Il Dolore, Marguerite Duras
Marguerite Duras è una fonte preziosa di notizie sia a
proposito di Antelme che della Resistenza francese nella quale aveva militato
insieme con lui e con molti componenti di quello che veniva chiamato "il gruppo
di via Saint-Benoît". Inoltre, caso davvero unico, la sua testimonianza si
incrocia temporalmente ma sotto un'angolatura differente proprio con quella di
Antelme.
Sono entrambi scrittori, compagni di vita e di lotta: Antelme ci rende
partecipi non solo della vita nel campo ma anche del pensiero nostalgico, così
doloroso da non poter quasi essere nominato, del "là-bas", il luogo
mitico, il "laggiù" dove vivono -liberi -gli altri; Duras, invece, ci
mostra l'altra faccia del vagheggiato "là-bas": un luogo tragico,
pieno di paura, di rabbia, della costante immagine dei morti tra i quali
potrebbe trovarsi il marito deportato.
Siamo della razza dei bruciati nei crematori, dei gasati di Maidanek, della
razza dei nazisti, anche. Funzione livellatrice dei crematori di Buchenwald,
della fame, delle fosse comuni di Bergen-Belsen. Una parte di noi sta in quelle
fosse, quegli scheletri straordinariamente uguali appartengono a una sola
famiglia europea.
Il racconto Il Signor X, detto qui Pierre Rabier che fa parte
della raccolta Il Dolore narra in forma diaristica i giorni in cui, con Antelme
imprigionato a Fresnes, la Duras frequentava l'uomo che lo aveva tratto in
arresto, il poliziotto tedesco membro della Gestapo, che, assumendo l'identità
di un cugino morto, era diventato "procacciatore di morti".
Apprendiamo all'inizio del racconto che Antelme è stato arrestato il primo di
giugno del 1944. La Duras si reca a Fresnes tutti i giorni per portargli pacchi
di viveri. Lì ha conosciuto il funzionario Rabier, presentato nella prefazione
come emblematico di quel modo illusorio di esistere in funzione della
sanzione e solo di questa, che per lo più supplisce l'etica o la filosofia o la
morale, e non solo nella polizia.
Duras lo frequenta: spera in questo modo di aiutare il marito e di ottenere
informazioni utili ai compagni. Rabier è fin da subito condannato a morte dal
gruppo di partigiani in cui opera la stessa Duras. Si tratta di decidere quando
e dove. Loro, i partigiani, vogliono giustiziare l'uomo che
(…) aveva già effettuato ventiquattro arresti nel periodo che precede il
nostro incontro, ma avrebbe voluto avere più mandati d'arresto. Avrebbe voluto
arrestare un numero quattro volte più grande di gente e soprattutto gente
importante. Vedeva la sua funzione poliziesca come una promozione.
Sarà invece fucilato durante l'inverno 1944-45, (…) nel cortile della
prigione di Fresnes, probabilmente, come tutti gli altri.
Rabier, evitato dai colleghi, si trova a parlare solo con quelli della
cui vita disponeva, quelli che mandava nei forni crematori o nei campi i
concentramento o quelle rimaste là, senza notizie, le mogli. (…) Ha trovato in
me un uditorio che certamente non aveva mai avuto, instancabile.
Uomo privo di passato per aver rubato quello di un altro, era allo stesso tempo
privo di lingua, non potendo impiegare la propria, il tedesco.
Duras lo definisce un imbecille: in lui ogni cosa rientra nell'ambito
di questa imbecillità, i sentimenti, la fantasia e la peggior specie di
ottimismo.
Rabier appartiene a quella tipologia che Hannah Arendt descrive così:
Sono padri di famiglia, cittadini diligenti, usi a compiere in ogni
professione il loro dovere, che, con lo stesso senso del dovere, hanno ucciso e
hanno commesso, in base a ordini ricevuti, le altre scelleratezze nei campi di
concentramento.
Anche Il Dolore è scritto in forma di diario. Ripercorre il
mese dell'attesa, aprile 1945, al cui termine Antelme sarà di ritorno.
Gli alleati stanno liberando i campi di concentramento: Bergen-Belsen,
Buchenwald…
La Duras attende l'apparizione del marito o la più probabile comunicazione
della sua morte. Il dolore è immaginare di non sapere mai più nulla.
Chi aspetto io, qualcuno l'avrà forse visto, come io ho visto quello, in una
fossa, le mani che facevano un ultimo cenno, gli occhi che non vedevano più.
Qualcuno che non saprà mai chi era per me quell'uomo, dunque chi è.
Poi, i primi di maggio, una telefonata di Mitterrand dalla Germania annuncia
che Robert Antelme è a Dachau in fin di vita per la denutrizione e il tifo e che
occorre portarlo via immediatamente. Il giorno stesso Beauchamp e Mascolo
partono; a Dachau fanno indossare ad Antelme una divisa da ufficiale francese,
escono dal campo sostenendolo come fosse ubriaco.
Antelme iniziò a parlare appena lasciato Dachau.
Allora ha cominciato a raccontare perché ciò che era da dire fosse detto
prima della sua morte. Robert L. non ha accusato nessuno, nessuna razza,
popolo, ha accusato l'uomo. All'uscita dall'orrore, sul punto di morire, in
delirio, Robert L. aveva ancora questa capacità di non
accusare nessuno, fuorché i governi, che sono effimeri nella storia dei popoli.
Arrivano a Parigi, in rue Saint-Benoît. Antelme è irriconoscibile.
Si lascia guardare. Una fatica soprannaturale nel suo sorriso, la fatica di
essere arrivato a vivere fino a quel momento. E' un sorriso che improvvisamente
riconosco, ma lontano, come lo vedessi in fondo a un tunnel. Un sorriso
confuso. Si scusa di essere ridotto così, un rifiuto. Poi il sorriso scompare,
torna a essere uno sconosciuto. Ma ora so che quello sconosciuto è lui, Robert
L., nella sua interezza.
Passeranno diciassette giorni prima che sia dichiarato fuori pericolo.
Diciassette giorni senza quasi mangiare, ancora e di nuovo, stavolta non per
farlo morire ma per salvarlo. Pesava trentotto chili per un metro e
settantotto. Aveva l'aspetto, ma la Duras non ce lo dice, che dovevano avere
quelli che nei campi venivano chiamati musulmani26, esseri simili a fantasmi
che si aggiravano piegati in due per la fame, spenti, in equilibrio instabile
tra vita e morte.
Non ci siamo mai abituati a vederlo. Impossibile abituarsi. L'incredibile
era che vivesse ancora. Quando la gente entrava nella camera e vedeva la forma
sotto il lenzuolo non riusciva a sopportarla, volgeva altrove gli occhi. Molti
uscivano, non tornavano più. Lui, non si è mai accorto del nostro spavento. Era
felice, non aveva più paura. La febbre lo teneva su.
Poi inizia la guarigione e con essa la fame. Ancora la descrizione di un
dolore, quello di Antelme, ora. Un dolore inimmaginabile che dobbiamo ad ogni
costo immaginare, perché questo, la partecipazione per mezzo
dell'immaginazione, ê ciò che ci domanda Antelme nel suo magnifico lascito
letterario.
Lui è scomparso, al suo posto la fame. Un vuoto al suo posto. Butta giù in
un buco, empie quello che era svuotato, le viscere rinsecchite. (…) Quando c'q
il sole le sue mani sono trasparenti. Ieri raccattava le briciole cadute per
terra dai pantaloni con uno sforzo enorme, oggi ne trascura qualcuna. (…)
Quando i piatti ritardano piange, e dice che non lo capiamo. Ieri pomeriggio è
andato a rubare pane nel frigorifero. Ruba. Gli diciamo di fare attenzione, di
non mangiare troppo. Allora piange.
Qualche tempo dopo lo informano che sua sorella Marie Louise, anch'essa
arrestata dai tedeschi, è morta. E' morta, ci dice la Duras, il giorno
dell'armistizio, mentre la trasportavano in aereo dal campo di Ravensbruck a
Copenhagen. Aveva ventiquattro anni, era diventata cieca, tisica all'ultimo
stadio, i piedi congelati.
A lei è dedicata L'espqce humaine.
Del libro di Antelme la Duras scrive qualche cosa di sconcertante.
Ha scritto un libro su quello che crede (grassetto mio) di aver vissuto in
Germania: La Specie Umana. Una volta il libro scritto, stampato, uscito, non ha
più parlato dei campi di concentramento tedeschi. Mai queste parole. Mai più.
Mai più neanche il titolo del libro.
Che cosa sta a significare quel "crede"? Un'imprecisione linguistica?
Sì, anche. Ma soprattutto, è la mia interpretazione, un dubbio sulla
testimonianza di Antelme. Ma non, come può sembrare a una lettura distratta del
Dolore, una testimonianza troppo carica di orrore, bensì esattamente il
contrario, come se quell'uomo (… ) eternamente in viaggio nel cuore di
una sua assoluta bontà avesse potuto eccedere in generosità.
«Il dolore è fra le cose più importanti della mia vita.»
Mi sono trovata davanti a un disordine formidabile del pensiero e del sentimento che non ho osato toccare, e davanti al quale mi vergogno della letteratura.
Il dovere di uscire, comprare il giornale, leggere i nomi. Avverto colpi nelle tempie, via via più forti. Non leggerò quei nomi. Leggo nomi da tre settimane, è un sistema che non funziona.
“Buongiorno, signora L.” Nessuna sfumatura particolare, oggi. Niente di particolare neanche per la strada. Fuori, è aprile.
Il dolore è cosiffatto, soffoca, abbisogna d’aria. Il dolore abbisogna di spazio. Troppa gente nelle strade, vorrei camminare in una grande pianura, sola.
So tutto quello che si può sapere quando non si sa niente.
L’appartamento scricchiola sotto i miei passi. Spengo le lampade, torno in camera. Cammino lentamente per acquistare tempo, per non rimescolare quel che ho nella testa. Devo fare attenzione, se voglio dormire.
“Ma avete il diritto di far questo?” Ora il tono è distante. Io: “Il diritto, uno se lo prende.” Se ne va, continuiamo a interrogare.
Ancora spiegazioni, le solite. Dice: “Nel Centro esiste già un servizio come il vostro.” Oso: “Come fate a informare le famiglie? Ci vorranno tre mesi prima che tutte le notizie siano inoltrate.” Mi guarda, scoppia a ridere: “Lei non ha capito niente. Non è questione di dar notizie. Raccogliamo informazioni sulle atrocità naziste. Qui stiamo mettendo insieme dei Dossier.” Si allontana, torna indietro: “Ma chi le assicura che le dicano la verità? Lei sta facendo una cosa molto pericolosa. Non lo sa che tra loro ci sono dei miliziani?”
La Missione di Rimpatrio. Ci chiediamo da dove vengano fuori questi qua, abiti impeccabili dopo sei anni di occupazione, scarpe di cuoio, quelle mani, quel tono sferzante, carico di alterigia, di disprezzo; ora infuriati, ora accondiscendenti, ora amabili: sprezzanti sempre.
Mi dice D.: “Li guardi bene, li tenga a mente.” Domando da dove escano, perché improvvisamente siano in mezzo a noi. Soprattutto: chi sono. Risponde D.: “La Destra. È questa la Destra. Lei sta vedendo il personale gollista che prende posto. La Destra si è ritrovata nel gollismo anche in mezzo alla confusione della guerra.
Vedrà, saranno i nemici di ogni movimento di Resistenza non direttamente gollista. Occuperanno la Francia. Si credono la Francia tutelare, la Francia pensante. Per molto tempo avveleneranno la Francia, bisognerà abituarsi, è con loro che avremo a che fare.”
Vado per restare poche ore, resterò l’intera giornata. Neanch’io so dov’è meglio che stia, per riuscire a sopportarmi.
Un prete prigioniero ha condotto con sé al Centro un orfano tedesco. Lo teneva per mano, ne era fiero, lo mostrava, spiegava come lo aveva trovato, diceva che quel povero bambino non aveva colpa. Le donne lo guardavano male. Si attribuiva il diritto di perdonare già, di assolvere già. Non era reduce da nessun dolore, da nessuna attesa. Accordava a se stesso l’esercizio del diritto a perdonare, ad assolvere subito, lì, su due piedi, senza saper nulla del loro odio, terribile e buono, consolante come la fede in Dio. Di che veniva a parlare? Mai un prete è apparso così fuori luogo. Le donne distoglievano lo sguardo, sputavano su quel sorriso aperto, clemente, radioso. Per il bambino non avevano occhi. Il mondo spaccato in due. Da una parte, il fronte delle donne, compatto, irriducibile. Dall’altra, quell’uomo solo che aveva ragione in una lingua che le donne non capivano più.
De Gaulle non ci tiene. De Gaulle ha sempre parlato di deportati politici in subordine, per lui vien prima il Fronte d’Africa del Nord, il suo. Il tre aprile ha detto una frase criminale: “I giorni del pianto sono finiti. I giorni della gloria sono tornati.”
De Gaulle, questo glorificatore della Destra e basta – a lei si rivolge quando parla, a lei soltanto – vorrebbe togliere al popolo il sangue, la forza viva. Lo vorrebbe debole e fedele, lo vorrebbe gollista come la borghesia, lo vorrebbe borghese. Le donne, da loro è odiato, persino. Più tardi dirà: “La dittatura della sovranità popolare comporta rischi che devono essere temperati dalla responsabilità di uno solo.” Mai parlato dei pericoli, incalcolabili, legati alla responsabilità del capo.
Il reverendo padre Panice dice anche: “Quando si tratta di mettere ordine, la Chiesa non esita, approva.” De Gaulle ha decretato il lutto nazionale per la morte di Roosevelt. Niente lutto nazionale per i deportati morti. L’America, bisogna tenersela buona. La Francia porterà il lutto per Roosevelt. Il lutto del popolo non si porta.
Alle nostre spalle la civiltà è cenere, tutto il pensiero ammassato per secoli.
...il pensiero non riesce a farsi, non partecipa al caos ma è continuamente soppiantato dal caos, è senza mezzi di fronte a lui.
Ha comprato per me latte americano. Fossi veramente grave, forse la signora Kats penserebbe meno a sua figlia. Sua figlia è minorata, aveva la gamba rigida per una tubercolosi ossea, era ebrea. Ho saputo al Centro che uccidevano i minorati. Sugli ebrei cominciano ad affluire notizie. La signora Kats ha aspettato sei mesi, dall’aprile al novembre 1945. Sua figlia era morta nel marzo 1945, la morte le è stata notificata nel novembre 1945, tanti mesi per trovare un indirizzo. Non le parlo di Robert L. Ha passato i dati di sua figlia a tutti, ai Centri, alle frontiere, ai parenti, non si sa mai. Ha comprato cinquanta scatole di latte americano, venti chili di zucchero, dieci chili di marmellata, calcio, fosfato, alcol, acqua di Colonia, riso, patate. Scandendo le parole, la signora Kats dice: “Tutta la biancheria è lavata, rammendata, stirata. Ho fatto rovesciare il cappotto nero, gli ho fatto le tasche nuove. Avevo riposto tutto in una grande valigia con la naftalina, ho tirato tutto fuori, è pronto. Ho fatto mettere i ferretti alle scarpe, ho dato un punto alle calze. Credo di non aver dimenticato niente.” La signora Kats sfida Dio.
Come si potrà essere ancora Tedeschi? Si cercano equivalenti altrove, in altre epoche, niente. Alcuni restano folgorati, non ne guariranno mai. Una delle più grandi nazioni civili del mondo, capitale della musica di tutti i tempi, ha assassinato undici milioni di esseri umani in modo metodico, perfetto: un’industria di stato.
Se l’orrore nazista viene considerato un destino tedesco, non un destino collettivo, l’uomo di Belsen sarà ridotto a vittima di un conflitto locale. Una sola risposta per un tale crimine: trasformarlo nel crimine di tutti. Condividerlo. Come si condivide l’idea di eguaglianza, di fraternità. Per sopportarlo, per tollerarne l’idea, condividere il crimine.
Robert L.
Robert L. ha parlato. Ha detto di sapere che non sarebbe arrivato a Parigi vivo. Allora ha cominciato a raccontare perché ciò che era da dire fosse detto prima della sua morte. Robert L. non ha accusato nessuno, nessuna razza, popolo, ha accusato l’uomo.
...sul punto di morire, in delirio, Robert L. aveva ancora questa capacità di non accusare nessuno, fuorché i governi, che sono effimeri nella storia dei popoli.
...ha esordito con una frase assai oscura: “Quando mi si parlerà parlerà di carità cristiana, io dirò Dachau.”
Robert Antelme (Sartene, 5 gennaio 1917 – Parigi, 26 ottobre 1990) è stato un poeta, scrittore e partigiano francese che subì la deportazione. Fu autore di uno dei maggiori libri sui campi di concentramento: L'Espèce humaine.
Nel 1939 sposò Marguerite Duras che al tempo lavorava per una casa editrice. Il loro primo figlio, un maschio, morì alla nascita nel 1942. Nello stesso anno Marguerite Duras conobbe Dionys Mascolo che divenne il suo amante. Marguerite Duras e Robert Antelme furono membri della Resistenza sotto l'Occupazione. Il loro gruppo cadde in un'imboscata; Marguerite Duras riuscì a sfuggire grazie all'aiuto di "Jacques Morland", nome di battaglia di François Mitterrand, mentre Robert Antelme venne arrestato e inviato in un campo di concentramento il 1º giugno 1944. Dopo un passaggio a Buchenwald, venne condotto a Gandersheim da un piccolo commando dipendente da Buchenwald, dove venne alloggiato in una vecchia chiesa sconsacrata, nei pressi di una fabbrica.
Dopo la fine della guerra, François Mitterrand ritrovò Robert Antelme nel campo di Dachau, malato di tifo e spossato da mesi di detenzione in condizioni inumane, e lo ricondusse a Parigi. Marguerite Duras scrisse un racconto sull'attesa del suo ritorno: La Douleur, pubblicato nel 1985.
Robert Antelme, nel libro, mostra dei deportati che conservano la propria coscienza di fronte alle peggiori crudeltà umane. Gli uomini che descrive, ridotti allo stato di "mangiatori di scorze", vivono nel bisogno ossessivo ma anche nella coscienza di vivere.
En face de cette coalition tout-puissante (des S.S. et des kapos), notre objectif devenait le plus humble. C'était seulement de survivre. Notre combat, les meilleurs d'entre nous n'ont pu le mener que de façon individuelle. La solidarité même était devenue affaire individuelle.
Je rapporte ici ce que j'ai vécu. L'horreur n'y est pas gigantesque. Il n'y avait à Gandersheim ni chambre à gaz, ni crématoire. L'horreur y est obscurité, manque absolu de repère, solitude, oppression incessante, anéantissement lent. Le ressort de notre lutte n'aura été que la revendication forcenée, et presque toujours elle-même solitaire, de rester, jusqu'au bout, des hommes.
trad.: Di fronte a questa coalizione potentissima, il nostro obiettivo diventava il più umile. Cercare di sopravvivere. Anche i migliori tra noi non hanno potuto portare avanti la resistenza che in maniera individuale. La stessa solidarietà, del resto, era diventata una questione individuale. Io parlo qui solo della mia esperienza. Non che l'orrore fosse enorme. A Gandersheim non vi erano né camere a gas né crematori. L'orrore era l'oscurità, la mancanza assoluta di riferimento, la solitudine, l'oppressione incessante e il lento annientamento. L'impulso alla nostra lotta non sarebbe stato che la forsennata rivendicazione, e anch'essa sempre solitaria, di restare uomini fino alla fine. (ed. italiana, Prefazione, pag. 7)
Marguerite Duras alla fine dell’ultima guerra, in attesa che il marito Robert Antelme torni dalla prigionia. La “cellula” della resistenza di rue St. Benoit, della quale facevano parte anche Dionys Mascolo, il migliore amico di Antelme, e François Mitterand (con il soprannome di Morland), era appunto l’indirizzo dell’appartamento di St. Germain che Marguerite divideva con Robert, una casa aperta agli amici dove si discuteva di letteratura, si suonava il piano e si organizzava la resistenza, dove la scrittrice aveva vissuto le prime crisi coniugali e nel ‘42 aveva dato alla luce un bambino morto.
Ma il 1° giugno del ’44, in una retata in rue Dupin, durante una riunione a casa di sua sorella Marie Louise, Robert Antelme viene catturato, assieme agli altri del gruppo, da Rabier, Commissario di Polizia al servizio dei tedeschi. L’obbiettivo più importante della retata è in realtà François Mitterand, che si salva miracolosamente con una telefonata a Marie Louise, già prigioniera della polizia, che finge di non riconoscerlo. Inizia così il lungo periodo di “dolore” per Marguerite che cerca Robert e fa appena in tempo a vederlo su un camion tedesco che lo porta via. Durante le peregrinazioni negli uffici della polizia per mandare un pacco a suo marito, Marguerite conosce Rabier. Ne nasce un ambiguo rapporto in cui lui cerca di sedurla e lei cerca di ottenere notizie di suo marito. Malgrado avesse già deciso di separarsi da lui, la sopravvivenza di Robert diventa un’ossessione che cresce col passare dei giorni. Va quotidianamente alla Gare D’Orsay dove arrivano i treni dalla Germania e raccoglie nomi e notizie da diffondere a chi è rimasto a casa: le donne, soprattutto, sono uguali di generazione in generazione, sempre unite nella classica attesa degli uomini che dovrebbero tornare dalla guerra. Malgrado l’affetto di Dionys Mascolo, Marguerite è divorata dall’angoscia e dall’ambiguità del rapporto con Rabier, per il quale prova insieme attrazione e repulsione.
La douleur è un film francese del 2017, diretto da Emmanuel Finkiel, che porta sullo schermo l'omonimo romanzo autobiografico di Marguerite Duras.
La voce è quella di Marguerite, stanca dei festeggiamenti che non liberano la gente perché troppi sono i lutti e troppo opprimente è l’autoritarismo del governo di De Gaulle, che si è insediato sostituendo con la stessa rigidezza e la stessa inflessibilità i suoi funzionari a quelli tedeschi. Robert farà un tentativo di riconciliarsi con Marguerite, ma lei, innamorata di Dionys, vorrà ed avrà poi un figlio da lui.
...il libro, si chiude su una spiaggia italiana dove Marguerite va al mare con Robert e Dionys. Ha conosciuto da poco una coppia di editori che hanno trovato il posto ed organizzato tutto. Si chiamano Ginetta ed Elio Vittorini. E da queste vacanze nascerà un altro libro di Duras: I cavallini di Tarquinia. Robert, malgrado la sua debolezza, la sua scheletrica magrezza, riesce ad alzarsi e ad andare verso il mare che adora. Marguerite scrive di lui: “Era l’intelligenza in persona, e detestava esprimersi facendo pesare la sua intelligenza.”
Marguerite Duras, pseudonimo di Marguerite Germaine Marie Donnadieu (Saigon, 4 aprile 1914 – Parigi, 3 marzo 1996), è stata una scrittrice, regista e sceneggiatrice francese.
Le sono stati conferiti svariati premi cinematografici, tra cui una candidatura all'Oscar, per le sue grandi doti di sceneggiatrice e regista. Partecipò alla Resistenza durante l'occupazione nazista, insieme al marito Robert Antelme, che venne deportato a Dachau perché ebreo. Collaborò anche alla compilazione di Libres ("Liberi"), giornale che informava i parenti delle persone deportate in Germania sulla posizione e condizione dei loro cari.
Dopo la seconda guerra mondiale militò tra le file del PCF fino al 1950, quando venne espulsa essendo considerata dissidente. Nel frattempo, nel 1946, aveva divorziato dal primo marito ed aveva incontrato l'intellettuale e scrittore Dionys Mascolo, da cui ebbe un figlio, Jean Mascolo.
Il suo esordio in campo letterario avvenne nel 1942 con il romanzo Gli impudenti (Les Impudents), nel quale denuncia anche la realtà degradante dell'Olocausto.
39,5 il primo giorno. Poi 40. Poi 41. La morte perdeva colpi. 41: il cuore vibrava come una corda di violino. 41 ancora, continua a vibrare. Il cuore, pensavamo, ora il cuore si ferma. Sempre 41. La morte lo ingiuria, lo percuote, il cuore è sordo. Non può andare avanti così, ora si fermerà. Non si ferma.
Del brodo, aveva detto il dottore, con il cucchiaino da caffè. Sei o sette volte al giorno gli davamo del brodo. Un cucchiaino da caffè di brodo bastava a soffocarlo, afferrava le nostre mani, gli mancava l’aria, ricadeva sul letto. Ma inghiottiva. Sei o sette volte al giorno diceva di dover andare andare di corpo. Allora lo sollevavamo reggendolo sotto le ginocchia e le braccia. Doveva pesare fra trentasette e trentotto chili: ossa pelle fegato intestini cervello polmoni, tutto. Trentotto chili ripartiti su un corpo di un metro e settantotto.
(Poggiata alle persiane, la strada scorreva sotto i miei occhi, una folla ignara che non sapeva cosa stesse accadendo a così piccola distanza, io avevo voglia di gridare che nella camera poco sopra di loro un uomo era tornato dai campi di concentramento, vivo.)
Gli davamo brodo giallo-oro, brodo per neonati; veniva fuori da lui verdescuro come fanghiglia di palude. Richiuso l’asse del gabinetto, si udivano bolle d’aria scoppiettare alla superficie. Quella merda faceva pensare, così viscida e mucillaginosa, a un grosso scaracchio. Non appena era fuoriuscita, il gabinetto si empiva di un odore non di putrefazione, di cadavere – e tuttavia c’era ancora nel suo corpo materia di cadavere – ma piuttosto di humus vegetale, foglie morte, sottobosco spesso. Era un odore scuro e spesso, quasi il riflesso della spessa notte dalla quale era uscito, e che non avremmo conosciuto mai.
Non ci siamo mai abituati a vederlo. Impossibile abituarsi. L’incredibile era che vivesse ancora. Quando la gente entrava nella camera e vedeva la forma sotto il lenzuolo, non riusciva a sopportarla, volgeva altrove gli occhi. Molti uscivano, non tornavano più. Lui, non si è mai accorto del nostro spavento. Non una sola volta. Era felice, non aveva più paura. La febbre lo teneva su. Diciassette giorni.
Poi, un giorno, la febbre cade.
E poi, una mattina, la febbre che esce da lui. Poi torna, ma cade di nuovo. Poi torna ancora, un po’ più bassa, e cade ancora. E poi una mattina lui dice: “Ho fame.”
La fame era scomparsa quando la febbre era salita. Caduta la febbre, era tornata. Un giorno il dottore ha detto: “Facciamo una prova, proviamo a dargli da mangiare, cominciamo col succo di carne; se Io sopporta, continuate a dargliene, poi dategli un po’ di tutto, in piccole dosi, per periodi di tre giorni, un po’ di più ogni tre giorni.”
Digeriva perfettamente il succo di carne. E poi, dopo tre giorni, ha cominciato a mangiare alimenti solidi.
Fame chiamava fame. Via via è diventata sempre più grande, insaziabile.
Ha assunto proporzioni spaventevoli.
Non lo imboccavamo più, gli mettevamo i piatti davanti, ce ne andavamo e lui mangiava. Funzionava. Faceva il necessario per vivere. Mangiava. Quell’occupazione prendeva tutto il suo tempo. Aspettava il cibo per ore. Inghiottiva senza sapere cosa. Quando allontanavamo il cibo, aspettava che lo avvicinassimo di nuovo.
Lui è scomparso, al suo posto la fame. Un vuoto al suo posto. Butta giù in un buco, empie quello che era svuotato, le viscere rinsecchite. Questo fa. Obbedisce, serve, contribuisce a una funzione misteriosa. Che coscienza ha della fame? Come sa che proprio di fame ha bisogno? Lo sa come meglio non si può sapere.
Ieri raccattava le briciole di pane cadute per terra dai pantaloni con uno sforzo enorme, oggi ne trascura qualcuna.
Le forze che tornano.
Anch’io ricomincio a mangiare, ricomincio a dormire. Riprendo peso. Torniamo a vivere.
Le forze, sono cresciute ancora. Un altro giorno gli ho detto che dovevamo divorziare; volevo un figlio da D., era per via del nome che quel figlio avrebbe portato. Mi ha chiesto se fosse possibile ritrovarci un giorno. Ho detto no, da due anni non avevo cambiato parere, da quando avevo incontrato D. Anche se D. non fosse esistito, gli ho detto, non sarei tornata a vivere con lui. Non mi ha chiesto le ragioni che avevo di andarmene, e non gliele ho dette.
È difficile morire, ma a un certo momento t'accorgi che le cose della vita devono finire. È la vita. È tutto. Marguerite Duras
Una spiaggia in Italia tra Livorno e La Spezia.
Un anno e quattro mesi che è tornato dai campi. Sa di sua sorella, della nostra separazione da lunghi mesi.
“Guarda i limoni della pianura di Carrara come sono enormi, hanno una buccia spessa che li conserva freschi sotto il sole. Hanno succo come le arance ma un gusto senza dolcezza.”
Il signor X, detto qui Pierre Rabier di M. Duras
16 novembre 2017annamariaromanello
La scrittrice assicura che si tratta di una storia vera, che ha pubblicato dopo quarant’anni anni dal momento in cui è avvenuta, ” per un senso di riguardo nei confronti della moglie e del figlio dell’ uomo che chiama Rabier, che non è il suo vero nome.” La pubblicazione è avvenuta per decisione dei suoi amici, cui la scrittrice l’aveva fatto leggere ” per via della descrizione che vi faceva di Rabier, di quel modo illusorio di esistere in funzione della sanzione e solo di questa, che per lo più supplisce l’ etica o la filosofia o la morale, e non solo nella polizia.” Da parte mia, aggiungo che la storia si riferisce un anno prima della fine della seconda guerra mondiale ed è collegata al” Dolore”, perché inizia il 6 guniugno 1944, nel ” D day”, nel momento in cui Marguerite si era recata nella grande sala d’ attesa della prigione di Fresnes a portare un pacco al marito, Robert L. che era stato arrestato il primo giugno, sei giorni prima.
Giunta in prigione, i tedeschi chiudono le porte della sala d’ attesa, lasciando sole le poche persone presenti, mentre arrivava un mostruoso rumore dei bombardieri su Parigi; si vociferava che gli alleati fossero sbarcati quella mattina alle sei: era vero. Da quel giorno i pacchi sono sospesi sine die e Marguerite cerca di ottenere un permesso ” attraverso quelli della Rue des Saussaies” ; dopo quattro giorni, grazie alle raccomandazioni di un’ amica, Marguerite avrebbe potuto parlare con il segretario dell’ ufficio Autorizzazione Pacchi, ma, dopo aver atteso tutta la mattina, deve ritornare l’ indomani; anche l’ indomani, il signore, cui era stata inviata, non c’ era e il suo lasciapassare sarebbe scaduto a mezzogiorno; vede “un tipo imponente”, cui chiede di prolungarle il lasciapassare fino a sera; il tipo, visto il suo tesserino di riconoscimento, le dice di essere stato lui ad arrestare Robert “per la faccenda della rue Dupin” una gran brutta faccenda; comunque, le rinnova il lasciapassare, dicendole che l’ indomani ci sarebbe stata la persona che aspettava. Quando lei ritorna, si accorge che Rabier ( così chiama il tipo imponente) tiene fra le braccia una donna semisvenuta e pallidissima, bagnata fradicia e la saluta, ribadendole che ” la faccenda” era grave… che era stato trovato in rue Dupin un vero arsenale…una mappa sul tavolo… Una gran brutta storia; fe fa qualche domanda , in relazione a quella storia e lei risponde di ignorare… che era una scrittrice e che si interessava solo di letteratura. L’ uomo lo sapeva, perché aveva trovato sul tavolo del marito due suoi romanzi…e le conferma che non avrebbe ottenuto nessun permesso per i pacchi, che, però, avrebbero potuto essere recapitati attraverso il funzionario tedesco che svolgeva l’ istruttoria, che era Hermannn, l’ uomo che Marguerite attendeva da tre giorni, con cui potrà parlare il giorno dopo. Uscendo dall’ ufficio di Hermann, la donna rivede Rabier, che l’ assicura che il marito non sarebbe stato fucilato, e lo dice sorridendo. Passa qualche giorno e la Gestapo le perquisisce la casa, e la Duras accetta l’ incarico di agente di collegamento da Mitterrand, ovvero, da Francois Morlan, capo della resistenza. Nello svolgimento del suo compito, la donna incontra Duponceau, allora delegato del movimento nazionale dei prigionieri di guerra e dei deportati (del MNPGD ) che avrebbe dovuto mettere in contatto con Godard, capo gabinetto del ministero per i Prigionieri, diretto da Henry Fresnay. Stava parlando con il delegato del movimento, quando Rabier la chiama: i due compagni si sentono scoperti e Marguerite teme di venir arrestata, ma, fingendo disinvoltura, gli parla del marito, dicendogli di non averne notizie; l’ uomo cambia espressione: da severo diventa allegro, e continua a dare alla donna notizie relative alla questione che le sta a cuore. Nel frattempo, giunge Godard, che non le si avvicina, ma lei teme che l’ uomo scambi Rabier per Duponceau; Rabier sembra non accorgersi del turbamento della donna e continua a parlare, dando a Marguerite la sensazione che si trattasse di un folle. L’ uomo continua a parlarle, mentre alcuni conoscenti si fermano a salutare Marguerite, che non riesce a dire una parola, ma sente che Rabier le dice che spera di darle presto informazioni sul marito. Lei, per allontanare ogni sospetto, gli chiede di poterlo rivedere e l’ uomo le dà il primo appuntamento per il pomeriggio: mentre Marguerite si stava chiedendo la ragione per cui Rabier l’ avesse chiamata e si fosse trattenuto per tanto tempo a parlarle, riuscì a far avvicinare i due uomini, com’ era nei suoi compiti. Saprà più avanti che l’ incontro con Rabier era stato casuale; che l’uomo era affascinato dagli intellettuali francesi, dagli artisti, e dagli scrittori e che era entrato nella Gestapo per ripiego, non avendo potuto acquistare una libreria di libri d’ arte e, da quel momento, comincerà a telefonarle, prima ogni due giorni, poi tutti i giorni. Quando l’ uomo le chiede un appuntamento, lei accetta: è un ordine tassativo di Morland per mantenere il rapporto con quell’ uomo, che rappresenta l’ unico contatto con i compagni arrestati! I due si incontreranno spesso; Rabier l’ invita a pranzo, parlandole delle sue aspirazioni; ha sempre in mente la sua libreria e lei è tentata, più volte, di andarsene in campagna, di mollare tutto, ma teme di perdere ogni contatto con il marito. Lui l’ assicura che se ne sta occupando; dice di avergli evitato una sentenza e di averlo fatto rientrare nella categoria dei renitenti al Servizio del Lavoro Obbligatorio: sa che Marguerite non avrebbe più bisogno di lui, se venisse a sapere che Robert fosse stato mandato in Germania e la donna saprà, più tardi, che Rabier aveva mentito sul servizio obbligatorio, benché fosse certa che avesse mentito per poterla frequentare. Marguerite sospende ogni attività e teme ogni giorno di più di venir arrestata da Rabier: riferisce ogni appuntamento alla portinaia; il luogo in cui si incontra con quell’ uomo e l’ ora del suo rientro. Fra tutti i compagni, l’ unico che frequenta è D., detto Masse, braccio destro del comandante Rodier, direttore responsabile del giornale ” L’ homme livre.” Lo incontra e gli riferisce tutto ciò che viene a sapere da Rabier e il movimento assume nei riguardi di Rabier un certo dissenso: alcuni lo vorrebbero uccidere; altri si preoccupano solo dell’ incolumità della Duras, in quanto esisteva il pericolo che Rabier scoprisse che la Duras faceva parte della resistenza, aggravando la situazione di Robert. In ogni caso, la frequentazione della Duras con Rabier era stata sempre contrassegnata dalla paura, finché l’ uomo non fu arrestato. Rabier aveva le sue strategie, quando incontrava la donna e lei annotava ogni particolare che lui raccontava; conservava tutti i giornali e continuava a meravigliarsi che lui non pensasse ad eliminare il testimone più informato sulla sua attività presso la Gestapo: Rabier le raccontava che i tedeschi cominciavano ad avere paura; che alcuni disertavano; che si complicavano i problemi del trasporto… I compagni cominciavano ad aver paura per lei…e lui la incontrava sempre in luoghi aperti, con diverse uscite…ma senza mai chiederle di salire nel suo appartamento, anche se, forse, vi aveva pensato; solo l’ ultima volta che la Duras lo vide, Rabier le chiese che salisse ” nell’ appartamentino di un amico che non è a Parigi”…ma la Duras si dice certa che non avesse ancora deciso ciò che voleva fare di lei…. Lei racconta di averlo visto una sola volta malridotto, ma, gentile come sempre, le aveva raccontato che se li era lasciati scappare, e che erano in troppi; erano dei giovani, intorno alla fontana del Lussemburgo. Fu in quel giorno che Rabier le parlò della Resistenza e le raccontò che erano stati denunciati da un compagno arrestato sotto la minaccia della deportazione e le dice il nome del compagno che viene, così, conosciuto dal movimento che, sul momento, decise che l’ avrebbero ucciso alla Liberazione, cosa che non avvenne per una decisione presa all’ unanimità. Lei diventa sempre più magra e Rabier ne fa una malattia: la rifornisce di tante provviste che lei regala alla portinaia o getta in un tombino; le raccontava che avrebbe desiderato diventare un esperto di quadri e di oggetti d’ arte ed ogni volta che lui le dava un appuntamento, lei pensava che fosse giunta l’ ora della sua condanna. Gli altri venivano arrestati; mandati chissà dove e di loro non si sapeva più nulla. Un giorno, passando per rue Dupin, dove Robert e la sorella erano stati arrestati, Rabier si ferma e le dice che erano esattamente quattro settimane che si frequentavano e lei pensa che sia giunto il suo momento. L’ uomo continua dicendo che un giorno aveva avuto l’ ordine di arrestare un tedesco e che lui, prima di farlo, aveva voluto conoscerlo, frequentarlo… E che dopo quattro settimane, dopo che erano diventati amici, l’ aveva condotto dai suoi compagni che lo arrestarono e lo fucilarono. Lei, tremando, chiese perché le raccontasse quell’ episodio, e lui rispose perché le stava chiedendo di seguirlo… Il momento fatale stava per arrivare… Invece, lui continuò dicendo che la pregava di seguirlo in un ristorante, dove aveva piacere d’ invitarla. Poi, la guarda ridendo” in un ghigno crudele, atroce, che scroscia in un riso osceno”. La Duras afferma che Rabier aveva paura dei tedeschi che facevano paura alle popolazioni dei paesi occupati come” gli Unni, i lupi, i criminali, ma soprattutto gli psicotici del delitto” : le sue parole, le sue immagini fanno sentire l’ odio profondo che la Duras provava per gli invasori e ci confessa di aver scoperto, nel corso del processo che gli era stato intentato, che Rabier aveva una falsa identità e che il suo nome era quello di un cugino morto nelle vicinanze di Nizza, di un cugino tedesco. La donna non ricorda più il nome del ristorante in cui Rabier l’ aveva portata; era, comunque, un ristorante a borsa nera, frequentato da collaborazionisti, militi, agenti della Gestapo. Era convinta che l’ uomo si considerasse la sua Provvidenza, la Provvidenza di quella francese pelle e ossa, ma quei pranzi sono per quella francese” la parte peggiore del ricordo, ristoranti a porte chiuse, gli amici che bussano alla porta, il burro sui tavoli, la panna che straripa dai piatti, le carni succulente, il vino.” Lei non aveva fame e lui era disperato. La scrittrice racconta del giorno in cui Rabier le aveva dato appuntamento al Flore, il caffè degli esistenzialisti, il caffè alla moda.: si conoscevano da poco tempo. Lei era tranquilla; sapeva che due amici controllavano. Racconta che quello che aveva fatto al Flore non l’ avrebbe fatto più: Rabier che appoggia la cartella sul tavolo; tira fuori un revolver e lo appoggia sopra la cartella; dalla tasca dei pantaloni tira fuori una catena d’ oro che lui presenta come la catena delle manette, dicendo che aveva anche la chiave d’ oro, che appoggia accanto al revolver. Lei pensa che voglia svergognarla di fronte a tutti i clienti, oppure che voglia farle credere che lui dispensa la morte a chi non è nazista. Continua… Prende dalla cartella un pacco di fotografie , tra cui sceglie quella di Morrand e gliela fa vedere e” trema di speranza” pensando che lei lo riconoscesse. Lei sostiene di non conoscerlo e lui promette che se lei gli avesse detto dove lui avesse potuto trovarlo, Robert sarebbe tornato a casa il giorno dopo. Lei risponde che non gliel’ avrebbe mai confessato, anche se l’ avesse saputo. Rabier, allora, affermó che era un uomo molto importante per lui, perché valeva 250.000 franchi. Lei ha paura per Morland, che sta rischiando la vita; ribadisce di non conoscerlo e lui, tremando ancora un po’, rimette tutto in cartella ” con un’ ombra di tristezza nello sguardo, liquidata subito.” L’ uomo aveva effettuato 24 arresti prima del loro incontro, ed avrebbe desiderato effettuarne di più, “considerando la sua funzione poliziesca come una promozione.” L’ arresto del capo della Resistenza sarebbe stato il massimo della sua soddisfazione; e lei lo collegava alla possibilità che lui avrebbe avuto di acquistare la sognata libreria. Un giorno, l’ uomo confessó alla scrittrice che sarebbe rimasto in Francia, anche in caso di sconfitta dei tedeschi, pur ritenendo assurda l’ eventualitá della sconfitta. Marguerite vede tutti i giorni D. ; a lui racconta tutto ciò che Rabier dice e fa; gli dice che lo considerava un uomo solo, che doveva aspettare la fine di un incubo di cui non le aveva mai parlato: aveva assunto una falsa identità; parlava solo con lei; aveva un modo di parlare anonimo; una voce che sembrava una protesi, senza timbro. Alla Duras sembrava che nessuno che avesse avuto un’ infanzia, dei compagni di scuola in un determinato paese d’ origine, potesse parlare in quel modo. Quell’ uomo poteva parlare solo con la gente che teneva in pugno; con quelli che mandava nei forni crematori; nei campi di concentramento… Lei era stata un suo errore; un interlocutore che lo ascoltava, che non aveva mai avuto e che lo aveva stupito, turbato, tanto” da fargli commettere delle imprudenze, inizialmente leggere e poi sempre più gravi, ma che in base alla logica più elementare dovevano condurlo all’ ecuzione capitale.” E la Duras ci racconta la sua storia, che è la storia di un quarantenne sposato, con un bambino di quattro/ cinque anni, con la famiglia che vive nella periferia parigina e che giunge a Parigi ogni giorno in bicicletta. La moglie ignorava che fosse della Gestapo. L’ uomo era molto curato e cambiava la camicia tutti i giorni; aveva le scarpe sempre pulite e le unghie” immacolate…lui che bastona, che lotta, che lavora con le armi, il sangue, le lacrime, si direbbe che operi in guanti bianchi, ha mani da chirurgo.” Quando i tedeschi stanno per essere sconfitti, Rabier sosteneva che Rommel stava per contrattaccare ( il tentativo ci fu ): lo affermava in una bellissima giornata, piena di sole, mentre i due parlavano di guerra ; lei gli diceva che il fronte di Normandia era fermo; che Parigi era affamata e lui rispondeva che la Germania è invincibile, benchè i comunicati trasmettessero che il fronte tedesco continuava a cedere. La donna sa che Rabier non ha alcun ricordo della sua brutalità: ” quando parla della gente che ha arrestato s’ intenerisce: tutti hanno compreso la triste necessità in cui si trovava, doveva farlo, purtroppo, e non hanno mai fatto difficoltà, deliziosi, tutti.” Non voleva che Marguerite fosse triste e le raccontava di conoscere qualcuno che aveva notizie del marito, ma che chiedeva danaro per parlare. Lei gli rispose che aveva solo un anello d’ oro con un bellissimo topazio e lui rispose che poteva provare… Il giorno dopo le annunció di averlo consegnato a quella persona, poi, non ne parlò più: aveva inventato tutta la storia, per mostrare che poteva contattare il marito, per tenerla in pugno…” e non poteva restituire l’ anello senza svelare la sua menzogna.” Lui continua ad essere elegante; porta con sè la sua bellissima borsa, certo un’ appropriazione compiuta in seguito a qualche sua malefatta… Porta sempre con sè delle rivoltelle: durante il processo, ammetterà che ne portava sei; nella gabbia degli imputati, Rabier è solo, indifferente di fronte alla morte che lo aspetta. La Duras è D. sono quelli che parlano contro di lui meno degli altri e lui dirà di loro che erano stati nemici leali. Marguerite si reca ogni giorno a Fresnes, ma ritorna sempre senza alcuna nuova. Lungo i percorsi ferroviari la gente trovava dei bigliettini che gli ebrei e i deportati riuscivano a gettare dai treni che li portavano ai lager… ( lo fece anche mio fratello: era l’ unico mezzo per far giungere notizie ai famigliari, poiché si formava un servizio postale umano, fatto di gente che versava nelle stesse condizioni…) presto il fronte tedesco cedette e nessuno sapeva ciò che poteva accadere ai prigionieri. Capitò che, per puro caso, Marguerite vedesse Robert in uno di quegli autobus che usciva dalla prigione di Fresnes: lui grida ” Compiègne” e lei sviene… Più tardi, verrà a sapere da uno della resistenza che il marito era stato deportato in Germania il diciotto agosto, in un convoglio dei casi gravi. Ora, il problema della donna era quello di fare in modo che i compagni potessero identificare Rabier, dal quale poteva aspettarsi di essere uccisa in ogni momento: sono in un ristorante nei pressi della stazione Saint-Lazare quando entra D. con una ragazza e i due vengono scambiati per due innamorati in mezzo a clienti che lavorano tutti per la polizia tedesca: lei si vergogna di essere allo stesso tavolo di un poliziotto tedesco, ma gode per le notizie che le giungono, relative al tracollo degli invasori. Una coppia, vicina al loro tavolo , sta raccontando che solo la porta blindata li aveva salvati quella notte e Rabier afferma di non aver paura; di non aver la porta blindata a casa sua e lei pensa di non perder tempo, perché l’ uomo potrebbe scappare. Parlano della guerra e lei non teme di dirgli che le notizie che giungono sono buone per lei; che per i tedeschi è finita; che Montgomery sarebbe arrivato a Parigi entro tre giorni. Per Rabier è cosa impossibile, perché la forza di quel popolo è inesauribile; lei lo considera folle e sa che non ha ancora deciso quello che avrebbe fatto di lei; continua a versarle da bere, osservando che era dimagrita e che lui non poteva sopportarlo: l’ uomo che mandava gli ebrei nei forni crematori non resisteva allo spettacolo di una scrittrice francese che dimagriva! Ma lei capisce che in quel covo di nazisti regna la paura ; lui afferma ad alta voce che l’ avanzata inglese sarebbe stata fermata, perché Hitler era un genio militare e lei risponde che il loro punto di vista sulla guerra era divergente. Lei sa che i compagni la osservano; che D. non la lascia un momento. Rabier continua a parlarle delle sue prodezze; racconta di aver arrestato un giovane di fronte agli occhi della madre, che gli aveva fatto tanta pena. In quel momento, entrava al ristorante un violinista che cominciò a suonare canzoni tedesche. Marguerite, per il gran bere, comincia ad avere la ridarella e lui gliene chiede la ragione. Lei risponde di essere felice per la fine della guerra, cosa che lui non crede possibile; lei continua a ridere; lui non si scandalizza e sostiene di comprenderla, confessandole che avrebbe continuato a vivere in Francia, qualunque fosse l’ esito della guerra. Lei urla che per i tedeschi era finita e lui la giustifica davanti ai suoi pari, dicendo che le avevano arrestato il marito… Il violinista continua a suonare canzoni dell’ occupazione tedesca, che rappresentano il passato degli ospiti del ristorante per soli nazisti. Lui continuava a parlare della libreria che aveva sempre sognato e lei sente l’ improvviso bisogno di dirgli che lo avrebbero ucciso; non lo fa perché immagina la reazione di D. Ed escono da quel covo di assassini. Lei lo segue in bicicletta e fa il gesto di volerlo uccidere, centrandogli la schiena e dicendo” bang.” Si fermano in un incrocio e lui la supplica di andare con lui un minuto e gli si legge sul volto la paura: lei rifiuta: da quel momento lui scompare. Qualche giorno dopo Parigi fu liberata: lo annunciava uno straordinario frastuono di tutte le campane delle chiese parigine, mentre la gente si riversava sulle strade con una felicità indicibile. I compagni avevano cercato di ucciderlo, sottraendolo al processo, durante il quale la Duras testimonió due volte; riferì anche episodi in suo favore, a nome della verità, suscitando l’ ostilità del pubblico. Durante il processo si seppe che Rabier aveva investito tutti i suoi risparmi nell’ acquisto di edizioni originali di Mallarmè, Gide, Lamartine e Chateaubriand, forse, Girardot, libri che non aveva mai letto e che non era in condizione di capire. Era un dato che evocava da solo l’ uomo che la Duras aveva conosciuto”: insieme alla sua aria da signore, alla sua fede nella Germania nazista, e anche alle sue bontà occasionali, alle sue distrazioni, alle sue imprudenze, forse anche a quell’ attaccamento per lei, per lei che l’ avrebbe fatto morire.” L’ aveva subito dimenticato. Il racconto si conclude con un accenno alla totale sconfitta tedesca , dispiegata su tutta l’ Europa”: l’ estate è arrivata con i suoi morti, i suoi superstiti, il riverbero di un dolore inconcepibile dai campi di concentramento tedeschi.”
Il funzionario Rabier, presentato nella prefazione come emblematico di quel modo illusorio di esistere in funzione della sanzione e solo di questa, che per lo più supplisce l'etica o la filosofia o la morale, e non solo nella polizia.
Vi sono due periodi distinti nella mia storia con Rabier. Il primo periodo va dal momento in cui lo incontro in un corridoio della rue des Saussaies fino alla mia lettera a François Morland. È quello della paura, quotidiana, atroce, stressante. Il secondo periodo va da quella lettera a François Morland all’arresto di Rabier. C’è la stessa paura, certo, ma a volte sconfina nel piacere di aver deciso la sua morte. Di averlo battuto sul suo stesso terreno, la morte.
Nella paura il sangue defluisce dalla testa, il meccanismo della vista s’inceppa. Vedo gli alti edifici del crocicchio di Sèvres ondeggiare nel cielo e i marciapiedi sprofondare in un baratro nero. Non sento più distintamente. La sordità è relativa. Il brusio della strada diventa ovattato, assomiglia al rumoreggiare uniforme del mare. Ma la voce di Rabier la sento bene. Faccio in tempo a pensare che è l’ultima volta in vita mia che vedo una strada. Ma non riconosco la strada.
Rabier aveva paura dei suoi camerati tedeschi. I Tedeschi avevano paura dei Tedeschi. Rabier non sapeva a che punto i Tedeschi facessero paura alle popolazioni dei paesi occupati dai loro eserciti. I Tedeschi facevano paura come gli Unni, i lupi, i criminali, ma soprattutto gli psicotici del delitto. Non ho mai saputo come dirlo, come raccontare a coloro che non hanno vissuto quegli anni che tipo di paura fosse.
Con i soldi che mi rimangono compero tre chili di fagioli bacati e un chilo di burro, è aumentato ancora, costa dodicimila franchi al chilo. Faccio questa spesa per mantenermi in vita.
Io e D. ci vediamo tutti i giorni. Parliamo di Rabier. Gli racconto quello che dice. È molto difficile descrivergli la sua fondamentale imbecillità. Essa lo avvolge tutto, senza scampo. In Rabier, ogni cosa rientra nell’ambito di questa imbecillità, i sentimenti, la fantasia e la peggior specie di ottimismo. Questo, fin dall’inizio. Forse non ho mai incontrato qualcuno così solo come questo procacciatore di morti.
Nelle fotografie di gruppo del cc del Soviet Supremo a Mosca, i membri assassini si mostrano secondo me nella stessa solitudine di Rabier, l’anima ròsa dalle tarme, la solitudine dell’appestato, peggio ancora, ciascuno chiuso nel suo vestito, ciascuno tremante per paura del vicino, dell’esecuzione capitale di domani.
Nel caso di Rabier c’era qualcosa che lo rendeva ancora più solo di altri. Oltre alla libreria d’arte, Rabier doveva aspettare la fine di un incubo. Ma di questo non mi ha mai parlato. Per essersi affibbiato l’identità di un morto, per aver rubato l’identità di quel giovane morto a Nizza, doveva esserci stato negli anni precedenti della vita di Rabier un atto criminale, un episodio non risolto e sempre passibile di condanna. Viveva sotto falso nome. Un nome francese. E questo rende un uomo ancor più solo. Non c’ero che io ad ascoltare Rabier. Ma Rabier non era udibile. Parlo della sua voce, della voce di Rabier. Era costruita, calcolata, una protesi. Si sarebbe potuta definire senza timbro, ma era qualcosa di molto più importante, più enorme. Ed era anche perché quella voce non era udibile che io l’ascoltavo con tanta attenzione. Ogni tanto gli capitava di avere qualche inflessione. Ma di che tipo? Forse qualcosa come un accento tedesco...
Rabier non conosceva nessuno. Non parlava neppure con i colleghi, mi è parso di capire che loro non ci tenessero. Rabier poteva parlare solo con quelli della cui vita disponeva, quelli che mandava nei forni crematori o nei campi di concentramento o quelle rimaste là, senza notizie, le mogli.
Se aveva accordato un rinvio di tre settimane al disertore tedesco era stato per poter parlare con qualcuno per tre settimane, parlare di sé, Rabier. Sono stata il suo errore. Avrebbe potuto arrestarmi quando voleva. Ha trovato in me un uditorio che certamente non aveva mai avuto, instancabile. Il fatto di essere ascoltato a quel modo lo turbò tanto da fargli commettere delle imprudenze, inizialmente leggere e poi sempre più gravi, ma che in base alla logica più elementare dovevano condurlo all’esecuzione capitale.
Rabier è sposato con una giovane donna di ventisei anni. Lui ne ha quarantuno. Ha un bambino che deve avere quattro o cinque anni. Vive con la famiglia nell’immediata periferia parigina. Ogni giorno, viene a Parigi in bicicletta. Credo di non aver mai saputo ciò che diceva alla moglie circa l’impiego del suo tempo. Lei non sapeva che fosse della Gestapo. È un uomo alto, biondo, è miope e porta occhiali con la montatura d’oro. Ha uno sguardo azzurro, ridente. Dietro quello sguardo s’indovina un corpo che scoppia di salute. È molto curato. Cambia la camicia ogni giorno. Ogni giorno ha le scarpe pulite. E unghie immacolate. La sua pulizia è indimenticabile, meticolosa, quasi maniacale. Deve farne una questione di principio. È vestito come un signore. In quel mestiere bisogna aver l’aria di un signore. Lui che bastona, che lotta, che lavora con le armi, il sangue, le lacrime, si direbbe che operi in guanti bianchi, ha mani da chirurgo.
Chiamano il violinista. Aspetto, non rispondo a Rabier. Ecco: è un motivo che conosco, che cantavamo insieme quando ci ritrovavamo. Ho la ridarella, non posso assolutamente frenarmi. Rabier mi guarda, non capisce.
“Che cos’ha?”
“È la fine, la fine della guerra. Ci siamo, è la fine della Germania. È la gioia.”
Mi sorride ancora gentilmente e mi dice una cosa, indimenticabile. E perfino adorabile, se detta da un nazista:
“Capisco che lei lo speri. Mi creda, lo capisco benissimo. Ma non è possibile.”
“La Germania ha perso, è finita.”
Rido, non riesco a fermarmi. Anche loro ridono, laggiù. Il violinista ci dà dentro felice. Rabier dice: “È allegra, mi fa piacere.”
Improvvisamente ricordo una cosa che qualcuno mi ha detto sulla paura. Che sotto le sventagliate di mitra si percepisce l’esistenza della pelle del proprio corpo. Un sesto senso che vien fuori. Sono ubriaca. Manca poco che gli dica che stiamo per ucciderlo. Basterebbe forse un bicchiere di vino in più. All’improvviso mi invade una sensazione di facilità, come quando ci si tuffa in mare d’estate. Tutto diventa possibile. Per non ingannarlo, non ingannare lui, la spia.
Albert des Capitales di M. Duras
17 novembre 2017annamariaromanello
Il testo è fornito di una breve introduzione della scrittrice che afferma di essere Thérèse, quella che tortura l’ informatore ed è anche quella che ha voglia di far l’ amore con il miliziano Ter; inoltre, quella che invita i lettori ad imparare a leggere: ” sono testi sacri.”
Da soli due giorni era stata presa la Kommandantur di place de l’ Opéra e già il cameriere di un bistrot accorreva alla sede del gruppo Richelieu a denunciare un” tizio che lavorava per la polizia tedesca”. I primi giorni, dopo la liberazione di Parigi, la gente ne vedeva dappertutto e quello era il primo che avrebbe dato la possibilità di vedere” com’ era fatta una spia.” Tre uomini lo condussero in sede: D. controllò i suoi documenti, mentre i tre lo riempivano di insulti. Era un uomo sui cinquant’ anni, che continuava a ridere come se tutto fosse uno scherzo. Nell’ agenda figurava spesso il nome Albert des Capitales, anche se non sempre al completo. D. gli chiese chi fosse, e ” la spia” finge di non sapere, poi, dichiara che si tratta del cameriere del Capitales, un bar vicino a la gare de l’Est , dove gli capitava di recarsi a bere qualcosa. D. gli chiede di descrivere il cameriere e lui ne dà i connotati che D. manda subito a verificare. La spia smette di sorridere e D. continua la perquisizione, mentre il fermato continua a dire che c’ era un errore di persona… Sul banco è in mostra tutto quello che aveva nelle tasche e, su ordine di D., l’ uomo viene messo nella stanza vicina alla contabilità, chiuso a chiave, mentre D. sfoglia il suo taccuino e rimane solo con Thérèse. La donna temeva di perdere tempo, se non fossero riusciti a sapere che l’ uomo era veramente un informatore, ma D. era convinto che bisognasse aver pazienza e che , partendo da Albert des Capitales, avrebbero potuto mettere mano su ogni anello della catena, e di aver modo di scoprire i veri responsabili che negli uffici firmavano le sentenze di morte per centinaia di ebrei e di partigiani. Otto giorni prima avevano arrestato sette tedeschi e Roger, l’ altro capogruppo, aveva raccontato che li avevano messi sulla paglia fresca e rifocillati: Thérèse, invece, avrebbe voluto che li ammazzassero, mentre tutti loro erano convinti che non si dovessero maltrattare i prigionieri, per cui la donna godeva della piena considerazione soltanto di D. Anche quel giorno fu D. a chiederle se avesse voluto interrogare il prigioniero. La verifica, fatta al bar Capitales non approdò a nessun risultato: ” se l’ erano battuta da quindici giorni.” Si decise, all’ unanimità, che fosse Thérèse ad interrogare la spia, benché la donna apparisse pallida: dopo la liberazione l’ avevano vista sempre sola, distratta ed era lampante che attendesse qualcuno che, forse, era stato fucilato. In lontananza, crepitava, di tanto in tanto, qualche sventagliata di mitra, di cui il gruppo Richelieu aveva imparato a distinguere la provenienza e dal boulevard des Italiens giungeva ogni sorta di rumori, che durava da due giorni e due notti. Nella sede del gruppo, invece, D. e Thérèse discutevano sul caso e si chiedevano se l’ arrestato fosse proprio un informatore. Thérèse interrogò l’ uomo arrestato, coadiuvata da due compagni di Montluc, Albert e Lucien. Lucien era un venticinquenne, che lavorava in un garage, che non era troppo benvisto all’ interno del gruppo; Albert era manovale in una tipografia ed aveva diciott’anni anni; veniva dall’ Orfanatrofio pubblico ed era un ragazzo pieno di coraggio:” con i tedeschi era il più terribile, faceva delle cose incredibili e non le diceva neanche.” Con quei due ragazzi Thérèse entra nella stanza dov’ era chiuso l’ arrestato; scendono in gruppo anche gli altri, che rimangono, temporaneamente, nel corridoio. Alla luce di una lampada da campo, la sola che illuminava la stanza, la donna inizia l’ interrogatorio che viene presentato momento per momento: l’ uomo viene fatto spogliare integralmente e lo fa lentamente, appoggiando con cura su una sedia tutti i suoi indumenti; gli fanno togliere persino le calze, come gliele avevano fatto togliere anche a loro, a Lucien e ad Albert a Montluc, quando loro non avevano detto neppure una parola ed era per questo che erano stati scelti da D. per aiutare Thérèse, che da dieci giorni viveva, praticamente, con loro. Finché l’ uomo si spoglia, la donna lo ammonisce a fare in fretta, ribadendoglielo più volte. Poi, è lei che gli fa delle domande precise, cui lui non risponde o la tira per le lunghe, o finge di ignorare tutto. L’ unica sua affermazione, ripetuta più volte, è quella che gli interrogandi avrebbero preso un granchio. Il lettore conosce, così, come si svolgeva un interrogatorio, fatto di domande e mancate risposte, ma, soprattutto, fatto di pugni, percosse, di insulti da parte di uomini e donne, che vollero entrare ad assistere all’ interrogatorio. Si viene a sapere che i tedeschi pagavano trecento franchi per ogni prigioniero di guerra; di più per ogni ebreo. Ciò che il gruppo voleva sapere era dove potessero trovare Albert des Capitales e l’ uomo pagava il suo silenzio con colpi in tutto il corpo. Si voleva sapere come entrasse alla Gestapo, e l’ arrestato rispondeva che entrava come tutti: ed era già un’ ammissione; tutti urlavano” porco, carogna, assassino ” e lui si limitava a dire che vendeva ai tedeschi delle porcherie, e lo diceva con tono piagnucoloso, infantile, mostrando di aver tanta paura. I due ragazzi lo picchiano, ” lo picchiano in modo intelligente”: rallentano quando pensano che l’ uomo voglia confessare qualcosa e ricominciano quando si capisce che sta per riprendersi. Thérèse lo incalza con le sue domande: vuole sapere il colore del lasciapassare, ma l’ uomo si fa maciullare piuttosto che confessare. I ragazzi ci danno dentro sempre più forte; sono infaticabili;” più pestano, più lui sanguina, più è chiaro che bisogna picchiare, che è vero, che è giusto.” E Thérèse rivede il film che ha veduto tanto spesso: gli uomini che cadono a non finire; i 500 franchi che servivano all’ uomo per acquistare qualcosa per sè. Immaginava che l’ uomo non fosse nè anticomunista, nè collaborazionista, nè antisemita. Lui, semplicemente, consegnava dei disgraziati per arrotondare lo stipendio, fregandosene della vita degli altri, indifferente alla loro sorte. Però, teneva duro e non parlava. E gli altri picchiavano, picchiavano fino a ridurlo un cencio, imbrattato di sangue. Thérèse pensava che ciò che stava capitando a quell’ uomo era capitato a migliaia di uomini: bisognava picchiare. Per le strade cantavano l’ Internazionale, mentre i borghesi, chiusi nelle loro case, li ritenevano terroristi e lei pensava che bisognasse ” mandare a pezzi la vergogna; quel silenzio ignobile.” Bisognava tirar fuori la verità, per sapere. Bisognava picchiare finché non dicesse” la sua verità, il suo pudore, la sua paura, il segreto di ciò che ieri lo rendeva onnipotente, inaccessibile, intoccabile.” Tra i presenti c’ erano persone che non condividevano quel modo di interrogare: erano, soprattutto, donne, che, non riuscendo a sopportare quello spettacolo, uscivano. L’ informatore urla, grida, si lamenta sotto la grandinata di colpi che lo investono per tutto il corpo; allora, si risentono insulti, perché la spia continua a mentire; Thérèse crede che sotto quei colpi la verità , prima o poi, sarebbe uscita. L’ uomo urla e la sua faccia è tutta insanguinata: era un uomo ” che dava uomini, senza neppure sapere perché glieli chiedessero, tanto che non valeva neppure la pena di ucciderlo.” I colpi continuavano e gli uomini, che presenziavano all’ interrogatorio, si fidavano di Thérèse e la lasciavano fare: si limitavano ad insultarlo. Albert e Lucien ” se lo sballottano, lo prendono a pugni, a calci: sono in un bagno di sudore”; Thérèse ordina che può bastare e pensa che l’ uomo non soffra più; che abbia solo paura. Ma l’ uomo non risponde alle sue domande e lei incita i ragazzi a continuare ed è lei a dirgli il colore della carta: sapevano che le tessere degli agenti sd della Polizia Segreta Tedesca erano verdi. Restava in sospeso la questione di Albert des Capitales, che D. volle rinviare all’ indomani ; poi, prende la mano di Thérèse, l’ aiuta ad alzarsi, e, insieme, escono, mentre i due ragazzi aiutano a far rivestire l’ informatore. Giungendo al bar, la donna annuncia agli altri che l’ uomo ha confessato; nessuno la guarda ed una delle donne uscite, perché non condivideva le modalità dell’ interrogatorio, ribadisce che non le importa niente… che era un tale schifo.. Solo i capigruppo, Roger e D. abbracciarono la donna, stremata dallo sforzo fatto e D. le impose di andare a riposare. Lei, che si era opposta al generoso trattamento fatto da Roger nei riguardi dei tedeschi catturati, sentì il bisogno di dire che bisognava lasciarlo andare, e pianse.
La vita di coloro che hanno fatto parte della resistenza non dev’ essere stata facile: soprattutto per le donne, le prime a raggiungere, concretamente, la parità con l’ altro sesso, esponendo la propria vita in nome della libertà, e del rispetto verso gli uomini e la loro patria, proprio come facevano gli uomini.
Thérèse si chiede se è proprio il caso di farlo spogliare. Adesso che è lì, non è più così urgente. Niente, non prova più niente, né odio né impazienza. Niente. È solo una faccenda lunga. Mentre l’uomo si spoglia il tempo è morto.
Bisognerebbe risalire molto lontano per sapere perché, perché è proprio lei, Thérèse, che deve occuparsi di quella spia. D. le ha dato quell’uomo. Lei l’ha preso. L’ha in mano. Quell’uomo prezioso. Non ha più voglia di quell’uomo prezioso. Ha voglia di dormire. Dice a se stessa: “Dormo.” L’uomo si toglie i pantaloni e li appoggia sulla giacca, con la stessa cura. Le mutande sono sgualcite, grigie. “Si deve pur essere da qualche parte a fare qualcosa,” dice Thérèse a se stessa. E adesso sono qui, chiusa in una stanza buia, con Albert e Lucien, i due di Montluc, e questo delatore di ebrei e di partigiani. Sono al cinema. Ecco. Una volta, si è trovata sul lungosenna, erano le due del pomeriggio di un giorno d’estate e qualcuno l’ha baciata e le ha detto che l’amava. Era lei, era lì, lo sa ancora. Tutto ha un nome: era il giorno in cui ha deciso di vivere con un uomo. Oggi, che cos’è? Che cosa sarà? Fra poco lei sarà in rue Réaumur, al giornale, a fare il suo lavoro. Si pensa che siano cose straordinarie. È come tutto il resto. Capita come capita tutto il resto. E poi, è capitato. Potrebbe capitare a chiunque.
Piange. Dal naso gli esce del muco insanguinato. Geme ininterrottamente: “Ahi, ahi, oh, oh.” Non risponde più. La pelle del petto si è spaccata all’altezza delle costole. Continua a strofinarsi con le mani e s’impiastriccia di sangue. Con lo sguardo vitreo da vecchio miope, fissa la lampada senza vederla. È successo in fretta. Ecco: adesso, che l’uomo ne muoia o se ne tiri fuori, la cosa non dipende più da Thérèse. Non ha più alcuna importanza. L’informatore è diventato un uomo che non ha più niente in comune con gli altri uomini. Ogni minuto, la differenza aumenta, prende piede.
Thérèse è trasparente, magicamente attraversata da immagini. Un uomo contro un muro cade. Un altro ancora. Ne cadono a non finire. I cinquecento franchi gli servivano per comperare piccole cose per sé. Sicuramente, non era neanche anticomunista, né collaborazionista, né antisemita. No, semplicemente, lui “consegnava” senza sapere, senza soffrire, forse solo per pagarsi piccoli lussi solitari, per arrotondare lo stipendio, senza vera necessità. Continua a mentire.
Il miliziano Ter di M. Duras
18 novembre 2017annamariaromanello
La Duras, alias Thérèse, racconta che al Centro Richelieu D. si occupava di molte cose:” degli arresti; dei prigionieri; dell’ approvvigionamento dei compagni; delle perquisizioni ( di locali, di automobili, di benzina ), degli interrogatori; che al centro c’ erano 11 miliziani; 30 collaborazionisti nella hall; una tedesca, un agente della Rue des Saussaaies, una domestica tutto fare e la sua padrona, un colonnello russo, alcuni giornalisti, un poeta, la moglie di un avocato…” D. per ridurre il numero delle persone alla contabilità, porta il miliziano Ter in Rue de la Chaussée d’ Antin dov’ era il gruppo Hernandez- Beaupain, accompagnato daThérèse che guida l’ automobile. Erano le tre del pomeriggio ed il cortile dell’ edificio pullulava di Spagnoli, di biciclette , di automobili, requisite o riprese ai tedeschi. L’ edificio degli spagnoli dava su due cortili, comunicanti tra loro per mezzo di un corridoio che attraversava il pianoterra. Uno dei capi, Beaupain, era intento a guardare ciò che stava succedendo all’ ingresso e che lo metteva a disagio. I tre che provenivano dal Richelieu gli si fermano vicini, osservando il gruppo di uomini che discutevano animatamente intorno a qualcosa, bianca, lunga, distesa a terra, di cui due di loro s’ impadroniscono e portano via: si vide che si trattava di una cosa ” molle come poltiglia”, coperta da un lenzuolo sotto il quale si profilava una testa e la punta di un naso: a domanda, uno degli spagnoli risponde che si trattava di una carogna che due di loro depositano nella camionetta che era ferma davanti al corridoio, e che sparisce in strada. Poi, gli Spagnoli e i tre nuovi arrivati entrano nell’ edificio, in una stanza completamente spoglia, disadorna, in cui si vedevano nei quattro angoli soltanto armi, sorvegliate da un uomo e un caminetto in marmo bianco, sormontato da uno specchio di due metri: era il dormitorio di tutti gli spagnoli, che da quindici giorni non si cambiavano. I tre seguono D. che cerca Beaupain nella stanza dell’ ufficio di Gautier, nella stanza dei francesi, spoglia come la stanza degli spagnoli, arredata dalla sola scrivania: vedono Beaupain che sbraita con Gautier per la scomparsa di una forma di gruviera di trenta chili, di cui nessuno sapeva niente. Mentre i capi discutevano animatamente, c’ era una ventina di uomini che urlavano ancora di più dei capi, perché erano quasi due settimane che non mangiavano che tonno: il primo giorno dell’ insurrezione di Parigi avevano trovato in un pc tedesco mille scatole di tonno e da quel giorno non si mangiava che tonno al centro Richelieu e a quello d’ Antin. D. e Thérèse vennero a sapere che ” la carogna” che avevano visto era il primo giustiziato del gruppo Hernandez, che era un agente della Gestapo del Centro Campagne Première; gli spagnoli avevano bisticciato per chi doveva sparare ma era stato Hernandez con altri due a sparargli sulla nuca. Mentre i due del centro Richelieu venivano informati sull’ accaduto, Ter era addossato al caminetto: da quel momento il racconto si concentra quasi esclusivamente sul ragazzo: il miliziano viene descritto fisicamente come un bel ragazzo, che crede sia giunto il suo ultimo momento tanto da chiedere a D. di poter scrivere alla famiglia; l’ uomo comprende e gli dice di non averlo portato al centro d’ Antin per giustiziarlo e il ragazzo rimane immobile, sempre appoggiato al caminetto. D. e Thérèse gli si avvicinano, mentre gli spagnoli vociano a proposito del gruviera; Gautier ridacchia come se sapesse qualcosa; seduti agli angoli gli uomini ingrassano i fucili con molta cura e Beaupain li riunisce, comunicando loro la misteriosa scomparsa del gruviera, ma loro ridacchiano , mentre Beaupain è in un bagno di sudore; dà gli ordini sull’ alloggiamento dei vari gruppi per la notte e chiede in giro chi ha preso il fucile mitragliatore e due mitra, scomparsi: nessuno aveva visto e preso niente. Ter continuava a fumare la sigaretta ricevuta da D. che, insieme a Thérèse non può fare a meno di guardarlo: è un ventitreenne che indossa una camicia di seta azzurra che mette in evidenza un corpo snello e muscoloso, e che avrebbe potuto essere scambiato per uno dei ragazzi del Centro, ma che aveva un passato” sporco.” D. continuava ad interessarsi di lui, che era diventato amico di Lafont, dal quale era stato incantato per la sua automobile blindata, per il suo ufficio blindato, per la sua vita lussuosa. Il ragazzo era stato interrogato da D. e da Roger otto giorni prima ed aveva raccontato tutto; aveva spiegato di essere entrato nella” Bony- Lafont per avere un’ arma, ma che era l’ ultima ruota del carro, nella banda, per cui non avrebbe potuto uccidere nessuno. Affermava, invece, di essere andato a caccia in Sologne con attori del cinema e di aver fatto da segretario a Lafont e di averlo fatto solo per potersi battere. Anche al centro d’ Anvin riesce a distrarsi, mentre D. sta parlando di lui con i capi del centro. Lui era fatto così; l’ aveva fatto per guidare un’ automobile, per avere in tasca una rivoltella; per fare baldoria con Lafont e Bony; per guidare a tutta birra l’ automobile di Lafont , quando questi faceva i suoi blitz. Per Ter era tutto semplice e lui sapeva di dover essere liquidato per ciò che aveva fatto; sapeva che era inutile difendersi e si piegava alle esigenze della giustizia e della società: semplicemente. Perciò, si divertiva come un bambino a guardare gli spagnoli che pulivano le armi e per lui D. e Thérèse avevano una certa preferenza. Diceva di aver guadagnato sei milioni in un ufficio acquisti tedesco, che aveva guadagnato un Perù. Al centro, non aveva esitato un momento a dire la verità; non aveva giocato d’ astuzia; non aveva mostrato un briciolo di orgoglio: desiderava sigarette e donne. Lo riportarono al Richelieu, perché all’ Antin non c’ era posto, e salutarono Hernandez, il gigante che aveva sparato all’ agente tedesco. L’ uomo era di professione barbiere ed era uno spagnolo repubblicano che, come tutti gli altri spagnoli, affilava le armi” in attesa del gran casino che sarebbe scoppiato tra poco in Spagna” ed Hernandez diceva che , dopo Parigi, toccava a Franco e la liberazione di Parigi li faceva sognare… Ter era contento di lasciare l’ Antin e di tornare, momentaneamente, al Richelieu. Con galanteria, apre lo sportello dell’ auto a Thérèse che gli è simpatica come lo è D: è seduto dalla parte dell’ ospite e , sul sedile posteriore c’ è D. con un piccolo revolver in mano, che Ter ignora che non funziona. D. tiene in mano l’ unica arma rimastagli, dopo la scomparsa del suo fucile mitragliatore e della sua 8 mm dal centro Richelieu. Ter viaggia tranquillo, in una Parigi dove non si vede polizia e dove la circolazione avviene senza rispetto di regole. Perché ” una frenesia di trasgressione, un’ ebbrezza di libertà si è impadronita della gente.” Anche a Ter piace la mancanza della polizia e si sente a suo agio perché D. non è della polizia e tutto quel caos, che vede in città, influisce su di lui che è felice di trovarsi in una di quelle automobili, di godere di quell’ atmosfera. Tornato in cella, il ragazzo chiede un supplemento di pane ed un mazzo di carte, che gli vengono portati da Albert. La sera, lo videro giocare con gli altri miliziani, contento di vincere: aveva fatto fuori i tre filoni di pane che aveva diviso con i suoi compagni. Anche Albert lo preferiva a tutti gli altri e si divertiva a farsi raccontare delle sue donne: Ter raccontó che l’ anno precedente ne aveva avute 395, più di quante figuravano nel catalogo di Dongiovann: tutti si sbellicarono dalle risate! Il ragazzo era convinto della propria abiezione, perché l’ aveva detto D. cui credeva: ” era senza orgoglio, non aveva niente in testa, solo infanzia. ” Il breve testo non racconta la fine del ragazzo: la scrittrice si è limitata a descrivere il carattere di un giovane che si è trovato immischiato in una vita ” sporca” perché amava far parte di quella società” in cui il danaro è facile, il pensiero debole e la mistica del capo funziona da ideologia e giustifica il delitto.”
L’ ultima frase del testo, riportata integralmente, può ritenersi il miglior commento che si possa fare nei riguardi di un personaggio come Ter.
È un bel tipo, Ter. Non ha un solo pensiero in testa, solo voglie. Ha un corpo fatto per il piacere, la baldoria, la bagarre, le donne (23 anni).
Ter era stato nella Bony-Lafont.
“Perché è entrato nella milizia?” avevano chiesto a Ter.
“Perché era il solo modo per avere un’arma...” “Perché un’arma?”
“È forte, un’arma.”
Perché Ter è così. Per guidare un’automobile, per avere in tasca una rivoltella, Ter si è giocato la vita. Ha fatto baldoria con Lafont e Bony. Guidava a tutta birra l’automobile blindata di Lafont quando Lafont faceva i suoi blitz nei quartieri ebrei. Un giorno, andando a caccia, ha sparato nel folto di una boscaglia, non sa se ha ucciso qualcuno. Tutto quello che c’è da sapere lo si sa, Ter ha confessato tutto, immediatamente.
Per Ter, tutto è semplice. Dice a se stesso: “Avevo un’arma, ero della banda Lafont, ho sparato in mezzo agli alberi, sto per esser liquidato.” Chi ha fatto del male dev’essere liquidato. Difendersi, non serve. La pensa così, Ter.
Ter si piega alle esigenze della giustizia e della società. Crede nella perspicacia dei giudici, nella giustizia, nel castigo. E intanto, è divertente guardare smontare le armi, ciac e ciac. È come una pianta, Ter. Come una specie di bambino.
Ter non è un prigioniero come gli altri. Perché è successa una cosa bellissima, che Ter, durante l’interrogatorio, è rimasto colpito dalla lealtà di D., ed è certo che nella confessione totale, quasi sconcertante di Ter, c’è stato il desiderio di piacere a D. Ter è così, semplice. Come una specie di pianta, Ter.
Ter ama maneggiare automobili, armi, denaro, donne. Gli piace ciò che corre, che schiocca, che si consuma. Per lui, il maneggiare un’auto è qualcosa di affascinante in sé.
Ter era senza orgoglio, non aveva niente nella testa, solo infanzia.
Non sappiamo com’è finito Ter, se è stato fucilato, se è ancora a Fresnes o se è libero. Se Ter è libero, dev’essere da quella parte della società in cui il denaro è facile, il pensiero debole e la mistica del capo funziona da ideologia e giustifica il delitto.
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