma non di spegneva: il polpaccio bruciava come un pezzo di legno secco. Per il dolore mi gettai a terra sull’erba sul lato destro, la parte che bruciava. La fiamma si soffocò e si spense. Intanto mio padre colpito anche lui alla mano destra, ebbe la prontezza di prendere una coperta e gettarla sulle fiamme che minacciavano di diffondersi. Così riuscì a spegnere l’incendio che si stava diffondendo. Io ebbi la carne del polpaccio destro e della coscia letteralmente bruciata. Oggi potrei classificarle come bruciature di terzo grado e oltre. I miei non mi portarono all’ospedale, che, oltre tutto era stato distrutto dal bombardamento. E non cercarono neppure un medico, anche questo introvabile in quei giorni. Ci pensò mia madre a curarmi con i metodi della tradizione popolare. Prese vino e olio sbattendoli in un piatto per farli amalgamare e li passò sulle ferite, senza fasciarle. Rimasi a letto per qualche giorno, ma per il dolore piegai il ginocchio e feci combaciare il polpaccio con la coscia. Quando provai a stendere la gamba non ci riuscii più: la coscia e il polpaccio si erano saldati, erano diventati un corpo unico. Per spostarmi mi mettevo a terra e facendo leva con le mani e la gamba sana mi muovevo con fatica. Riuscii anche a stare in piedi e a camminare appoggiandomi ad un bastone, ma sempre con il piede destro piegato e saldato alla coscia. Dopo qualche giorno i miei decisero d’intervenire con i mezzi a loro disposizione, cioè senza niente, solo con la forza delle loro braccia. Mia madre si mise d’accordo con zia Filomena. Non ricordo chi delle due mi teneva mentre l’altra mi prendeva per il piede e tirava. Dopo vari tentativi, con uno strattone più forte il piede finalmente si distese. L’operazione era riuscita! Lascio solo immaginare il mio dolore. Fui curato ancora con olio e vino e la ferita lentamente si rimarginò.

Mi è rimasta la cicatrice su tutto il polpaccio, ma ho dimenticato il dolore.

A distanza di anni, sono convinto che sono vivo solo per grazia di Dio.

Se non mi fossi buttato a terra dalla parte giusta, la fiamma avrebbe raggiunto i calzoncini e la maglietta e io non avrei avuto scampo. E poi, con quelle cure inadeguate, come mai non mi è venuta nessuna infezione? Mi convinco sempre più che il Signore aveva già messo gli occhi su di me: mi voleva prete!

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento