NELLA BABELE DEL LAGER:
LINGUE, PAROLE E COMUNICAZIONE NEI CAMPI NAZISTI
Leonardo Zanchi1
PREMESSA
L’incomunicabilità e la confusione delle lingue sembrano perseguitare l’uomo e le sue relazioni sin dall’alba dei tempi. Già nella Genesi, i costruttori della torre di Babele, che osano provare a raggiungere e superare Dio, vengono puniti con l’incapacità di intendersi e di comunicare fra loro. Attraverso la mediazione di Agostino, il correlativo oggettivo della torre di Babele transita nel VII capitolo del I libro del De Vulgari Eloquentia di Dante, per discendere poi quasi al fondo dell’Inferno, dove Nembrot, uno dei principali artefici della torre, è ascoltato e non compreso, nel terribile contrappasso che imprigiona, in altre forme e in suoni confusi, anche le anime dei consiglieri fraudolenti nei canti XXVI e XXVII.
Come un fiume carsico il tema della confusio linguarum, così come appare nell’immaginario biblico e dantesco, torna a riproporsi diversi secoli più tardi, nelle pagine di Primo Levi e, in una più ampia diffrazione, nelle narrazioni dei testimoni delle deportazioni.
Il castigo sulla terra, per la colpa d’esser nati da un’etnia diversa o per la colpa di aver pensato e lottato per un’idea politica differente da quella imposta dal regime nazifascista, passa anche attraverso la lingua. L’incomunicabilità all’interno del lager, la privazione della parola e della possibilità di comprendere sono esperite in maniera univoca da tutti i superstiti della deportazione e se ne trova traccia in quasi tutte le testimonianze, scritte e orali, dei deportati italiani che hanno fatto ritorno dai campi nazisti.
Il presente contributo si propone di offrire una prima, e senz’altro parziale, indagine della frammentazione e della disgregazione linguistica che i detenuti vivono nei lager, chiarendo alcuni aspetti delle modalità e degli scopi della comunicazione nel contesto concentrazionario. L’articolo si compone di due sezioni: in primo luogo si cerca di districare e comprendere le dinamiche dell’intreccio delle diverse forme linguistiche che trovano spazio nei lager; quindi si approfondiscono i contenuti di questi diversi linguaggi: la lingua dell’odio, dell’umiliazione e della violenza nazista e la lingua della solidarietà, della speranza e della resistenza dei deportati.
1. IL PLURILINGUISMO: CARATTERISTICA FONDAMENTALE DEI RAPPORTI NEL LAGER
La confusione delle lingue è una componente fondamentale del modo di vivere di quaggiù; si è circondati da una perpetua Babele, in cui tutti urlano
1 Università degli Studi di Milano. Il presente articolo rielabora le ricerche confluite in Leonardo Zanchi, Nella Babele del lager. Lingue e parole nei campi nazisti, tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, Corso di Laurea in Lettere, a.a. 2017-2018, relatore Giuseppe Polimeni.
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ordini e minacce in lingue mai prima udite, e guai a chi non afferra al volo. Qui nessuno ha tempo, nessuno ha pazienza, nessuno ti dà ascolto2.
Così scrive Primo Levi, registrando efficacemente una delle prime sensazioni provate all’interno del lager di Auschwitz. Il plurilinguismo è la caratteristica di tutti i campi nazisti, diretta conseguenza della concentrazione in unico luogo di prigionieri di diverse nazionalità. Lo spaesamento da esso generato è comune a tutti i deportati, i quali, oltre a essere vittime di una crudeltà disumana, non hanno nemmeno la possibilità di capire cosa stia accadendo loro, dove siano finiti o quale mondo li aspetti, andando così incontro inconsapevolmente al loro destino e cercando di adattarsi alle diverse situazioni nel momento in cui esse si presentano, senza alcun preavviso.
Facendo ricorso alla medesima immagine, Goti Herskovits racconta l’arrivo nella baracca all’interno del settore femminile del lager di Auschwitz-Birkenau:
Ci hanno portato nella baracca 31, che era già piena zeppa, piena come un uovo, tutta gente appena arrivata. C’erano olandesi, belghe, francesi, da tutte le parti. Era una Babele di lingue, di miserie unite, dove non si capiva nulla. Sentivi invocazioni, lamenti e a un certo punto ci hanno assegnato un posto per dormire3.
L’enorme disagio linguistico, che priva gli uomini e le donne di ciò che li rende tali, ovvero la parola e la possibilità di comunicare, viene espresso e sintetizzato da Primo Levi attraverso un’immagine indimenticabile per la sua icasticità. All’interno del lager di Auschwitz, egli viene trasferito nel campo satellite di Monowitz, dove sorge la Buna, un’immensa fabbrica di gomma sintetica, che è «grande come una città»; Levi precisa che «vi lavorano, oltre ai dirigenti e ai tecnici tedeschi, quarantamila stranieri e vi si parlano quindici o venti linguaggi»4. Ecco allora che la torre di Babele non è più solo un riferimento astratto, ma assume le fattezze concrete della torre del Carburo, costruita al centro della fabbrica, in perfetta analogia con il testo biblico:
La Torre del Carburo che sorge in mezzo alla Buna e la cui sommità è raramente visibile in mezzo alla nebbia, siamo noi che l’abbiamo costruita. I suoi mattoni sono stati chiamati Ziegel, briques, tegula, cegli, kammeny, bricks, téglak, e l’odio li ha cementati; l’odio e la discordia, come la Torre di Babele, e così noi la chiamiamo: Babelturm, Bobelturm; e odiamo in essa il sogno demente di grandezza dei nostri padroni, il loro disprezzo di Dio e degli uomini, di noi uomini.
E oggi ancora, così come nella favola antica, noi tutti sentiamo, e i tedeschi stessi sentono, che una maledizione, non trascendete e divina, ma immanente e storica, pende sulla insolente compagine, fondata sulla confusione dei linguaggi ed eretta a sfida del cielo come una bestemmia di pietra5.
2 Primo Levi, 2014: 30. Primo Levi, nato a Torino il 31 luglio 1919, di famiglia ebrea, chimico, dopo l’8 settembre partecipa all’organizzazione di uno dei primi gruppi partigiani affiliati a Giustizia e Libertà. Arrestato a St. Vincent (Aosta) il 13 dicembre 1943, viene inviato al campo di transito di Fossoli; da lì, il 21 febbraio 1944, viene deportato ad Auschwitz-Monowitz.
3 Pezzetti, 2015: 217. Testimonianza di Goti Herskovits, forse più nota con il cognome del marito, ovvero Bauer. Arrestata in provincia di Varese il 2 maggio 1944, reclusa nelle carceri di Como, Varese, Milano, giunge ad Auschwitz il 23 maggio 1944, a bordo di un convoglio partito il 16 maggio dal campo di transito di Fossoli.
4 Primo Levi, 2014: 67.
5 Ivi: 68.
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1.1. Intorno al tedesco
Per sopravvivere al lager è necessario acquisire la capacità di orientarsi all’interno della molteplicità delle lingue in esso presenti. Questo concetto viene compreso subito da tutti i deportati, i quali chiaramente sentono la necessità di dover apprendere il più in fretta possibile i rudimenti minimi del tedesco, o meglio, della variante del tedesco utilizzata dal personale del lager. La lingua tedesca, dunque, occupa il primo posto nella gerarchia linguistica dei campi, in quanto lingua dei dominatori e, per questo, ufficiale in tutti i lager.
C’è stato de le volte che m’ero dimenticato l’italiano, solo tedesco parlavo. Il tedesco lo dovevi afferrà subito, e io l’ho imparato per vivere. Me so’ fatto omo ‘n campo, co gente che parlavano sei, sette lingue, e noi sapevamo dire soltanto Ja!6
Leone Sabatello descrive così non solo il suo rapporto con la lingua tedesca, ma quello di gran parte degli ebrei romani che, come lui, sono stati prelevati dal ghetto il 16 ottobre 1943; a essi si riferisce con quel «noi». Nella stessa direzione vanno anche le parole di Leone Di Veroli:
Grazie a Dio, l’ho dovuta imparare per forza la lingua, sinnò me gonfiaveno tutti i giorni. Ma a sedic’anni incameri subito7.
Così anche Ester Calò:
Te menaveno, poi loro parlaveno, se capiveno… sapeveno ‘l tedesco, tutte ‘e lingue. Quando si dovevano alzà, io facevo quello che faceveno loro, cercavo de capì qualcosa. Faceveno: «Schenll, schenll!», voleva dì «svelti!» E noi dovevamo cercà d’emparà, de capì qualcosa, se no… Eh, noi italiani ce n’hanno ammazzati parecchi, perché nun c’avevamo lingue nun c’avemo istruzione, niente, niente! Specialmente noi de Roma8.
Com’è evidente anche dalle testimonianze appena citate, la condizione linguistica dei deportati italiani è davvero complessa, non solo perché la maggior parte di essi non conosce alcuna lingua straniera, ma anche e soprattutto per via del fatto che spesso gli internati non riescono a intendersi nemmeno attraverso la lingua italiana, essendo abituati a parlare quasi esclusivamente il dialetto che rende difficili, e in qualche caso impossibili, la comunicazione e la comprensione anche fra individui provenienti da regioni e territori confinanti.
Imparare il tedesco resta comunque una necessità primaria; alcuni deportati, come dimostrano Luciana Nissim e Marta Ascoli, cercano sin dal primo giorno nel lager di apprendere quante più parole possono:
Io ho cominciato il primo giorno di quarantena a imparare il tedesco, perché mi sembrava che fosse la prima cosa da fare se uno vuole vivere in un paese
6 Pezzetti, 2015: 252. Testimonianza di Leone Sabatello, arrestato a Roma il 16 ottobre 1943, viene deportato ad Auschwitz dove giunge il 23 ottobre 1943.
7 Ibidem. Testimonianza di Leone Di Veroli, arrestato a Roma il primo aprile 1944, detenuto al Regina Coeli, giunge ad Auschwitz il 23 maggio 1944, a bordo di un convoglio partito il 16 maggio dal campo di transito di Fossoli.
8 Ivi: 251. Testimonianza di Ester Calò, arrestata a Roma il 4 febbraio 1944, giunge a d Auschwitz il 23 maggio 1944, a bordo di un convoglio partito il 16 maggio dal campo di transito di Fossoli.
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in cui si parla il tedesco. Ogni giorno imparavo un certo numero di vocaboli, del corpo umano, delle malattie, i giorni della settimana, i numeri9.
Poiché gli ordini erano dati in tedesco, dovetti ben presto adeguarmi a quel linguaggio a me sconosciuto, e cercavo di eseguire copiando le altre perché per ogni indugio o errore si veniva punite10.
Conoscere la lingua significa in primo luogo comprendere gli ordini ed evitare terribili punizioni. Come sottolinea la germanista Donatella Chiapponi,
alla impossibilità di comunicare i capi sopperivano con gli insulti, le minacce e le botte. Le SS e il personale non si sforzavano di farsi comprendere o di insegnare nel tempo la propria lingua ai prigionieri e ciò volutamente, per creare una separazione ancor più marcata tra loro, appartenenti alla razza eletta, e i detenuti. […] La maggior parte dei prigionieri che non conoscevano il tedesco, infatti, moriva nei primi dieci, massimo quindici giorni11.
Ricorda a tale proposito Liana Millu:
Il detenuto italiano si trovava in una condizione particolarmente svantaggiata, a causa della sua assoluta incompetenza nella lingua tedesca. Soprattutto durante i primi giorni fu straziante vedere come alcuni dei miei connazionali venissero pestati a sangue o addirittura uccisi, perché, non conoscendo il tedesco, rispondevano all’ordine “schnell!” fermandosi o smettendo di lavorare. L’italiano disubbidiva agli ordini perché gli risultavano incomprensibili12.
Per gli internati conoscere il tedesco significa non soltanto comprendere più in fretta le dinamiche del lager, ma anche aver accesso a privilegi o a incarichi più vantaggiosi, come testimonia Giuliana Fiorentino Tedeschi:
Loro non ammettevano che la gente non potesse capire il tedesco. Il tedesco era lingua universale, guai a non capirlo! Chi il tedesco lo conosceva bene poteva avere qualche vantaggio, magari entrare in qualche Kommando meno pesante13.
Complessivamente, «il sapere o il non sapere il tedesco era uno spartiacque»14, come fa intendere, ancora una volta in maniera efficace, Primo Levi; uno spartiacque fra i sommersi e i salvati, per continuare a usare il linguaggio di uno dei testimoni per eccellenza, oppure, più semplicemente, fra chi si arrendeva alla sua fine e chi, invece, faceva di tutto per sopravvivere qualche giorno in più.
9 Ibidem. Testimonianza di Luciana Nissim, arrestata a Brusson (Aosta) il 13 dicembre 1943, giunge ad Auschwitz il 26 febbraio 1944, a bordo di un convoglio partito dal campo di transito di Fossoli il 22 febbraio 1944.
10 Ascoli, 1998, p. 23. Marta Ascoli, arrestata a Trieste il 19 marzo 1944, condotta nella Risiera di San Sabba, viene da lì deportata ad Auschwitz dove giunge il 4 aprile 1944.
11 Chiapponi, 2004: 37.
12 Ibidem. Testimonianza di Liana Millu, arrestata a Venezia nel marzo 1944, viene deportata ad Auschwitz.
13 Pezzetti, 2015: 252. Testimonianza di Giuliana Fiorentino Tedeschi, assistente alla cattedra di glottologia del professor Benvenuto Terracini, viene espulsa dalla scuola e dall’Università degli Studi di Milano a seguito delle leggi razziali. Arrestata a Torino l’8 marzo 1944, giunge ad Auschwitz il 10 aprile, a bordo di un trasporto partito il 5 aprile dal campo di transito di Fossoli.
14 Primo Levi, 1994: 70.
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1.2. Le altre lingue
Il tedesco, tuttavia, non è l’unica lingua del lager. Quasi tutti i campi, infatti, presentano una seconda lingua al loro interno, che può dipendere dal luogo in cui sorge il lager (è il caso di Auschwitz, che ha come seconda lingua il polacco), oppure dalla comunità linguistica di detenuti più numerosa (come avviene a Buchenwald, dove si parla molto il russo). In alcuni campi prendono piede vere e proprie lingue miste, come il tedesco-polacco, il tedesco-ceco o il tedesco-ungherese. Come spiega la germanista Donatella Chiapponi, «si tratta sempre della stessa lagerszspracha, che varia soltanto in dipendenza della dislocazione regionale del lager in questione, e della composizione etnica della sua popolazione di prigionieri».15
Le testimonianze al riguardo non mancano:
Ancora oggi io ricordo come si enunciava in polacco non il mio numero di matricola, ma quello del prigioniero che mi precedeva nel ruolino di una certa baracca: un groviglio di suoni che terminava armoniosamente, come le indecifrabili contine dei bambini, in qualcosa come «stergìsci stèri» (oggi so che queste due parole vogliono dire “quarantaquattro”). Infatti in quella baracca erano polacchi il distributore della zuppa e la maggior parte dei prigionieri e il polacco era la lingua ufficiale. […] Queste voci straniere si erano incise nelle nostre memorie come su un nastro magnetico vuoto, bianco; […] molto più tardi, le abbiamo recitate a persone che le potevano comprendere, e un senso, tenue e banale, lo avevano: erano imprecazioni, bestemmie, o frasette quotidiane spesso ripetute, «come che ora è?», o «non posso camminare», o «lasciami in pace»16.
Conoscere il tedesco e il polacco, in quanto seconda lingua del Lager era diventato proprio il polacco, era un mezzo per evitare le percosse, gli insulti, le umiliazioni. […] le Kapos e le capo-baracca polacche, spesso, si rivolgevano a tutti i detenuti nella propria lingua o, addirittura, in un “tedesco polacchizzato”, nel senso che cambiavano le desinenze finali delle parole. La lingua diventava qualcosa di ulteriormente incomprensibile. Una parola che ancora oggi ricordo in polacco è “prosce” [prosze], che significa “prego”: era un’espressione di cortesia, che le donne utilizzavano solo per rivolgersi alle connazionali17.
La lingua parlata ufficialmente era il polacco, non tanto il tedesco. Auschwitz si trova in Slesia, quindi in territorio polacco. I Kapos erano quasi tutti polacchi, anche le donne. Soltanto quando arrivavano i tedeschi, a cui loro erano subordinati, parlavano in tedesco. Ma a noi, da parte dei Kapos, gli ordini venivano dati in polacco18.
Nel campo di Auschwitz, come spiega la studiosa polacca Danuta Wesolowska (1998: 29):
coesistono due forme di polacco – due dialetti nei KZ. Quello dominante è la forma più volgare comunemente utilizzata nei KZ. Si tratta di un gergo
15 Chiapponi, 2004: 51.
16 Primo Levi, 1994: 73.
17 Chiapponi, 2004: 51-52. Testimonianza di Liana Millu, arrestata a Venezia nel marzo 1944, viene deportata ad Auschwitz.
18 Ibidem. Testimonianza di Marta Ascoli, arrestata a Trieste il 19 marzo 1944, condotta nella Risiera di San Sabba, viene da lì deportata ad Auschwitz dove giunge il 4 aprile 1944.
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zeppo di espressioni e modi di dire dialettali, una lingua informale, perfettamente adatta all’orrore della vita di quel luogo. Il polacco delle uniformi a strisce dei KZ. L’altra forma era un polacco puro, bello e tranquillo, adatto ai momenti liberi, al rilassamento, che dava immediatamente l’idea di un giorno di vacanza, in compagnia di cari amici, che a fatica risollevava dalla miseria dei KZ - come una reliquia incomparabile19.
Per Mauthausen è possibile affidarsi alla testimonianza del deportato politico piemontese Felice Malgaroli:
Lì non si parlava tedesco, si parlava un po’ tutte le lingue mischiate insieme, e noi parlavamo ancora quel linguaggio strano, anche dopo la liberazione, anche tra italiani. Ma tutto lo svolgersi del campo era tutto racchiuso in cinquanta parole. Los, svelto, zuruck, indietro, insulti vari… la gamella, che non so più come si chiamava… […] un trenta, quaranta parole, ma non si arrivava a cinquanta20.
2. NELLA LINGUA DEL LAGER: LA LINGUA DEI DOMINATORI
La lingua tedesca con la quale i detenuti ebbero a che fare rappresentava in fondo un miscuglio di maledizioni e parole oscene, di ordini secchi e sprezzanti. Il tedesco con cui si rivolgeva ai detenuti, ai “numeri”, non era né la lingua scritta, né la lingua comune in uso21.
Il momento dell’arrivo nel lager rappresenta per tutti i deportati il definitivo scontro con la realtà concentrazionaria, nota fino a quel momento soltanto attraverso qualche racconto a cui si tendeva a non dare credibilità. L’ingresso nel lager avviene velocemente, ma la tensione dilata quel momento, che resta indelebile nella memoria di chi è sopravvissuto.
Rapidamente tutti i deportati vengono sottoposti a quei “riti di ingresso” che li trasformano da persona a prigioniero, da individuo a numero, cancellando tutto quello che sono stati fino a un attimo prima. Le testimonianze di questo tragico momento di transizione, che ha forme analoghe nei diversi campi, sono numerose.
Oltre la soglia del lager gli eventi precipitano senza che i deportati abbiano possibilità di capire: anche l’impatto con la lingua degli aguzzini, prima solo accennato durante la cattura e la detenzione nelle carceri o nei campi di transito, ora è definitivo e disarmante.
Le prime parole che i deportati sentono una volta giunti nel lager sono schnell! (‘veloce’), los los! (‘su, via, avanti’), alle raus! (‘tutti fuori’): questi ordini vengono gridati all’arrivo dei prigionieri se qualcuno esita o non ubbidisce e perseguitano gli internati quotidianamente durante tutto il periodo di detenzione.
Nel caso particolare di Auschwitz, i prigionieri sono sottoposti alla selezione iniziale, che divide gli uomini dalle donne e i bambini e stabilisce chi è abile al lavoro e quindi può accedere al campo: come è noto, proprio durante questa terribile operazione, molti prigionieri vengono separati per l’ultima volta dai loro cari, senza sapere che non li rivedranno più, perché chi non è ritenuto in grado di lavorare viene eliminato o mandato subito nelle camere a gas. Anche in questo frangente, la lingua ha un ruolo fondamentale:
19 Wesolowska, 1998. Traduzione di Antonella Tiberi.
20 Bravo, Jalla, 1987: 186. Testimonianza di Felice Malgaroli, operaio del pavese, di famiglia con lunga tradizione socialista e comunista, partigiano nelle formazioni Garibaldi, inviato a Bolzano e da lì a Mauthausen l’11 gennaio 1945.
21 Wesolowska, 1998: 39.
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i nazisti chiedono ai prigionieri informazioni sulla loro età, sul loro stato di salute, sulla loro professione, addirittura sulla loro posizione politica e tranquillizzano tutti dicendo che all’interno del campo ciascuno potrà ritrovare i propri familiari, mentre gli anziani e i bambini vengono portati in un posto adatto a chi, come loro, non può lavorare.
Come siamo scese, le SS hanno chiesto a mia madre quanti anni aveva. Mia mamma non ne aveva ancora cinquanta, ma ha detto cinquanta e ci hanno immediatamente divise. Io sento ancora il braccio di mia mamma che tremava, ma hanno detto: «i giovani da una parte e le persone anziane dall’altra»… Così non l’ho più vista; ho saputo poi solo dopo tanti giorni che la mamma non era entrata in campo ed era passata ai forni subito. Sia la mamma sia la nonna. Mi hanno detto: «ma cosa ti illudi? Non vedi? Non c’è nessuno che non sia giovane in campo; tua madre non c’è più, tua madre ormai è passata per il camino…».
Forse è il ricordo più tragico che ho, che mi sono proprio data alla disperazione, ho pianto per un giorno e mezzo proprio ininterrottamente; dopo di che non sono più riuscita a piangere, non sono proprio più riuscita a piangere22.
Ero con altre donne, c’era un tedesco e un interprete disse – lo ricordo come se fosse adesso: «siete incinta o avete bambini?». Io sono stata lì un attimo: se dico di sì, forse mi trattano meglio o un po’ meno male, ma poi se s’accorgono che ho detto una bugia mi pestano. E allora ho detto di no e sono passata dalla parte dei vivi23.
Non si vedeva niente e poi abbiamo visto dei reticolati con delle garitte e due baracche di legno, e più giù c’era uno scheletro che faceva da cucina. Nient’altro. Ad ogni modo sono usciti due polacchi giovani, studenti, rigati, e hanno detto: «Italiani mettetevi in fila, che adesso vi prendono il numero e date la vostra generalità». E poi si sono tolti il cappello, hanno salutato levandosi il cappello e sono andati via. Mi hanno dato il numero, e sono arrivate le SS con i cani. Quando eravamo arrivati, da una baracca piccola erano uscite delle SS anziane e lì fuori cantavano: «oh Italia, oh Italia del mio cuor» - si vede che erano dei vecchi che avevano fatto già l’altra guerra. Ma quelli invece erano giovani, avevano i cani e battevano per fare presto: los! los!24
Ci han portati tutti dentro questa grande piazza… e sono entrati, saran stati sette otto ufficiali italiani, dei fascisti, no? Ci hanno interrogato e han detto: «guardate ragazzi, siete al campo di Buchenwald. Se volete arruolarvi nella repubblica di Salò siete in tempo per salvarvi». Qualcuno è andato – dico la verità – qualcuno è andato. Ma non dei nostri. Io e mio fratello ci siamo detti: «mah, se si voleva farlo, lo si poteva fare anche in Italia. Non si veniva in Germania per andare nella repubblica di Salò!». Abbiamo detto così: «noi accettiamo il campo di concentramento». E così ci hanno portati via25.
22 Bravo, Jalla, 1987: 140. Testimonianza di Natalia Tedeschi, studentessa genovese di origini ebraiche, deportata ad Auschwtiz con la madre e la nonna.
23 Ibidem. Testimonianza di Enrica Jona, insegnante di lettere nata ad Asti da famiglia ebrea, deportata ad Auschwitz nel giugno del 1944 e in seguito trasferita a Ravensbrück.
24 Ivi: 141. Testimonianza di Giuseppe Ronco, internato militare originario di Alessandria, deportato in seguito al rifiuto di lavorare per i tedeschi nel campo di lavoro di Fallingbostel e successivamente trasferito a Dora.
25 Ivi: 142. Testimonianza di Varinio Galante, deportato a Buchenwald il 3 agosto 1944 con il fratello gemello Evandro, entrambi muratori e staffette partigiane.
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Ai prigionieri vengono sottratti tutti gli averi, compresi i vestiti che indossano e naturalmente denaro e gioielli. È un’operazione che certamente arricchisce le SS, ma che possiede anche un forte valore simbolico: gli oggetti del passato non servono più, quello che i deportati sono stati fino a un attimo prima non conta più, ora sono degli stücke, “pezzi”, ingranaggi di un meccanismo di annientamento e morte.
Allora son venuti lì e: «se avete dell’oro, dei gioielli… dateli a noialtri. Noialtri li teniamo e quando uscite poi fuori, ve li rendiamo di nuovo. Altrimenti i tedeschi vi portano via tutto». Io non avevo niente, non gli ho dato niente26.
I prigionieri scoprono così che il viaggio nei vagoni bestiame è solo il primo passo del processo di deumanizzazione27 che i nazisti operano nei loro confronti. Le baracche in cui sono costretti a dormire, il cibo che viene dato loro, le urla e le bastonate sono trattamenti riservati alle bestie; il modo in cui vengono eliminati è da animali. La situazione prende forma di parole; il lessico lascia trasparire in tutta la drammaticità questa situazione:
Periodicamente viene il Kapo fra noi, e chiama: - Wer hat noch zu fressen?
Questo non già per derisione o per scherno, ma perché realmente questo nostro mangiare in piedi, furiosamente, scottandoci la bocca e la gola, senza il tempo di respirare, è «fressen», il mangiare delle bestie, e non certo «essen», il mangiare degli uomini, seduti davanti a un tavolo, religiosamente. «Fressen» è il vocabolo proprio, quello comunemente usato fra noi28.
Ma ciò che più di tutto priva gli internati di un’identità è il numero di matricola che cancella e sostituisce il nome di persona e che, ad Auschwitz, diviene un marchio indelebile sul braccio sinistro:
Häftling29: ho imparato che io sono uno Häftling. Il mio nome è 174 517; siamo stati battezzati, porteremo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro. […] Solo molto più tardi. E a poco a poco, alcuni di noi hanno poi imparato qualcosa della funerea scienza dei numeri di Auschwitz, in cui si compendiano le tappe della distruzione dell’ebraismo d’Europa. Ai vecchi del campo, il numero dice tutto: l’epoca di ingresso al campo, il convoglio di cui si faceva parte, e di conseguenza la nazionalità. Ognuno tratterà con rispetto i numeri dal 30 000 all’80 000: non sono più che qualche centinaio, e contrassegnano i pochi superstiti dei ghetti polacchi. Conviene aprire bene gli occhi quando si entra in relazioni commerciali con un 116 000 o 117 000: sono ridotti ormai a una quarantina, ma si tratta dei greci di Salonicco, non bisogna lasciarsi mettere nel sacco. Quanto ai numeri grossi, essi comportano una nota di essenziale comicità, come avviene per i termini «matricola» o «coscritto» nella vita normale: […] lo puoi mandare dal più feroce dei Kapos, a chiedergli (è successo a me!) se è vero che il suo è il Kartoffelschälkommando, il Komando Pelatura Patate, e se è possibile esservi arruolati30.
26 Ivi: 145. Testimonianza di Guido Giubergia, operaio partigiano del cuneese, deportato a Mauthausen il 4 febbraio 1945.
27 Sul concetto di deumanizzazione si veda Volpato C. (2011), Deumanizzazione. Come si legittima la violenza, Editori Laterza, Bari.
28 Primo Levi, 2014: 71.
29 ‘Prigioniero’.
30 Ivi: 20.
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Alla «funerea scienza dei numeri» si accompagna il simbolo: un triangolo di stoffa, cucito ben in vista sulla casacca, il cui colore indica le ragioni dell’internamento; per i non tedeschi, è marcata l’iniziale del paese di provenienza. “Triangoli rossi” sono definiti, nel gergo del lager, i deportati per motivi politici; verde è il colore del triangolo che portano gli accusati di reati comuni, viola i testimoni di Geova, marrone gli zingari, rosa gli omosessuali, nero le lesbiche; giallo è il colore del triangolo che contraddistingue gli ebrei31.
Anche questa simbologia rappresenta un linguaggio che, se correttamente interpretato, permette ai nazisti, ma anche ai deportati stessi, di comprendere chi hanno di fronte, senza dover interagire o porre domande.
L’assoluta distruzione della personalità e della dignità dei deportati passa anche attraverso gli insulti e le parole offensive che vengono loro quotidianamente rivolti dal personale del campo.
La maggior parte degli insulti era formata da parole composte con Dreck (‘sterco, fango’), Scheiße (‘merda’), Arsch (‘deretano’), Hund (‘cane’), Schwein (‘porco’) e Sau (‘scrofa’) che diventano prefissoidi che esprimono profondo spregio. […]
Tra gli appellativi spregiativi più frequenti: Dreckjude (‘ebreo merdoso’), Drecksack (‘sacco di merda’) […] Scheißmensch (‘uomo di merda, fifone’), Hosenscheißer (‘cagone nei pantaloni’ i detenuti soffrivano spesso di dissenteria) […] Schweinhund (canaglia, porco). […]
Per le donne venivano soprattutto usati insulti come alte Quatschdose (‘vecchia pettegola’), alte Hure (‘vecchia puttana’), dumme Gans (‘stupida oca’), alte Hexe (‘vecchia strega’)32.
Un’espressione costantemente ripetuta dal personale di sorveglianza, ma anche dagli stessi detenuti, è durch den Kamin gehen/fliegen (‘tu passerai per il camino’), a ribadire che quella che è l’unica via d’uscita possibile dal lager. Locuzione ricorrente è anche morgen frü (‘domani mattina’) usata però con il significato di ‘mai’. Un’altra parola condivisa nel lessico di oppressori e oppressi è Krematorium che, in una sorta di humor nero, viene ripetuta ai deportati che starnutiscono o emettono un colpo di tosse33.
Alla violenza verbale si accompagna, com’è noto, quella fisica. Le punizioni, terribili ed esemplari, non sono più state dimenticate dai sopravvissuti ai campi nazisti. Da un certo punto di vista, anche la violenza finisce con l’essere una vera e propria forma di comunicazione che gli aguzzini utilizzano perché risulta molto più efficace e potente delle parole. Proprio per questo, le tremende punizioni e le esecuzioni avvengono spesso sotto gli occhi di tutti, nella piazza centrale del campo, così che ogni internato capisca cosa si deve o non si deve fare, senza bisogno di ulteriori spiegazioni verbali. Ne è testimone Primo Levi:
Tutti i Kapos picchiavano: questo faceva parte ovvia delle loro mansioni, era il loro linguaggio, più o meno accettato; era del resto l’unico linguaggio che in quella perpetua Babele potesse veramente essere inteso da tutti. Nelle sue varie sfumature veniva inteso come incitamento al lavoro, come
31 Al contrario di quello che si potrebbe pensare, nei lager il triangolo giallo era ben più diffuso della Stella di David, come si ritrova in numerose testimonianze di superstiti ebrei e non solo.
32 Chiapponi, 2004: 65-66.
33 Massariello Merzagora, 2017: 135.
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ammonizione o punizione, e nella gerarchia delle punizioni stava agli ultimi posti34.
Le «varie sfumature» del linguaggio della violenza ricorrono in numerosissime testimonianze:
Arrivati a Hersbruck c’era uno sloveno che forse era arrivato poche ore prima di noi, non sapeva niente come noi; e il capo della camerata, in tedesco, ha detto tutto quello che era proibito fare. Fortunatamente avevamo con noi un ragazzo altoatesino che sapeva il tedesco, e come questo qui diceva le cose lui ce le spiegava, no? E noi italiani avevamo capito. Fra le altre cose aveva detto che era proibito uscire dalla baracca di notte, che era proibito sporcare la baracca, che era proibito farsela addosso. Nella notte sorprendono questo sloveno che stava orinando… contro la baracca, si vede che non ce la faceva più. E allora lo Stubemann accende tutte le luci, chiama tutti a raccolta, lo lega a uno sgabello e comincia a somministrargli le venticinque legnate. E questo doveva contarle e non sapeva. Così arriva a trenta, trentacinque – e noi vediamo che sta per ucciderlo – e allora cominciamo a spingere questo ragazzo altoatesino: «dato che un altro prigioniero può contare per lui, contale tu!». Questo altoatesino non voleva andare, perché lui non ce l’aveva tradotto che andando a contare avrebbe dovuto a sua volta sottoporsi alle venticinque legnate… Alla fine va, comincia a contare da capo fino a venticinque, tirano giù ‘sto sloveno cadavere e mettono sotto lui: dopo tre giorni era morto anche lui.
Ha capito qual era il dramma? L’impulso di umanità: certe volte tu credevi di far qualcosa di buono e invece uccidevi tuo fratello, il tuo migliore amico, il tuo compagno35.
Un giorno io non ho ascoltato, sono andata vicino ai bidoni dell’immondizia: quelle pelli di patata le ho appena viste! Non sono nemmeno riuscita a toccarle, mi hanno beccata subito, e lì… venticinque frustate!
E allora ho detto: «non devo gridare, non devo darle questa soddisfazione». L’ho proprio voluto, proprio dentro di me; sono stata forte e non ho gridato. Avevo questo labbro gonfio a forza di morderlo, ma ce l’ho fatta. Quando hanno finito – loro le punizioni le facevano sempre davanti a tutti, in modo che tutti vedessero che loro.... castigavano – […] l’unica che ha avuto il coraggio di avvicinarsi e parlarmi è stata una francese […] e mi ha detto che ero stata très jolie, che avevo dimostrato di essere una vera maquis, una vera partigiana, perché non avevo gridato36.
Ho assistito ad impiccagioni di prigionieri che avevano rotto il manico della pala o del piccone e ritenuti sabotatori. Sono stati lasciati morti per tre giorni legati ai pali perché se ne prendesse esempio37.
34 Bravo, Jalla, 1987: 56. Testimonianza di Primo Levi.
35 Ivi: 274-275. Testimonianza di Angelo Travaglia, originario del padovano, di famiglia antifascista, partigiano, arrestato e condotto nel carcere di Udine e da lì a Flossenbürg alla fine del 1944.
36 Ivi: 216. Testimonianza di Anna Cherchi, partigiana torinese, arrestata e deportata a Ravensbrück il 27 giugno 1944.
37ANED, 1991. Testimonianza di Bonifacio Ravasio, nato il 24 maggio 1927 ad Alzano Lombardo (Bergamo), di famiglia antifascista, viene arrestato il 10 luglio 1944 a Tarcento (Udine), trasferito nelle carceri di Udine e da lì deportato a Buchenwald, dove giunge il 3 agosto 1944, a bordo di un trasporto partito da Trieste il 31 luglio.
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Ci si capiva, non c’era mica bisogno di interpreti. L’interprete era il bastone38.
A tale proposito, è significativo ricordare che nel lager di Mauthausen il manganello usato dal personale del campo viene chiamato dolmetscher, che in tedesco significa letteralmente ‘interprete’. Anche Venanzio Gibillini39, superstite di Flossenbürg, afferma: «La lingua del campo era il gummin»40.
Il sabotaggio è uno dei reati più gravi agli occhi dei nazisti. Chiunque rompa o manometta un oggetto appartenente al Reich viene accusato di essere sabotatore e finisce impiccato. Il sabotaggio, tuttavia, soprattutto all’interno della produzione delle fabbriche tedesche, resta il gesto di resistenza più organizzato dai deportati, al fine di danneggiare la produzione bellica a cui sono costretti a lavorare per favorire la Germania nazista all’interno del conflitto mondiale:
Dove lavoravo io era una fabbrica che era stata bombardata da poco, quando pioveva, pioveva dentro. […] C’era una grossa macchina, alta, che metteva i chiodi dentro le ali degli Stuckas, e questi chiodi entravano a pressione, uno dentro l’altro, e la macchina li schiacciava. Fuori c’era un bel biglietto: «Achtung Sabotage»41.
Io ho cercato di farmi un cucchiaio, con dei ritagli di alluminio che ho trovato nella baracca di lavoro. E quando te lo trovavano rischiavi di farti spaccare la faccia perché era Sabotage, era un sabotaggio alla Germania. Se tu prendevi un pezzo di ritaglio bisognava cercare di nasconderlo42.
3. IL LINGUAGGIO DEGLI OPPRESSI: LUOGHI E GERARCHIA DELL’INFERNO
Gli scambi comunicativi fra deportati avvengono in condizioni precarie: durante l’appello «ci si mette per tre e allora si può tentare di scambiare qualche parola attraverso l’acciottolio delle diecimila paia di zoccoli di legno»43; altri scambi di parola avvengono alla latrina, al lavatoio, quasi costantemente in situazioni di marcia fianco a fianco, talvolta la sera nelle baracche.
Con il numero di matricola, che bisogna imparare immediatamente in tedesco per poter rispondere all’appello e in tutte le altre circostanze, i primi termini che si imprimono nella memoria dei deportati riguardano i luoghi del lager, una geografia nuova con la quale è necessario prendere confidenza. Si comincia dalla baracca della quarantena, luogo in cui le autorità del campo obbligano i deportati appena arrivati a trascorrere il primo periodo
38 Ivi: 186. Testimonianza di Otello Vecchio, operaio di Novara, partigiano, mandato a Bolzano e poi deportato a Dachau.
39 Nato a Milano il 28 novembre 1924, viene arrestato il 4 luglio 1944 mentre lavora al deposito locomotive di Milano Greco e portato nelle carceri di San Vittore. Il 17 agosto 1944 viene deportato da San Vittore al campo di Bolzano e da lì, il 5 settembre, nel campo di Flossenbürg. Il 7 ottobre 1944 viene trasferito a Kottern, sottocampo di Dachau.
40 Intervista realizzata da me realizzata a Venanzio Gibillini il 31 maggio 2018. A conferma dell’importanza dell’influsso dialettale sulla comunicazione nel lager, si noti che Gibillini cita in milanese il ‘gommino’, il manganello di gomma con all’interno il filo di ferro intrecciato.
41 Ivi: 210. Testimonianza di Maria Tomaghelli Ravera, torinese, arrestata, mandata a Bolzano e da lì deportata a Ravensbrück.
42 Ivi: 226. Testimonianza di Vittorio Calosso, operaio di origini astigiane, arrestato per aver partecipato agli scioperi del marzo 1944 alla Fiat di Torino. Viene rinchiuso nella caserma Umberto I di Bergamo, da dove è deportato a Mauthausen il 20 marzo 1944.
43 Primo Levi, 2014: 129.
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della loro prigionia, con lo scopo di effettuare i controlli contro le malattie infettive, in particolare il tifo, ma anche con il preciso obiettivo di abituare in fretta i prigionieri al campo e alle sue dure regole, che non fanno eccezione per nessuno.
Durante i primi giorni di permanenza nel lager, fondamentale è l’aiuto da parte dei prigionieri più “anziani”, che sopportano e conoscono la vita nel campo da più tempo. Alcuni approfittano dell’ingenuità dei nuovi arrivati per raggirarli e guadagnarsi qualcosa in più per sopravvivere; altri, invece, provano con sincera disponibilità a dare consigli che certamente non garantiscono la salvezza, ma costituiscono indicazioni importanti per capire come comportarsi ed evitare errori che possano rivelarsi irreparabili:
Io mi ricordo che il secondo giorno di quarantena, appena arrivato, ci avevano dato la zuppa e un deportato italiano che era arrivato un mese prima di noi, per carpirci la zuppa ha detto: «senti che puzza: è il crematorio. Qui stanno bruciando…». Io non ho più mangiato, non sono più riuscito e lui si è preso la mia gamella44.
Un giorno incontrai un uomo, malandato, anziano, molto… molto tirato. Si mise a parlare italiano o torinese – non so più – anche lui era di Torino e era un primario del Mauriziano, un ebreo. E disse: «mangia tutto quello che trovi, tutto quello che ti danno! Butta giù tutto perché il tuo stomaco deve sempre rimurginare45. Pensa alle mucche». Io mi misi a ridere: «ma come, le mucche rimurginano?», che ne sapevo… «Ma sì, le mucche hanno sempre lo stomaco pieno e lo fanno viaggiare. Masticano sempre».
Io sapevo conoscere le erbe […] Così, conoscendole, quando trovavo qualcosa prendevo46.
Una che era lì nella baracca mi viene vicino e mi dice: «sei giovane, sei appena arrivata, sei ancora nel pieno delle tue forze fisiche. Tieniti queste forze per l’avvenire, che ti serviranno». E io che erano ventiquattro o quarantotto ore che sentivo solo parlare in tedesco e non capivo un’acca di quello che dicevano, sentire una voce, una lingua che capivo… mi si è allargato il cuore47.
Uno dei luoghi del campo più menzionato nelle testimonianze dei sopravvissuti è il Revier, l’infermeria, noto per essere un posto dal quale raramente si fa ritorno.
Bisognava mai dire: «vado in infermeria». Perché l’infermeria era la morte. Chi entrava in infermeria non usciva più48.
Qualunque cosa ti capiti, cerca solo di non andare mai al Revier» «che cos’è il Revier?» «il Revier è l’infermeria; anche con la febbre a quaranta, vai a lavorare, ma non andare all’infermeria. Quello è il pericolo numero uno»49.
Un aspetto significativo della lingua utilizzata dagli oppressori nazisti per designare i luoghi del campo, ma anche le pratiche più efferate come le operazioni di annientamento di massa, è il frequente ricorso a eufemismi. Essi hanno lo scopo evidente di nascondere
44 Ivi: 149. Testimonianza di Enzo Comazzi, geometra veronese, partigiano dopo l’8 settembre, viene arrestato mentre è di passaggio a Torino e deportato a Mauthausen il 18 febbraio 1944.
45 Intende ‘ruminare’.
46 Ivi: 227-228. Testimonianza di Ignazio Depaoli, operaio di Verbania, renitente alla leva dopo l’8 settembre, deportato a Dora nell’ottobre del 1943.
47 Ivi: 149. Testimonianza di Anna Cherchi.
48 Ivi: 163. Testimonianza di Giovanni Bodrito, socialista astigiano, partigiano, trasferito nel campo di Bolzano e poi nel Lager di München.
49 Ivi: 149. Testimonianza di Anna Cherchi.
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l’atroce realtà dei campi di concentramento e di sterminio. La deportazione nel lager diviene così Schutzhaft, ‘arresto preventivo’; le uccisioni di massa diventano Endlösung, ‘soluzione finale’; la baracca in cui vengono effettuati gli esperimenti scientifici su prigionieri ridotti a cavie è chiamata Versuchsstation, ‘stazione sperimentale’; le camere a gas sono definite Dusche, Duschraum o Duschkammer (‘locale della doccia’), Brause (‘doccia’)50; i forni crematori sono chiamati Bäckerei (‘panificio’), Abfahrthalle (‘atrio delle partenze’), Kamin (‘camino’), Ofen (‘stufa’). Ad Auschwitz-Birkenau la definizione ufficiale delle camere a gas e dei forni crematori è Feuerstelle (‘focolare’)51. Questo lessico viene acquisito anche dagli internati:
A Birkenau per esempio, la baracca riservata ai condannati a morte era chiamata Himmelfahrtblock: la baracca per la salita al cielo. Himmelfarth: Himmel-cielo, fahrt-viaggio. Un kommando di SS che eseguiva le esecuzioni era chiamato Himmelfahrtkommando. Noi a Gusen avevamo la baracca di quelli che dovevano finire al crematorio, la chiamavano la Bahnhof, la stazione52.
Nel caos e nella disperazione assoluta del lager, i deportati imparano sulla loro pelle a riconoscere la gerarchia, a distinguere coloro che comandano ed esercitano su di loro potere di vita o di morte, ma anche chi fra i compagni di prigionia è riuscito a guadagnarsi una posizione di privilegio e di rispetto, grazie alla quale riesce anche ad organizzare53 qualcosa.
La gerarchia del campo era divisa in due parti. Quella esterna, che era la Kommandantur delle SS, e quella interna dei blocchi e dei Kommando di lavoro, che veniva di fatto esercitata dai detenuti: tutte le funzioni, cominciando dalla polizia interna del campo. La gerarchia dei detenuti era indicata per anzianità, ma l’anzianità non contava niente, era soltanto una definizione. Il Lagerältester era il comandante detenuto del campo, il responsabile del campo nei confronti delle SS: con poteri illimitati, assolutamente libero di trattarci a sua discrezione assoluta. E poi venivan tutti: a fianco del Lagerältester c’era per esempio lo Schreiber, cioè il segretario.
Al di sotto di loro c’erano due diverse comande: quella interna del campo e quella di lavoro. La prima riguardava i Block, le baracche, che erano divise in due parti: due Stube. Le baracche contenevano mediamente cinquecento uomini, con un Blockältester che era al comando di tutte e due le Stube, due Stubenältester, un Blockschreiber, che era il segretario del blocco, e poi gli addetti ai servizi della baracca, gli Stubendienste. Poi c’erano i Kommando del lavoro. Non c’erano gli Altester lì, c’erano i Kapo, che era la parte più terribile, perché dovevano far rendere questa popolazione di derelitti che eravamo noi deportati, e usavano le più bestiali prepotenze e violenze54.
Penso che a fare la spia fossero soprattutto i Blockältester – in italiano vuol dire i più vecchi del blocco, ma era il nome di quelli che comandavano, i capiblocco – perché erano quelli che riferivano anche la mattina alle SS, quando si faceva l’appello. Loro non erano nella fila, erano davanti, e
50 Chiapponi, 2004: 72.
51 Ivi: 73.
52 Ivi: 185-186. Testimonianza di Francesco Albertini, avvocato di Novara, entra in contatto con gli ambienti antifascisti mentre studia all’università di Torino, arrestato e deportato a Mauthausen il 20 febbraio 1944, in seguito trasferito a Gusen.
53 Nella lingua del lager è sinonimo di ‘rubare al sistema’.
54 Ivi: 156-157. Testimonianza di Francesco Albertini.
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andavano a confabulare con le SS. La differenza e i vantaggi che avevano i Blockältester e il Lagerältester, il comandante, erano talmente evidenti…55
Negli uffici c’erano dei polacchi, i primi che erano stati invasi, ne erano rimasti un piccolo numero. E quelli che erano intellettuali li avevano messi negli uffici delle SS, e avevano un trattamento migliore, erano i prominenter56, come li chiamavano; […] Erano proprio un nucleo, erano gli amministratori del campo, insomma. E questi qui, tutte le volte che arrivavano queste schede nostre dove c’era scritto: «individuo di cui non si desidera il ritorno», guardavano se c’erano degli intellettuali come loro, e venivo a cercarli nel campo, a parlare… […] E infatti uno m’è venuto a cercare, devo a lui la salvezza, proprio a un polacco57.
Le anziane del campo erano quelle che detenevano tutte le leve del potere all’interno della società concentrazionaria. Erano Blockove58, erano Stubove59, lavoravano in cucina, lavoravano alle docce, lavoravano nei magazzini, lavoravano all’ospedale, lavoravano negli uffici. Erano nei posti migliori, nei posti chiave60.
L’ultimo gradino di questa scala gerarchica è occupato dagli ebrei. Appena sopra di essi, tuttavia, si collocano i deportati politici russi e italiani; questi ultimi sono considerati traditori dai tedeschi, ma anche dagli altri internati, che si rivolgono a loro chiamandoli “Mussolini”, con evidente intento denigratorio.
Quando volevano divertirsi, le SS e i kapo chiamavano: «Alle Italiener und alle Juden raus!»: tutti gli italiani e gli ebrei fuori! E cominciavano a calci, randellate, si divertivano così. Quando volevano divertirsi diversamente, di notte per esempio, chiamavano di nuovo tutti gli italiani fuori: «Rosamunda singen!» - volevano che cantassimo «Rosamunda». Cantare Rosamunda non era niente, ma con trenta quaranta gradi sotto zero ci facevano uscire sotto la neve di notte, con la tormenta di neve. Loro ubriachi di cognac e birra e di ogni ben di dio, avevano il calore che sprizzava da tutti i pori; e noi invece che non stavamo in piedi dal freddo, e bisognava saltare in continuazione e cantare Rosamunda per loro!61
Eravamo le più… diciamo le più malviste! Malviste da tutti. Cercavamo di farci capire… a segni! Non so, magari un disegno nella sabbia, la domenica. E allora dicevamo: «ma se io ho questa condanna come hai te, è perché siamo tutti uguali, no?». Niente, neanche le francesi capivano62.
55 Ibidem. Testimonianza di Elemer Gyarmati, ungherese immigrato in Italia per studiare medicina, di religione cattolica ma figlio di padre ebreo, deportato ad Auschwitz per motivi razziali nell’agosto del 1944.
56 Letteralmente ‘notabili’: i prigionieri appartenenti alla gerarchia del campo e in posizione di privilegio.
57 Ivi: 189. Testimonianza di Terenzio Magliano, assistente universitario, ufficiale di complemento nei paracadutisti, partecipa alla formazione dei primi gruppi delle brigate partigiane Matteotti. Arrestato, viene deportato a Mauthausen il 21 febbraio 1944 e poi trasferito a Gusen I e Gusen II.
58 ‘Responsabili del Block’.
59 ‘Responsabili della Stube’.
60 Ibidem. Testimonianza di Lidia Beccaria Rolfi, maestra elementare della provincia di Cuneo, staffetta partigiana, deportata a Ravensbrück il 26 giugno 1944.
61 Ivi: 171-172. Testimonianza di Angelo Travaglia, originario del padovano, di famiglia antifascista, partigiano, arrestato e condotto nel carcere di Udine e da lì a Flossenbürg alla fine del 1944.
62 Ivi: 187. Testimonianza di Beatrice Mattiotto e Giuseppa Doleati, staffette partigiane, entrambe arrestate il 23 marzo 1944 e deportate a Ravensbrück il 26 giugno 1944.
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Poi un mattino di domenica, mentre siamo all’appello, succede un episodio che dovrà modificare completamente i miei rapporti con Monique e con le sue compagne. Alle mie spalle, all’appello, ci sono Genia e Monique, inseparabili. Genia fischietta Bandiera rossa, io la imito e canticchio la canzone in italiano. Mi tocca sulla spalla e mi chiede se sono comunista. La domanda mi lascia perplessa; nonostante tutto è una bande rouge, la conosco appena e non capisco bene perché mi faccia una domanda così precisa. […] Preferisco tenermi sulle generali: rispondo che l’ho imparata in montagna, quando ero ancora con le formazioni partigiane. Immediatamente Genia e Monique si sgelano, cambiano atteggiamento, mi interrogano, si informano, vogliono sapere. Sono arrivate a Ravensbrück all’inizio del ’44, ma erano già in carcere in Francia e sono poco informate su quello che è avvenuto in Italia dopo l’8 settembre. Chiacchieriamo all’appello, poi mi invitano nel loro letto per continuare a parlare. Monique […] mi presenta ad altre compagne, mi presenta come una resistente italiana e loro mi fanno festa, non finiscono d’interrogarmi, mentre io non riesco a capire bene questo nuovo comportamento nei miei confronti […] non mi considerano più un elemento estraneo63.
Noi ebrei italiani ci sentivamo particolarmente indifesi. Noi e i greci eravamo gli ultimi fra gli ultimi; direi ancora peggio noi dei greci, perché i greci erano in buona parte gente allenata a una discriminazione […] Ma gli italiani, gli ebrei italiani, così abituati a essere considerati alla pari con tutti gli altri, erano veramente senza corazza, nudi come un uovo senza guscio64.
3.1. Il lavoro, la prima parola
Arbeit, lavoro, è una delle prime parole della lingua tedesca che i deportati sono obbligati a imparare65.
Come si evince da questa testimonianza della partigiana piemontese Lidia Beccaria Rolfi, i deportati cominciano ben presto a comprendere anche i termini inerenti al lavoro, ovvero il perno attorno a cui ruota la giornata dei prigionieri all’interno del campo. Secondo la concezione con cui vengono aperti i primi lager, si doveva trattare soltanto di impieghi temporanei con il solo scopo di sfinire ed eliminare i prigionieri; con l’avanzare della guerra, però, la manodopera degli internati viene massicciamente impiegata nelle industrie belliche tedesche, oppure all’interno del lager per il mantenimento e l’ampliamento dello stesso. La fatica insopportabile del lavoro forzato è resa ancora più insostenibile dalla terribile disciplina e dai ritmi stabiliti dalle guardie.
Arrivando a Mauthausen, hanno chiesto la professione e la gente che aveva lavorato in officina l’han messa a lavorare in officina. Quelli che invece erano professionisti o artigiani e via di seguito, li han messi a lavorare a picco e pala, a fare gallerie. Un po’ stavano in galleria, poi portavano fuori questo materiale, questi detriti. […] e c’era una grande galleria e poi tutte deviazioni che si chiamavano Stollen, dove c’erano questi reparti e il macchinario. […] E io
63 Beccaria Rolfi, Bruzzone, 1978: 92-93. Testimonianza di Lidia Beccaria Rolfi.
64 Bravo, Jalla, 1987: 190-191. Testimonianza di Primo Levi.
65 Beccaria Rolfi, Bruzzone, 1978: 70. Testimonianza di Lidia Beccaria Rolfi.
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lavoravo lì, a questa Stollen 11, reparto DA4 e facevamo i portelloni che vanno sotto la fusoliera degli aerei66.
Quando m’han chiesto il mestiere: «tornitore – ho detto – faccio il tornitore». E a quei quattro o cinque che erano lì vicino a me gliel’ho detto: «dite anche voi così, poi non preoccupatevi, vi aiuto poi io dentro». Allora questi qua della fabbrica han detto: «sì sì, questi li prendiamo noi». E tutte le mattine venivano a prenderci, era una fila lunga perché ne avevano un mucchio di prigionieri che lavoravano dentro a questa fabbrica…67
Dichiararsi intellettuale era la peggiore delle soluzioni. Per esempio, mi ricordo quello che adesso è presidente dell’associazione dei deportati68, lui è arrivato a Mauthausen in agosto del 1944, è arrivato a Gusen, e entrando nel blocco il bandito che distribuiva la razione di zuppa gli chiede – chiedeva a questi nuovi -: «professione, Beruf?», e lui dice: «Advokat». Pac! Gli ha dato una mestolata sul muso che lo ha fatto sanguinare per parecchio tempo69.
Bisognava adottare il sistema del nix Arbeit, viel Gucken70, che poi detto in termini molto semplici credo volesse dire: non lavorare, ma osserva molto, salvati molto da quelli… che sono i rischi e le fatiche. Questa è la vita che credo abbiamo fatto un po’ tutti71.
3.2. Parole di solidarietà e di speranza fra compagni di deportazione
Le giornate si susseguivano monotone: sveglia, appello, lavoro, nuovo appello e finalmente il momento più atteso della giornata al termine della frugale cena: un’ora prima della notte per poter stare tra di noi, tempo quasi tutto trascorso a ricordare «l’altra» vita, quella vera prima della deportazione. Non erano discorsi dominati dalla malinconia, erano i racconti della vita di prima, che ci davano la forza per vivere un altro minuto, un’altra ora, un altro giorno72.
66 Bravo, Jalla, 1987: 164. Testimonianza di Guido Argenta, macchinista astigiano, comandante partigiano, inviato a Mauthausen il 7 gennaio 1945.
67 Ivi: 164-165. Testimonianza di Salvatore Cosi, originario del leccese, immigrato a Torino con la famiglia, rifiuta di arruolarsi nella repubblica sociale e viene internato nella Risiera di San Sabba e da lì inviato a Dachau.
68 Gianfranco Maris, Presidente dell’ANED, Associazione Nazionale Ex Deportati nei campi nazisti, dal 1978 al 2015.
69 Ibidem.
70 ‘Non lavorare, guarda molto’.
71 Ivi: 255. Testimonianza di Italo Tibaldi, studente di Pinerolo, partigiano in Val Maira, deportato a Mauthausen il 12 gennaio 1944, poi trasferito a Ebensee.
72 Martini, 2007: 45. Testimonianza di Marcello Martini, partigiano, arrestato nel giugno 1944 a Montemurlo (Prato), trasferito nel campo di Fossoli e deportato a Mauthausen dove giunge il 24 giugno. Questa testimonianza, e più in generale tutte le riflessioni contenute in questo sotto capitolo sulla comunicazione fra i deportati, mi permette di fare un richiamo diretto all’ultimo saggio dell’autore Rocco Marzulli, nel quale si afferma che la lingua dei deportati avrebbe subito una «ulteriore riduzione del vocabolario dovuta all’omissione di determinati argomenti nei propri discorsi.» (Marzulli, 2019: 52) Tale riduzione del vocabolario sarebbe dovuta al fatto che «i prigionieri si adoperano per creare un meccanismo di autodifesa tacendo della nostalgia per i propri cari, della fame, della stanchezza, del freddo, della morte dei compagni» (Marzulli, 2019: 53). L’argomento meriterebbe sicuramente uno studio più approfondito, ma già le considerazioni avanzate in queste pagine mi permettono di non essere del tutto d’accordo con quanto scritto da Marzulli. Per quanto i deportati cerchino di non fare entrare la loro vita precedente nel lager, essa continua a fare irruzione nei ricordi e a essere il principale oggetto delle loro conversazioni. Il cibo, la propria casa, la propria famiglia, la propria professione sono sì motivo di nostalgia e di ulteriore sofferenza, ma sono soprattutto fonte di consolazione: il solo parlarne permette di condividere con gli altri il desiderio di
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Oltre agli ordini, alle minacce e agli insulti degli oppressori nazisti, esiste una comunicazione vera e propria che si realizza fra i deportati attraverso i modi più diversi. Riuscire a parlare è vitale perché permette di condividere la sofferenza; avere la sensazione di essere capiti aiuta inoltre a combattere la disperazione e l’abbandono. Scambiare qualche parola diviene allora una necessità, che porta a superare qualsiasi barriera linguistica, mescolando termini appartenenti a lingue diverse e utilizzando una lingua che i deportati stessi riconoscono come propria del lager, inesistente al di fuori di esso.
– Senta, come facevate a parlare tra di voi?
Ma guardi, quando uno ha fame si capisce subito, e quando ha sete anche. Cioè per noi era «pane», per il russo era klieba, insomma non era difficile. Lì il problema era quello della fame e della sete, delle privazioni, il freddo… è una lingua questa che la capiscono tutti. E poi che discorsi voleva fare? Di cosa voleva parlare? Anche indipendentemente dalla lingua. Anche tra di noi, tra italiani: ci si guardava, ci dicevamo: «seurtiroma fora da sì? »73.
Facevamo un po’ come i bambini, ci capivamo74.
C’era un linguaggio nostro, proprio un linguaggio specifico; che si chiamava Deutschlager, tedesco del Lager. Per esempio, è difficile che lei trovasse un italiano che dicesse gavetta, o il tedesco che dicesse Schüssel: era diventato patrimonio comune del campo il russo miski. E per dire svelto, anche le SS difficilmente dicevano schnell, dicevano jasde, jasde, in polacco75.
Mi ricordo sempre una cosa, che non ci chiamavamo per nome. Per esempio io di Torino, mi chiamavano Torino, quello di Milano lo chiamavano Milano, quello di Vercelli: ciao Vercelli, così…76
Noi in quella Stube lì, in quel blocco lì, eravamo solo tre italiane. Mi ricordo che una notte hanno fatto la rivista, è arrivato un tedesco, si vede che era un pezzo grosso: tutte alzate dal nostro giaciglio, tutte sull’attenti. È venuto lì, ha guardato, ha parlato con la capoblocco, quella là ha detto: «Drei Italienerinnen, venti polacche, quindici francesi, trenta tedesche…» ha detto tutto il numero che c’era, e lui: «Block international!». Un blocco internazionale!77
Per superare la diversità delle lingue parlate nel campo, gli internati cercano di ricorrere a linguaggi (veri e propri codici) comuni e facilmente comprensibili nonostante le differenze; il latino, per chi lo conosce e lo ha studiato, può rappresentare una soluzione valida:
fare ritorno e il bisogno umano di mantenere vivo in fondo all’animo un briciolo di quella speranza che aiuta a resistere.
73 Bravo, Jalla, 1987: 185. Testimonianza di Enzo Trabucchi, cameriere torinese arrestato a soli 16 anni per rappresaglia contro il padre, operaio comunista sfuggito alla cattura; deportato a Dachau il 2 giugno 1944. La testimonianza citata si conclude con una frase in dialetto piemontese che significa ‘Usciremo fuori di qui?’; alcuni italiani, infatti, deportati sullo stesso convoglio, riescono a restare uniti anche all’interno del campo oppure a entrare in contatto con altri prigionieri della loro zona, mantenendo non solo la possibilità di parlare l’italiano, ma addirittura il loro dialetto.
74 Testimonianza di Antonio Savoldelli, rilasciata durante un’intervista da me realizzata per la sezione di Bergamo dell’ANED. Savoldelli nasce a Clusone (Bergamo) il 31 luglio 1927, viene arrestato a Tarcento (Udine) il 10 luglio 1944 mentre lavora per l’Organizzazione Todt; trasferito nelle carceri di Udine, viene deportato a Buchenwald, dove giunge il 3 agosto 1944 a bordo di un trasporto partito da Trieste il 31 luglio.
75 Bravo, Jalla, 1987: 185-186. Testimonianza di Francesco Albertini.
76 Ibidem. Testimonianza di Ignazio Marchese, siciliano, vive con la famiglia a Torino, arrestato per aver collaborato con il movimento clandestino, viene deportato a Dachau i primi di agosto 1944.
77 Ivi: 187. Testimonianza di Maria Tomaghelli Ravera.
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A Dachau eravamo milletrecento preti in una baracca. Tutti, tutti sacerdoti. Lì la lingua ufficiale era il latino, si predicava in latino, si davano gli ordini in latino, alla sera un prete belga faceva la piccola meditazione religiosa in latino78.
Poi nel pomeriggio entrò un’altra ragazza. Era molto giovane e volevamo assolutamente comunicare. Lei doveva essere cecoslovacca, non avevamo lingua comune, quando finalmente venne in mente a tutte due che avevamo studiato un pochino di latino, io veramente pochissimo. Ma questo bastò perché ognuno potesse dire all’altra che la casa era bella, era lontana e bella, che la libertà era bella, che la famiglia era bella. Erano pochissime frasi, ma questa comunicazione fra due esseri umani fu veramente una cosa straordinaria. Fu un momento di altissima spiritualità reciproca. Eravamo due persone. Un’ora o due siamo state insieme, poi non ci siamo mai più incontrate nella vita… non so neanche se sia rimasta viva o sia morta lì. Una giornata indimenticabile79.
Unitamente al ricordo della vita precedente, l’argomento principale delle conversazioni è il cibo. I deportati ricordano le pietanze delle loro case, i piatti tipici delle loro zone e condividono con i compagni il desiderio di non soffrire più la fame e addirittura promettono di invitarsi l’uno a casa dell’altro per gustare le rispettive cucine, dopo la liberazione.
I nostri sogni notturni erano sempre di mangiare qualcosa di buono. Sempre sempre sempre. Era proprio un pensiero predominante. Lei pensi un giorno che a questa Anna – mi ricordo come adesso - le ho detto: «ma senti, dimmi la verità: tu cosa preferiresti, vedere i tuoi figli o mangiarti una bella pastasciutta?» «Ah – dice – mangiarmi una bella pastasciutta». Guardi lei, guardi a che punto! Sì sì, i nostri discorsi convergevano sempre sul mangiare. E sognavo sempre di mangiare80.
Si descrivevano anche ricette di cucina, ce le scambiavamo, a noi dava soddisfazione. Trascrivevamo le ricette polacche, russe – abbiamo un libretto con tutte queste ricette, quello lo abbiamo conservato – e ci preoccupavamo: «ma come facciamo a trovare la panna acida?», perché loro fanno tutto con la panna acida. […] Cose assurde, però si parlava di quello e ci dava una certa soddisfazione81.
Vede questo librettino? Io prendevo la carta da buttare, quella che non adoperavano più – perché se no guai! Se ci pescavano con questa roba secondo loro era sabotaggio. Questa io l’ho trovata proprio lì nei cestini di carta straccia […] e allora l’ho messa bene, l’ho cucita con dello spago, con qualche ago, mi son fatta questo quadernetto. E con le russe, le francesi, con chi si parlava, ognuna insegnava la sua ricetta… Ne ho scritte abbastanza, vede che ce ne sono parecchie, anche le marmellate ci sono!
- Ci sarà una cinquantina di ricette di tutti i paesi.
Ce ne sono, ce ne sono davvero! […] Oh, quante ce ne sono! di merluzzo, palline di carne… […] E poi m’ero fatta un piccolo dizionario di tutte le
78 Bravo, Jalla, 1987: 186. Testimonianza di don Angelo Dalmasso, sacerdote sostenitore della causa partigiana, arrestato a Cuneo, inviato al campo di Bolzano e deportato a Dachau nell’ottobre del 1944.
79 Pezzetti, 2015: 269. Testimonianza di Liliana Segre, nata a Milano il 10 settembre 1930, arrestata a Selvetta di Viggiù (Varese) l’8 dicembre 1943, detenuta a Como e Milano, viene deportata ad Auschwitz, dove giunge il 6 febbraio 1944, con un trasporto partito da Milano il 30 gennaio.
80 Bravo, Jalla, 1987: 211. Testimonianza di Natalia Tedeschi.
81 Ivi: 261. Maria Alessandra Pallavicino di Ceva, torinese, sostenitrice della causa partigiana, arrestata insieme alla sorella Maria Camilla, mandata a Fossoli e da lì deportata a Ravensbrück.
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lingue; quando erano libere, quando avevano voglia, prendevo la francese che mi insegnava, la slava, la russa… l’inglese no, ma c’erano francesi che sapevano l’inglese.
- E questo lo faceva la domenica?
Gli altri giorni non si poteva, solo la domenica. E poi a un certo punto ho dovuto piantare lì, perché ci spostavano, non avevamo più la possibilità di vederci, di parlarci…82
E si parlava abbastanza, di diverse cose, del mangiare a casa… Io ero con una milanese, al mattino mi diceva: «aah ragazza! Io mangerei due lumache alla parigina!». «Ma sono le quattro e mezza del mattino, ho sonno, lasciami dormire!» - dormivo in piedi… E magari poi si parlava di teatro – loro che erano più altolocate, diciamo, e anche un po’ più anziane. E si parlava di vestiti – che si era magari all’appello, a volte si poteva parlare. E la sera al rientro, lì nella baracca delle francesi, c’era il momento che si sorpassava la malinconia, il malumore, la nostalgia, si sorpassava tutto. Loro facevano delle festicciole, cantavano83.
Più di tutto parlavamo del mangiare. Mi ricordo che era il lunedì di Pasqua, eravamo fuori. Ci avevano dato quel pezzo di pane, eravamo lì a parlare. E dicevamo: «chissà, se riusciamo andare a casa chissà cosa mangeremo! Ci metteremo a mangiare una cosa, mangiare un’altra…». C’era uno qui di Torino, diceva: «ah, io quando sarò a casa mi farò fare da mia madre l’agnello!». Ci raccontavamo queste cose. Di politica non parlavamo nemmeno più, eravamo sfiduciati84.
In verità, in molti casi persiste, pur sotto traccia, la discussione sulla situazione politica, che continua a essere oggetto di dibattito soprattutto fra coloro che si trovano nel lager proprio per aver aderito ad una causa precisa. In alcune situazioni, nemmeno le atrocità della deportazione riescono a far venir meno la fiducia negli ideali di libertà, uguaglianza e solidarietà, e anzi è proprio il lager che rafforza in molti la convinzione di essersi schierati dalla parte giusta, ragione per cui è necessario continuare a lottare in nome dei principi della Resistenza:
Gli uomini politici erano straordinari, questi che avevano un passato politico, che cercavano proprio un modo di continuare la lotta antifascista in qualunque circostanza della loro vita, e quindi anche nel campo di concentramento. Allora succedeva un’aggregazione dei più giovani, di quelli che erano capitati lì come me, per una scelta tra fascismo e antifascismo, ma non per una scelta ideologica. E loro effettivamente impartivano lezioni anche di politica, secondo le loro idee. Certo non te le offrivano dietro una cattedra, te le offrivano purtroppo soltanto al gabinetto, perché non c’erano altri posti in cui tu potessi dialogare e allora mentre eri seduto su quella specie di formaggera con tanti buchi, uomini come Luigi Scala o Jacopo Lombardini, tanto per citarne due, facevano scuola. E quel fare scuola era darti un interesse per la vita85.
82 Ivi: 215. Testimonianza di Pierina Bianco Struzzi, nata a Susa, partigiana, arrestata con la sorella Natalina, deportata a Ravensbrück il 30 giugno 1944.
83 Ivi: 214-215. Testimonianza di Giuseppa Doleati.
84 Ivi: 228-229. Testimonianza di Felice Perosino, astigiano, operaio delle ferrovie, si unisce alla resistenza, arrestato, mandato a Bolzano, viene deportato a Mauthausen l’11 gennaio 1945.
85 Ivi: 194. Testimonianza di Raffaele (Ferruccio) Maruffi, disegnatore meccanico del torinese, partigiano in val di Lanzo; arrestato e rinchiuso nella caserma Umberto I di Bergamo, viene deportato a Mauthausen il 20 marzo 1944, poi trasferito a Gusen.
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Risale a questo periodo anche la mia prima formazione politica. Ascolto discussioni sul comunismo, su Marx e sul marxismo, sulla rivoluzione bolscevica, su Lenin e Rosa Luxemburg. Per me sono materia completamente nuova, perché di quegli argomenti non ho mai sentito un cenno né a scuola né fuori, nella mia città, e ben poco di essi ho compreso anche quando se ne parlava durante la Resistenza in montagna. […] Finalmente capisco cos’è il fascismo, il nazismo, e mi rendo conto chiaramente delle loro responsabilità. […] Discutiamo anche della Resistenza antinazista, dei tedeschi deportati nei campi, del perché Hitler ha costruito i campi di rieducazione per loro. È più difficile capire questi discorsi che imparare una lingua nuova. Devo imparare a capovolgere tutto quello che a scuola per dodici anni mi hanno insegnato e giudicare avvenimenti, guerre, ideologie in una luce nuova, confrontando criticamente quello che sapevo e mi avevano inculcato a forza nella testa con quello che mi dicono ora e che vedo ed esperimento sulla mia pelle. Discutiamo anche sul comportamento delle politiche in campo86.
Indimenticabili sono soprattutto i compagni capaci di spendere una parola buona, di consolare e infondere fiducia, rinvigorendo la speranza di sopravvivere e di tornare a casa. La solidarietà e il sostegno reciproco, in un contesto come quello concentrazionario, hanno un valore straordinario, perché dimostrano che i deportati riescono a mantenere un senso di umanità, che non fa loro perdere la dignità.
La mia amica Beltrando Lucia87, che purtroppo non c’è più, era quella che si toglieva il pane dalla bocca tante volte, per darmelo perché… sapeva che io ero più giovane, che avevo fame. […] lei andava a prendere un po’ d’acqua con la gamella e poi mi diceva: «bagnalo dentro l’acqua, si ammorbidisce, così riesci di mandarlo giù». Ma io non ce la facevo, ero proprio disperata, c’erano dei momenti che proprio mi perdevo. Tanto che un giorno ha reagito e mi ha preso a schiaffi: «ma basta, è ora di finirla! Non vedi in questo modo la fine che fai; fai la fine di questa, fai la fine di quella, che sono là all’infermeria e non usciranno più. E poi tu vuoi tornare a casa! Ma insomma…» Quello mi ha scossa, mi ha riportata alla realtà, è stato positivo88.
Delle volte parlavamo: «se torniamo, quando torniamo a casa, cosa si farà?». Magari c’era quella più spiritosa che leggeva la mano dell’altra, leggeva l’avvenire: tanto per incoraggiarsi, anche se diceva delle cose che non erano vere. […] tutto questo ci dava sollievo, ci dava speranza89.
E la stufetta90… la stufetta mica l’abbiamo inventata noi, ma era un atto di solidarietà straordinaria! Quando hanno fatto la disinfezione a Gusen siamo stati due giorni nudi, a gennaio con venti gradi sotto zero… con la gente che cade fulminata dalla polmonite, come mosche… e tutti questi che girano, che in mezzo ce n’è sempre tre o quattro che stanno al caldo e poi questi escono ed entrano altri tre e gli altri girano intorno. Ogni tanto qualcuno cadeva secco e si continuava sempre a girare… Questo è durato due giorni, due giorni, non è durato due ore! Se non era solidarietà quella lì! Perché poi c’era l’italiano, il polacco, il cecoslovacco, il francese, non ti capivi mica, però tacitamente…91
86 Beccaria Rolfi, Bruzzone, 1978: 96-97. Testimonianza di Lidia Beccaria Rolfi.
87 Sarta, socialista, arrestata per la sua attività antifascista, deportata a Ravensbrück il 30 giugno 1944.
88 Bravo, Jalla, 1987: 213-214. Testimonianza di Anna Cherchi.
89 Ivi: 215. Testimonianza di Natalina Bianco, nata a Susa, la sua casa è punto di riferimento dei gruppi partigiani della zona, deportata a Ravensbrück il 30 giugno 1944.
90 Metodo utilizzato dai deportati per riscaldarsi a turno con il calore umano prodotto dagli altri.
91 Ivi: 278. Testimonianza di Raffaele Maruffi.
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C’era uno di quegli anziani, che aveva fatto più anni di prigionia di me, che mi diceva sempre: «Leandro – Leandro mi chiamava – non ti devi mai demoralizzare!». E c’erano gli spagnoli, erano come padri e si parlava e mi insegnavano, mi dicevano la vita che avevano fatto: «guarda, io sono anni che son qua, guai a disperarti!» […] «non aver paura, vedrai…»92.
Eravamo partiti insieme e gli dicevo sempre: «portiamo solo a casa il telaio93!». Lui faceva un turno e io ne facevo un altro, e ci vedevamo solo quando lui scendeva dal treno e salivamo noi. E allora un saluto: «ciao! Va tutto bene?» «Va tutto bene». E anche lui diceva: «se non c’eri tu, guai». Perché io ero un po’ ottimista e gli dicevo sempre: «magari solo il telaio, ma a casa ci torniamo»94.
Io credo di essere stato salvato da alcune amicizie, anche perché un fatto gravissimo per noi italiani, ebrei italiani, era la mancata comunicazione. Io l’ho percepito come un ferro rovente, come una tortura il fatto di trovarsi in un ambiente in cui non si capiva il verbo, la parola e non si riusciva a farsi capire. Trovare un italiano con cui comunicare era una grande fortuna. Ed eravamo pochi italiani, eravamo un centinaio nel mio Lager su diecimila, l’uno per cento; e degli stranieri pochi parlavano italiano, e di noi italiani quasi nessuno parlava tedesco o polacco e pochi parlavano francese. In sostanza c’era un grave isolamento linguistico. E trovare un buco, un foro, un passaggio che permettesse di valicare questo isolamento linguistico, era un fattore di sopravvivenza. E trovare dall’altro capo del filo una persona amica era… era un salvataggio95.
A dare forza agli internati contribuiscono inoltre le notizie che arrivano dall’esterno, ma anche le informazioni, molto spesso inventate da qualcuno per sollevare il morale dei compagni, sull’avanzata della guerra e sulle sconfitte dei tedeschi su tutti i fronti.
Si parlava: i russi sono oltre Stalingrado, sono già entrati in Germania, un’altra settimana sono qua… E gli alleati sono sbarcati in Francia, siamo a posto, vengono avanti! Era radio campo, erano gli spagnoli che ci tenevano informati perché magari loro riuscivano a sentire qualcosa. La tragedia era chi si illudeva di queste avanzate, perché poi invece si fermavano, e ci son stati dei casi… Mi ricordo benissimo di un mio compagno, lui si era messo in testa: «oh, ormai siamo quasi alla fine! Per le fragole siamo a casa!». […] Aveva la speranza, si era illuso, perché poi per le fragole non eravamo a casa, eravamo ancora lì. Nel giro di tre giorni è morto…96
In campo non trapelava nulla, ma era tale il desiderio che si inventavano le notizie. Le francesi dicevano che erano i bobard97 che percorrevano così il campo. Un passo avanti si è fatto quando si è saputo dell’attentato a Hitler – era il 20 luglio, mi pare. La notizia era così grave che era arrivata anche in campo. Devo dire che c’era sempre questa fiducia estrema delle prigioniere
92 Ibidem. Testimonianza di Evandro Galante.
93 Espressione metaforica per indicare concretamente lo scheletro umano.
94 Ivi: 279. Testimonianza di Remo Bonomi, meccanico partigiano di Vercelli, mandato a Bolzano, viene deportato a Mauthausen il 4 febbraio 1945, in seguito trasferito a Gusen.
95 Ivi: 263. Testimonianza di Primo Levi.
96 Ivi: 246. Testimonianza di Afro Zanni, disegnatore tecnico di Reggio Emilia, partigiano in val di Lanzo, nel marzo del 1944 deportato a Mauthausen con il padre che morirà una settimana dopo il rientro a casa.
97 Termine francese per fandonia, frottola, entrato nel gergo dei campi per indicare le chiacchiere, le voci incontrollate che circolavano fra i prigionieri.
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che in due mesi la guerra sarebbe finita; poi questi due mesi passavano, e tutti dicevano: «beh, altri due mesi, poi finirà sicuramente».
Questo era un aiuto, perché era una maniera di porre un limite, no? Se no il tempo sarebbe diventato infinito. In questo senso era salutare sapere delle cose non vere. Ti dava un po’ di speranza98.
Io disegnavo per terra dove c’erano gli americani e dove c’erano i russi, dove c’erano i francesi e dove c’erano gli inglesi; e non sapevo proprio niente, meno male che non sapevano niente neanche gli altri… Perché magari dicevo: «vengono di qua» e invece non era proprio vero. […] «non manca molto, ragazzi, dobbiamo tenere duro e arriveranno!». […] Io lo inventavo per cercare di mantenere un po’ il morale a quella gente là; perché loro lo riflettevano su di me, e io mantenevo il morale anch’io99.
Lo scambio di qualche parola permette ai deportati di distrarsi ed evadere per un attimo, almeno mentalmente, da quel contesto di oppressione senza fine. A questo proposito, vengono in soccorso perfino le discipline studiate a scuola, qualche romanzo letto, i versi di una poesia imparata a memoria, uno spettacolo visto a teatro: mai come nel lager il bagaglio culturale di ciascuno diventa strumento fondamentale per rinnovare la speranza e il sentimento di appartenenza alla comunità delle donne e degli uomini liberi.
Il mio compagno era un ragazzino, era un bambino nel chiuso di una baracca, oppressi da migliaia e migliaia di altri deportati, che non riuscivamo neanche a sederci, schiacciati come sardine. […] Comunque lui pregava e tremava, tremava e pregava, aveva paura ‘sto povero bambino, perché era un bambino, diciassette anni. Mi dice: «parlami, dimmi qualche cosa». Di cosa voleva che gli parlassi, della mamma?... Dico: «sai che cos’è la filosofia?». Gli ho parlato tre ore, gli ho parlato di filosofia100.
Cercavamo di parlare di musica, di cose spirituali, di qualche cosa che ci elevasse, non soltanto di mangiare. Ci ha aiutato molto questo: per esempio poter pensare che esisteva la musica, esistevano dei bei libri, esistevano delle belle case, esisteva la possibilità di ritornare in famiglia. Avevamo tutte la speranza di ritornare101.
Cercavamo persino di ricordarci delle formule chimiche, dei problemi fisici… perché tutto questo, che rappresentava un bagaglio intellettuale e spirituale di un altro mondo, non ci venisse portato via del tutto. Perché noi potessimo sempre sentirci persone. Questa mi sembra la cosa fondamentale102.
A un certo punto era venuto fuori anche il timore di non saper più né leggere né scrivere; […] finché un giorno un ingegnere m’ha dato una matita e un pezzo di carta e tutto il giorno mi son messo a scrivere. Ho riempito quel
98 Ibidem. Testimonianza di Giuliana Fiorentino Tedeschi, milanese, assistente alla cattedra di Linguistica italiana del professor Benvenuto Terracini presso l’Università degli Studi di Milano, arrestata per motivi razziali, riesce a mettere in salvo le due figlie. Inviata a Fossoli, poi a Maastricht e infine ad Auschwitz dove arriva nell’ottobre 1944.
99 Ivi: 247. Testimonianza di Attilio Armando, torinese, partigiano, catturato e trasferito a Bolzano, da lì deportato a Flossenbürg il 23 gennaio 1945.
100 Ivi: 196. Testimonianza di Davide Franco, torinese antifascista, partigiano nel cuneese e poi a Torino, catturato, inviato nel campo di Bolzano, deportato Reichnau e poi a Dachau il 19 aprile 1945, pochi giorni prima della liberazione del campo.
101 Ivi: 260. Testimonianza di Ebe Fresia Tiberi, antifascista genovese, arrestata, viene deportata a Buchenwald nel settembre 1944.
102 Ibidem. Testimonianza di Giuliana Fiorentino Tedeschi.
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foglio di carta a quadretti, mi ricordo, proprio fitto fitto fitto: per ricuperare, per far funzionare la testa. […]
Poi recitavo poesie, la Divina Commedia, poi insegnavo l’italiano a questo mio amico francese e lui insegnava il francese a me. Era un esercizio anche per passare il tempo, ognuno si raccontava le sue esperienze, perché il nostro era un gruppo compatto, […] facevamo ‘sti scambi culturali fra di noi, che potevano essere d’aiuto…103
Chiacchiero quando posso con le francesi del tavolo di fronte, con Charlotte Delbo, soprattutto, una scrittrice che arriva da Auschwitz, che ha un numero tatuato sul braccio ed è la vedova di un fucilato. Da lei di tanto in tanto mi faccio scrivere qualche poesia, che imparo a memoria per allenarmi. Mi scrive i versi sul quadernetto che mi sono fabbricata una notte, con i fogli che ci sono sul fondo delle cassette delle bobine e dei fili dei condensatori, e io li leggo tante volte per riprendere dimestichezza con il francese scritto. Scopro autori come Apollinaire, Aragon, Eluard, artisti di moda in Francia, nomi nuovi da aggiungere a quelli dei politici e dei filosofi: un mondo nuovo, nuovi interessi per dimenticare la fame che mi tormenta e il freddo che non mi esce dalle ossa104.
Un posto particolare è occupato dai ricordi letterari. La letteratura viene usata, da chi l’aveva letta, studiata e spesso imparata a memoria, come repertorio da cui attingere per provare a descrivere la realtà del lager. Frequenti nei racconti dei testimoni sono i riferimenti ai gironi infernali di Dante, alla peste dei Promessi Sposi del Manzoni o a I Miserabili di Victor Hugo, nel tentativo di circoscrivere nei propri orizzonti e di provare a determinare meglio la terribile realtà dei campi attraverso i propri parametri culturali.
Vedevi quei carri lunghi con tutti ‘sti morti, sembrava la peste dei Promessi sposi. Al principio devi girare la testa perché era bestiale, ma poi non ti faceva più impressione. Anzi quando c’era l’allarme e li lasciavano lì ancora vestiti, si cercava di portargli via qualcosa da metterti addosso perché non avevi niente105.
La carovana quando andavamo a lavorare sembrava i romanzi di Victor Hugo, I miserabili. Quando cascavi per la strada, se avevi già lavorato tutto il giorno magari ti portavano indietro; se era alla mattina ti tronavano subito106.
Ravensbrück ci appare davanti, all’improvviso, sul tardo pomeriggio del 30 giugno, quando il sole è già sceso. Parlare di inferno dantesco è quasi ovvio. È uno spettacolo indescrivibile, allucinante, assurdo. Sembra di piombare su un altro pianeta107.
«Ma a mi ches chì il me par il quart’atto de l’Aida»108.
103 Ivi: 259-260. Testimonianza di Enzo Comazzi, geometra veronese, dopo l’8 settembre è con i partigiani nelle valli di Lanzo. Arrestato, viene deportato a Mauthausen il 18 febbraio 1944.
104 Beccaria Rolfi, Bruzzone, 1978: 97-98. Testimonianza di Lidia Beccaria Rolfi.
105 Bravo, Jalla, 1987: 236. Testimonianza di Otello Vecchio.
106 Ivi: 165. Testimonianza di Gaetano Gallo, fattorino torinese, militare di leva, catturato dopo l’8 settembre, deportato nel campo di Ludwigshafen e poi a Flossenbürg. Il verbo ‘tronavano’ è usato con il significato di ‘ammazzavano’.
107 Beccaria Rolfi, Bruzzone, 1978: 23. Testimonianza di Lidia Beccaria Rolfi.
108 «Ma a me questo qui mi sembra il quarto atto dell’Aida». Testimonianza di Gianfranco Maris contenuta nel documentario E come potevamo noi cantare. Milano 1943-1945 le deportazioni di Vera Paggi, Dario Venegoni, Leonardo Visco Gilardi, con la regia di Massimo Buda, prodotto dall’ANED – Associazione Nazional Ex Deportati nei campi nazisti, nel 2010. Maris racconta che questa frase gli è stata detta in dialetto milanese
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Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente […] … Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia. Jean è attentissimo […] mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere «antica». […]
Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché «misi me» non è «je me mis», è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare sé stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. […]
Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.109
Mi permetto di soffermarmi un momento su quest’ultimo passo tratto da Se questo è un uomo, per riportare le fondamentali considerazioni di alcuni autorevoli studiosi. Come sottolinea Cesare Cases nel suo saggio L’ordine delle cose e l’ordine delle parole:
Una sola volta Dante viene espressamente citato in Se questo è un uomo ed è nel capitolo Il canto di Ulisse, che Primo tenta di spiegare a Pikolo: dunque il Dante che, almeno secondo la tradizione romantica – oggi contestata ma non morta, e certo ancora ufficiale ai tempi in cui Levi frequentava il liceo -, esce dai limiti del Medioevo e annuncia il Rinascimento con il suo programma di «seguir virtute e conoscenza», che suona in mezzo all’orrore di Auschwitz «come uno squillo di tromba, come la voce di Dio». I richiami danteschi sono l’affermazione che la parola non è del tutto morta in quel concerto di «diverse lingue, orribili favelle» in cui si rischia di perdere ogni capacità di comunicazione. […] In mezzo alla Babele, già Primo s’impegna, se sopravviverà, a raccontare, per restaurare la comunicazione e per dimostrare che non è vero che il disordine sia necessario per dipingere il disordine; non è vero che il caos della pagina scritta sia il miglior simbolo del caos. (Ferrero, 1997: 14)
Forse è proprio questa promessa di provare a raccontare il lager, così come esso gli si è presentato, che porta Levi a citare questi versi della Commedia con qualche imprecisione, come mette in luce Alberto Cavaglion, il quale afferma che
Levi voleva conservare il più possibile l’atmosfera di quel momento, ma continuava a fidarsi della propria memoria di eccellente liceale, al punto di non controllare sull’edizione de La Divina Commedia con il commento di
da Francesco Marchi, capo squadra dei vigili del fuoco alla Breda Impianti, mentre entrano nel lager di Mauthausen. Marchi verrà ucciso nel Castello di Hartheim il 16 dicembre 1944.
109 Primo Levi, 2014: 110-111.
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Giovanni Andrea Scartazzini (realizzato tra il 1874 e il 1882) su cui aveva verosimilmente studiato; l’edizione è la nona, uscita da Hoepli, Milano 1929, con il commento di Scartazzini rifatto da Giuseppe Vandelli e con il testo critico della Società Dantesca Italiana. Rispetto a questa edizione si osservano molte piccole ma significative varianti di ortografia e di punteggiatura – alcune di queste ultime sono probabilmente una deliberata scelta di infedeltà al testo da parte di Levi, allorchè (per esempio) un punto fermo in fine di verso poteva valergli per dare ritmo alle inquadrature del suo racconto110.
Sul valore del passo si veda anche il saggio Il canto di Ulisse di Pier Vincenzo Mengaldo (2018), che nella conclusione afferma:
Credo che quest’episodio di Se questo è un uomo, con quel finale, guadagni a esser letto, come ho cercato di suggerire, sotto il segno dell’ambivalenza: evasione mentale dai confini del Campo, vittoria del ricordo sull’oblio indotto dallo stravolgimento dell’esistenza e della grande parola di Dante sulla confusione delle lingue; ma insieme ancora coscienza di essere irrimediabilmente «rinchiuso» e ben probabilmente destinato a essere «sommerso», come tantissimi.
3.3. La rottura del silenzio
Alcuni deportati raccontano di essere stati in completo silenzio per tempi prolungati. L’isolamento linguistico, dovuto all’impossibilità di comprendere le diverse e numerose lingue parlate nel lager, condanna alcuni prigionieri a un silenzio terribile, logorante. La privazione della parola e della possibilità comunicare è l’ennesimo, forse peggiore, stratagemma messo in atto dai nazisti per trasformare definitivamente gli internati in oggetti inanimati. Solo la liberazione, in alcuni casi, rappresenta l’interruzione definitiva di quel silenzio:
Ci hanno incolonnate tutte, con la nostra gavetta, le coperte, lo zaino… Prima di partire siamo andate a rubare ancora qualcosa per coprirci. E di lì abbiamo cominciato l’evacuazione. C’erano ancora le Aufseherinnen111, c’erano ancora le SS, c’erano ancora i cani! C’erano ancora tutti, ci hanno seguiti fino al primo maggio. Quella notte lì ci hanno lasciati liberi.
Ci eravamo fermate in un grosso piazzale, come fosse Piazza d’Armi. Eravamo appena appisolate e allora quella ungherese mi dice: «ragazza! ragazza!» «Cosa c’è?...» «siamo libere, le Aufseherinnen sono scappate, tutti scappati!» «non stai sognando, vero?» Dice: «no no, no no!». Allora ho chiamato le altre: c’era Lidia, Adriana… c’era qualche altra italiana – adesso non mi ricordo: «ooh… siamo libere: adesso cosa facciamo?». Allora chi scappava di qua, chi scappava di là, chi urlava chi piangeva chi cantava!112
America, americani! È l’esclamazione urlata, gridata, è il gemito, il lamento di migliaia di deportati: ciò che le residue forze di ognuno, chiamate a raccolta dalla gioia della libertà, riescono ad emettere. Amerikansky, américains, americanos, amerikai. Russi, polacchi, francesi, spagnoli, ungheresi, ebrei, zingari,
110 Levi P. (2012), Se questo è un uomo. Edizione commentata a cura di Alberto Cavaglion, Giulio Einaudi Editore, Torino.
111 ‘Sorveglianti SS nei campi femminili. Le deportate italiane parlando fra di loro le chiamano ironicamente ‘Aspirine’.
112 Bravo, Jalla, 1987: 297-298. Testimonianza di Giuseppa Doleati.
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fiamminghi jugoslavi, cecoslovacchi, romeni, greci ed italiani, esprimono la medesima emozione per la conclusione del tragico dilemma che ci opprimeva durante le interminabili ultime settimane: uccisi o liberati. Il coro della moltitudine esplode in un fragoroso boato che scuote ripetutamente la fortezza di Mauthausen e la collina in cima alla quale è costruita. È così assordante e prolungato che soffoca persino i clamori della vicina battaglia. Vita e libertà. Per noi sopravvissuti nel lager di sterminio questo è il significato del carro cingolato, che si affaccia al portone del campo. […] Mi chiedo se io stesso ho partecipato al coro. Ambrogio ha lanciato un urlo finito in angoscioso sospiro. Svuotato dalla tensione ora piange, il capo piegato sulle ginocchia fra le braccia incrociate.
– Tu sei sempre così forte, ora piangi?
Ambrogio alza il capo, abbraccia con lo sguardo tutta la grande piazza, poi mi guarda, fa un ampio gesto con la mano e mi dice:
– Capisci? Tutto ciò significa che torniamo a casa.
– Sì, torniamo a casa.
Queste poche parole hanno lo straordinario sapore della vita restituita113.
4. CONCLUSIONI
Come si suole parlare della fisionomia di un’epoca o di un paese, così un’epoca si esprime attraverso il suo linguaggio. Il Terzo Reich parla con spaventosa uniformità da tutte le sue manifestazioni, da vivo e da morto: dall’ostentazione smisurata dei suoi edifici fastosi e dalle sue macerie, dal modello ideale dei soldati, degli uomini delle SA e delle SS, fissato su manifesti sempre nuovi e tuttavia sempre uguali, dalle sue autostrade e dalle sue fosse comuni114.
Lo studio del linguaggio in un contesto particolare come quello del lager diventa, dunque, un mezzo per indagare il sistema concentrazionario dal suo interno e per provare a riscoprire la voce di chi lo visse. Le fonti storiche e i numeri statistici, infatti, seppur indispensabili, costringono inevitabilmente a un’analisi esterna e a posteriori del fenomeno. Rileggere la realtà del lager attraverso la lingua in esso adoperata consente, come si è visto, di ridurre la distanza storico-temporale, che tende ad allontanare da noi questi fatti, e restituisce non un semplice numero, ma un soggetto, un essere umano calato nel contesto della prigionia.
In un tempo come quello di oggi, nel quale la comunicazione è sempre più rapida, immediata e avviene attraverso mezzi che superano qualsiasi distanza, riflettere sulla lingua e sul dialogo all’interno dei lager permette di soffermarsi su una facoltà – quella linguistica e comunicativa – che in maniera superficiale si rischia di considerare addirittura scontata. Inoltre, approfondire gli scambi comunicativi fra deportati significa considerare quella che si può ritenere a tutti gli effetti una prima ed embrionale forma di comunicazione internazionale, fondamento imprescindibile di un futuro dialogo europeo, anche sulla scena politica.
La lingua del lager consente infine di riconsiderare il peso del linguaggio, con la consapevolezza che l’imbarbarimento di esso può tradursi in un elemento difficilmente controllabile, se non si interviene con prontezza sulle problematiche che il linguaggio
113 Pappalettera, 1965: 3-4. Vincenzo Pappalettera nasce il 28 novembre 1919 a Milano. Membro attivo della Resistenza, viene arrestato a Bovisio e deportato a Mauthausen dove giunge l’11 gennaio 1945.
114 Victor Klemperer, 2018: 26.
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stesso riflette: è il concetto magistralmente espresso dalla senatrice a vita Liliana Segre, quando dice «ho visto le parole d’odio trasformarsi in dittatura e poi in sterminio».
In un tempo in cui le parole sembrano non avere più peso e diventano sempre veicolo di odio e discriminazione nella società, il vocabolario del lager si pone, attraverso la memoria, come monito, nel ricordarci che cosa siamo stati e nel farci intendere che cosa potremmo tornare a essere.
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