Memorie di Don Paolo Picca
LA NASCITA
I miei genitori Picca Dante (al Civile), ma sempre chiamato col nome di battesimo Adolfo e mia madre Pietrosanti Francesca chiamata Checchina, dopo il matrimonio avevano affittato una casa in via Cannetoli, nei pressi della chiesa di San Salvatore in Velletri, ma per difficoltà economiche verso la metà degli anni trenta si erano trasferiti in campagna in contrada Papazzano n. 10 (ora Via Papazzano 29) nella vigna che mio padre aveva acquistato da sua madre Plautilla Serafini vedova di Picca Salvatore, pagandola con cambiali a lunga scadenza. Questa vigna era stata acquistata da mio nonno paterno Picca Salvatore intorno al 1920/22 dai Cascapera.
La famiglia di mio padre, prima della 2a guerra mondiale abitavano in affitto a Velletri, in Via della Stamperia, di fronte alla chiesa di S. Martino, ma avevano una vigna abbastanza grande in via “Rèna dell’Olmo” nella contrada “Le Corti”, dove passavano l’estate abitando in una capanna.
Quando io nacqui mio padre era andato a lavorare come bracciante agricolo presso la vigna di Bianchini Salvatore, un agricoltore benestante che aveva una grande vigna e per coltivarla aveva bisogno di tre o quattro operai. Con questo lavoro e il poco reddito della sua vigna mio padre portava avanti la famiglia. Eravamo poveri come tanti contadini di Velletri, ma devo dire che non soffrivamo la fame.
Quando sono nato, non ci fu un’ostetrica. Mia madre fu assistita da una vicina di vigna che si riteneva pratica nell’assistere le partorienti. Fortunatamente non ci furono problemi. Mio padre stava lavorando nella vigna di Salvatore Bianchini, distante circa tre chilometri. Appena gli arrivò la notizia, staccò da lavoro e si precipitò a casa. Non so come, decisero di battezzarmi entro le 24 ore, si diceva che così avrebbero liberata un’anima dal purgatorio. Forse era annessa una indulgenza particolare per incoraggiare a battezzare subito i bambini al più presto. un’indulgenza particolare per incoraggiare a battezzare al più presto, data anche l’elevata mortalità infantile dei tempi passati. Mia zia Vienna sorella di mia madre, fu l’unica madrina. Fui battezzato nella mattina della domenica seguente, 13 fui battezzato il 13 marzo 1938, nella chiesa di S. Maria in Trivio, dal vice parroco D. Luigi Nardini. Mi fu messo il nome Paolo, Mario. Mia zia Vienna, sorella di mia madre ma che tutti chiamavano Pierina, che lavorava nella fabbrica Bombrini Parodi di Colleferro, volle mettermi il nome Paolo, in ricordo di Paolo Parodi morto precedentemente in un incidente aereo. Mia madre mi raccontava che nei primi tre mesi, piangevo continuamente. Passati i tre mesi mi calmai. Questo è quanto ho appreso dai racconti di famiglia. La figlia di una signora che lavorava insieme a mia madre come bracciante agricola presso la vigna di un signore vicino, mi ha raccontato che mia sorella Lina, che aveva appena sei o sette anni mi prendeva in braccio, attraversava la ferrovia e mi portava da mia madre, che stava lavorando, per farmi allattare.
RICORDI D’INFANZIA
LA PRIMA OPERA DI MISERICORDIA DELLA MIA VITA:
CONSOLARE GLI AFFLITTI
Nel 1943 mio padre lavorava allo Scalo S. Lorenzo a Roma come addetto alla pulizia delle vetture dei treni delle Ferrovie dello Stato. Il 19 luglio gli americani bombardarono lo Scalo S. Lorenzo proprio dove lavorava mio padre. La notizia arrivò a Velletri. Mia madre corse subito alla stazione ferroviaria per avere notizie. Ma ebbe solo notizie del disastro e del blocco del traffico dei treni, di mio padre non riuscì a sapere nulla. Ricordo che mia madre tornò alla vigna piangendo disperatamente, il suo pianto continuava a lungo. Io avevo solo cinque anni e non potevo vedere mia madre così disperata. Tentai di consolarla dicendole nella mia ingenuità: mamma, non piagne più; se facemo un altro papà novo. Ricordo che smise di piangere, si volse verso di me per correggermi con uno schiaffo, ma poi si bloccò.
Non sapevo di aver compiuto per la prima volta un’opera di misericordia spirituale: consolare gli afflitti. Sul far della sera sentimmo un fischio proveniente dal viale; corremmo a vedere: era papà che tornava. Lascio immaginare la gioia di tutti. Si sedette e cominciò a raccontare l’avventura. Proprio quel giorno l’avevano mandato a lavorare non a San Lorenzo, ma alla stazione di Trastevere. Ma quel bombardamento aveva provocato il blocco dei trasporti. Per tornare a casa non aveva nessuno mezzo perciò si decise a venire a piedi. Quando sentiva il rombo di un aereo si gettava a terra dentro qualche buca, anche dentro le buche delle bombe esplose qualche ora prima. Raccontò che un piccolo tratto di strada lo fece a bordo di un camion tedesco: i soldati tedeschi vista la situazione gli fecero questa gentilezza, ma la maggior parte di strada la fece a piedi.
BOMBARDAMENTO DI VELLETRI
8 settembre 1943 primo bombardamento di Velletri. Venne colpita la parte sud della città. Una bomba ha colpito anche , sfondando il tetto e arrecando ingenti danni all’organo e a tutta la struttura.
Non avevo ancora sei anni, quando ci fu lo sbarco degli Anglo-americani ad Anzio, ma quei tristi giorni sono rimasti impressi nella mia memoria. Ricordo l’urlo della sirena che annunciava l’arrivo dei bombardieri e subito si correva a rifugiarsi nella grotta che mio padre aveva scavato sotto la scarpata di confine della vigna.
In seguito mio padre pensò che anche la grotta non era sicura: se una bomba fosse caduta sull’ingresso avrebbe ostruito l’uscita e noi saremmo rimasti dentro, come era già successo in qualche parte. Pensò quindi di scavare una trincea. Appena sentivamo l’urlo della sirena che era posizionata sulla torretta del palazzo comunale, andavamo di corsa dentro la trincea. Sopra di noi mettevamo delle frasche per mimetizzare il nascondiglio.
Qualche notte prima dello sbarco di Anzio sentimmo bussare alla porta della capanna. Si alzò mamma, temendo che se avessero visto uomini li avrebbero portati via. Appena aperta la porta fu abbagliata dalla luce di due torce elettriche puntate da due lati sul suo volto e non poté vedere i soldati. Subito le domandarono: - Dove essere tedeschi? Mamma senza farsi troppi scrupoli, indicò la sede del comando tedesco che si trovava nella villa di Piacitelli sulla via di Cori a circa 300 metri di distanza da noi. Ricevuta l’informazione, i due si allontanarono nel buio. In quel momento passò un aereo, mamma che li seguiva con lo sguardo vide che con le torce elettriche mandavano segnali verso l’aereo. Certamente mandavano segnali con l’alfabeto morse. Poi spensero le torce e mamma non poté vedere che direzione presero.
Una notte fummo svegliati dal tuono del cannone e immediatamente dall’esplosione di tre granate dirette sulla ferrovia per danneggiare i binari e interrompere le comunicazioni con Colleferro e Terracina. Riuscirono solo a tagliare i cavi della linea telefonica; una quarta granata si era conficcata nel terreno senza esplodere.
Il 22 gennaio 1944 intorno alle ore 9, la sirena diede l’allarme. Di corsa corremmo tutti a rifugiarci dentro la trincea. Scansai le frasche per vedere: un numero incalcolabile di aerei avanzava da sud verso Velletri in un rumore pesante. La nostra vigna in linea d’aria, dista da Velletri circa due chilometri. Ad un certo punto vidi che dagli aerei cadevano delle cose. Pensai che lanciavano dei “bigliettini”, come era avvenuto altre volte, invece, subito dopo udimmo delle esplosioni che facevano tremare la terra. Un fumo nero e denso si alzò sulle zone colpite. Altro che bigliettini: le bombe stavano distruggendo la città. Quel giorno ci furono ben 4 incursioni aeree che seminarono distruzione e morte. Tutto questo per opera dei nostri alleati anglo-americani, …i nostri liberatori! P. Italo Laracca nel libro di “Tra le rovine di Velletri” riporta l’elenco dei morti civili a Velletri a causa della guerra: se ne contano 706.
PAPA' PRESO DAI TEDESCHI
alla fine di marzo del 1944 (la data l’ho ricostruita leggendo il diario di P. Italo Laracca “Tragedia di Velletri”), ci fu lo sfollamento forzato dalla contrada “Le Corti” e da altre contrade perché il fronte della guerra avanzava. Nonna Plautilla con le figlie zie Elena, Elvira e Armida abitavano in quella zona “Rèna dell’Olmo”, via interpoderale di terra battuta. Zio Giovanni era militare, forse già prigioniero in Germania dove poi morì sotto bombardamento. Papà venne chiamato per aiutare nonna e zie a fuggire per non essere inquadrate dai tedeschi, che avevano già iniziato a rastrellare la zona. Papà andò e aiutò la famiglia a portar via qualcosa, si caricò sulle spalle un boccione di vino (un contenitore a forma di bottiglia di circa 25 litri). Dopo qualche ora venne su da noi, tutta trafelata zia Elena dicendo che papà era stato inquadrato dai tedeschi insieme sua madre Plautilla e alle sorelle Armida ed Elvira. Lei l’avevano lasciata andare perché aveva un bambino piccolo da allattare. I tedeschi la lasciarono andare con l’ordine di prendere il bambino e di tornare. Ma una volta libera non tornò indietro.
Intanto cominciavamo a sentire le grida disperate della gente che abitava nelle vigne a sud di noi, perché i tedeschi le inquadravano per lo sfollamento. Mamma era disperata: “dove vado da sola con quattro creature?” E intanto prendeva la cose più necessarie e le metteva dentro una canestra per scappare e non farci prendere dai tedeschi. Io piangevo disperato chiamando papà. Ad un certo punto avvertii un fischio che conoscevo e corsi verso il viale: era papà che era riuscito a fuggire. Mamma ci diede una coperta e disse a papà:” scappa subito perché i tedeschi prendono gli uomini”, Io volli andare con papà. Dopo qualche ora ci ritrovammo tutti presso la casa di amici in via Acqua Palomba, dove rimanemmo per alcuni giorni. Ritrovata un po’ di calma, papà ci racconto la sua avventura. Appena usciti dalla Rèna (così chiamano a Velletri la stradella di terra battuta) dell’Olmo per immettersi sulla strada comunale incontrarono la colonna degli sfollati sorvegliati da tedeschi armati, che ordinarono al gruppetto di mettersi in fila con gli altri. Papà fece finta di non capire, ma un tedesco gli puntò la pistola alle tempie e dovette ubbidire. Così con la madre e le sorelle insieme ad altre centinaia di persone camminavano senza sapere dove li avrebbero portati. Dopo qualche chilometro papà notò che il tedesco che stava davanti stava tentando di accendere la sigaretta con l’accendino ma non ci riusciva, l’altro tedesco era sulla curva della strada e guardava in direzione opposta, si guardò attorno e vide davanti a sé il viale della vigna di Mastrostefano Natale in un attimo imboccò il viale e vedendo le macchine tedesche sul piazzale si ricordò che lì c’era il comando tedesco. Fortunatamente nessuno lo vide, posò a terra il boccione di vino che ancora portava sulle spalle e attraverso la vigna raggiunse il fosso e camminando lungo il fosso riuscì a tornare a casa.
Dal racconto di mia cugina, Antonella Ciotti, figlia di zia Elvira, apprendo che la nonna Plautilla e le zie Armida ed Elvira furono portate a piedi fino a viale Roma, in Velletri, furono poi caricate su camion tedeschi e condotte a Roma per essere trasportate in treno in Germania. Giunti in provincia di Padova, prima che il treno passasse il confine, gli americani bombardarono la ferrovia e il treno dovette fermarsi. I tedeschi fuggirono e consegnarono gli sfollati ai fascisti. Furono alloggiati nei locali scolastici del comune di CARCERI, piccolo centro in provincia di Padova e andavano a lavorare nei campi per mantenersi.
Rimasero lì per 18 mesi. Finita la guerra furono riportati a Velletri.
SFOLLATI A ROCCA MASSIMA
Rimanemmo da questi amici in via Acqua Palomba per qualche giorno, poi i miei pensarono di rifugiarsi in un luogo più sicuro e partimmo in direzione Rocca Massima portando le poche cose che avevamo. Prendemmo la via di Cori. Mio fratello Maurizio aveva appena tre anni un po’ veniva portato in braccio un po’ camminava, io ne avevo sei dovetti fare tutto il viaggio a piedi per circa 15 chilometri. Prima di arrivare a Giulianello notai un tedesco che attraversava i campi portando a mo’ di zaino una bobina di filo rosso che si svolgeva e si posava a terra. Immagino che fosse un filo telefonico. Arrivati a Giulianello passammo sul ponte della ferrovia. Si fece ben attenzione a passare ai lati perché al centro della ferrovia erano state posizionate delle mine, che non furono fatte esplodere neppure quando di lì passò il fronte. Il ponte è ancora in piedi anche se non c’è più la ferrovia; si può vedere a sinistra del ponte di via di Cori prima di arrivare a Giulianello. Proseguimmo la strada per Rocca Massima fino alla località Boschetto poi prendemmo la strada di campagna a sinistra fino alla località Macchiarella. Lì fummo ospitati in una capanna insieme ad una altra famiglia (forse lontani parenti nostri) che abitavano in contrada Malatesta nel territorio di Velletri. Da quella altezza si riusciva a vedere la pianura Pontina e la sera si notavano bene i bagliori delle esplosioni lungo il fronte di guerra. Lì stavamo abbastanza sicuri, ma non troppo.
Quando una colonna di carri tedeschi in ritirata prese la via di Rocca Massima, non sapendo che quella via non aveva sfondo, i caccia americani li inseguirono e li bombardarono, una scheggia sfiorò mio fratello Maurizio e troncò di netto una grossa pianta di vite.
RITORNO DALLO SFOLLAMENTO
Appena passato il fronte, d’accordo con l’altra famiglia, i miei decisero di tornare a casa, alla vigna in contrada Papazzano. Naturalmente si viaggiava a piedi, carichi delle povere cose più necessarie che eravamo riusciti a portare con noi. Lungo la strada erano ancora evidenti i segni della distruzione e di morte della guerra appena passata. Poco prima di arrivare a Giulianello, precisamente subito dopo il passaggio a livello della ferrovia Velletri-Terracina, incrocio via di Rocca Massima e via di Artena, ora non c’è più la ferrovia, avanzando verso Giulianello, sulla nostra sinistra sul prato che fiancheggiava la strada, (ora vi hanno costruito villette) feci il primo incontro con la crudeltà della morte che aveva seminato la guerra. Sul prato era rimasta una gamba intera fino alla coscia di un soldato americano, e dopo un centinaio di metri, l’altra gamba. Lascio immaginare la sensazione che ebbi di fronte a questa scena, che è rimasta viva nella mia memoria fino ad oggi. Proseguimmo la strada verso casa incontrando residuati bellici di ogni tipo, anche un carro armato bruciato. Arrivati alla vigna, l’abbiamo trovata devastata. Qualche carro armato era sceso dalla sede ferroviaria e aveva fatto numerose manovre devastando la vigna.
HO RISCHIATO DI MORIRE BRUCIATO
Era appena passata la guerra a Velletri. Per le strade e nei campi si trovavano residuati bellici di ogni tipo: armi, bombe a mano, mine, bombe inesplose, carri armati bruciati, perfino la carcassa di un aereo caduto in mezzo alla ferrovia nei pressi del ponte S. Alba. Papà trovò una ghirba di benzina. A quei tempi nelle campagne non c’era la luce elettrica e si faceva luce con lumi a petrolio e qualche candela. Papà ebbe un’idea: sostituire il petrolio con la benzina aggiungendo una certa quantità di acqua. La cosa funzionava a perfezione, anche se l’acqua non serviva a niente perché la benzina galleggiava sull’acqua. Una sera, era già buio, papà doveva rifornire il lume di benzina. Accese un mozzicone di candela, che conservava per le emergenze, lo consegnò a me e mi mise lontano da lui, mentre riforniva il lume di benzina. Io avevo sei anni, pensai che a quella distanza papà non potesse vedere bene e mi avvicinai per fargli luce. In un attimo fui avvolto da una fiammata. Scappai fuori della capanna correndo con la fiamma attaccata al polpaccio. Feci un po’ di metri, ma la fiamma non di spegneva: il polpaccio bruciava come un pezzo di legno secco. Per il dolore mi gettai a terra sull’erba sul lato destro, la parte che bruciava. La fiamma si soffocò e si spense. Intanto mio padre colpito anche lui alla mano destra, ebbe la prontezza di prendere una coperta e gettarla sulle fiamme che minacciavano di diffondersi. Così riuscì a spegnere l’incendio che si stava diffondendo. Io ebbi la carne del polpaccio destro e della coscia letteralmente bruciata. Oggi potrei classificarle come bruciature di terzo grado e oltre. I miei non mi portarono all’ospedale, che, oltre tutto era stato distrutto dal bombardamento. E non cercarono neppure un medico, anche questo introvabile in quei giorni. Ci pensò mia madre a curarmi con i metodi della tradizione popolare. Prese vino e olio sbattendoli in un piatto per farli amalgamare e li passò sulle ferite, senza fasciarle. Rimasi a letto per qualche giorno, ma per il dolore piegai il ginocchio e feci combaciare il polpaccio con la coscia. Quando provai a stendere la gamba non ci riuscii più: la coscia e il polpaccio si erano saldati, erano diventati un corpo unico. Per spostarmi mi mettevo a terra e facendo leva con le mani e la gamba sana mi muovevo con fatica. Riuscii anche a stare in piedi e a camminare appoggiandomi ad un bastone, ma sempre con il piede destro piegato e saldato alla coscia. Dopo qualche giorno i miei decisero d’intervenire con i mezzi a loro disposizione, cioè senza niente, solo con la forza delle loro braccia. Mia madre si mise d’accordo con zia Filomena. Non ricordo chi delle due mi teneva mentre l’altra mi prendeva per il piede e tirava. Dopo vari tentativi, con uno strattone più forte il piede finalmente si distese. L’operazione era riuscita! Lascio solo immaginare il mio dolore. Fui curato ancora con olio e vino e la ferita lentamente si rimarginò.
Mi è rimasta la cicatrice su tutto il polpaccio, ma ho dimenticato il dolore.
A distanza di anni, sono convinto che sono vivo solo per grazia di Dio.
Se non mi fossi buttato a terra dalla parte giusta, la fiamma avrebbe raggiunto i calzoncini e la maglietta e io non avrei avuto scampo. E poi, con quelle cure inadeguate, come mai non mi è venuta nessuna infezione? Mi convinco sempre più che il Signore aveva già messo gli occhi su di me: mi voleva prete!
GIOCHI DELL’INFANZIA
Non avevamo molti giocattoli ma ci divertivamo ugualmente. Alcuni li costruivamo noi stessi. Avevo costruito un monopattino prendendo le rotelle da residuati bellici e ne andavo orgoglioso. Anche mio fratello Maurizio ne aveva costruito uno. Facevamo a gara a chi era più veloce.
Un altro gioco era correre spingendo con un rampino un grande cerchio di bótte: faceva un rumore terribile ma anche questo mi divertiva. Il cane giocava con me passando dentro il cerchio mentre si correva.
Non mancava neppure qualche gioco pericoloso. A papà, gli operai che facevano manutenzione sulla linea telefonica della ferrovia avevano regalato, in cambio di un fiasco di vino, un vecchio palo che avevano sostituito con uno nuovo. Papà lo aveva utilizzato come perno di un pagliaio. Alla base era rimasto uno strato di paglia di poco più di un metro. Alla sommità del palo di circa 5 metri erano rimaste ancora le staffe degli isolatori dei cavi telefonici. Mi venne l’idea di tuffarmi dalla sommità del palo sulla paglia. Mi arrampicavo senza difficoltà, mi mettevo in piedi sulle due staffe e mi lanciavo sulla paglia. Il gioco mi divertiva un mondo e lo ripetevo in continuazione senza riposarmi. Ma, forse per la stanchezza, feci un lancio senza distaccarmi troppo dal palo. Una staffa s’infilò nei calzoncini e rimasi penzoloni con la testa all’in giù. Non sapevo come uscirne fuori, feci qualche movimento, si strapparono i calzoncini e caddi con la testa in giù sulla paglia. Fortunatamente non mi feci male, neppure un graffio, ma decisi di abbandonare quel divertimento.
A SCUOLA APPENA PASSATA LA GUERRA
Appena passata la guerra i genitori mi iscrissero alla scuola che si trovava presso la vigna Maggiori sulla via di Cori in contrata Casale. In seguito l’amministrazione comunale costruì un edificio scolastico a pochi metri di distanza da questa vigna: la scuola di Casale. Non ho ricordi particolari sulla didattica ma una cosa mi è rimasta impressa nella memoria: a pochi metri dalla scuola al margine della via di Cori vi era la carcassa di un carro armato bruciato, non ricordo se tedesco o americano che attirava l’attenzione di noi ragazzi. Ma i più grandi si divertivano con giochi pericolosi giocando con residuati bellici. Scaricavano la polvere dalle cartucce del mitra o di mitragliatrice e tracciavano un percorso per terra, poi davano fuoco e si vedeva il fuoco camminare velocemente nel percorso tracciato. Altro divertimento pericoloso era quello di far esplodere la capsula d’innesco della cartuccia vuota con la punta della pallottola: si inseriva in una canna spaccata il bossolo svuotato della polvere, la punta della pallottola si metteva sotto la capsula, si legava il tutto, si lanciava in aria, ricadendo a terra la punta del proiettile percuoteva la capsula che esplodeva. I miei genitori erano preoccupati per questa situazione e ne parlarono con i datori di lavoro sor Valentino Angeloni e la moglie sora Paolina, che avevano una figlia, Giuliana, che andava a scuola a Velletri dalle Suore Pallottine.
LA TRAGEDIA DI COLLE CALDARA
Ricordo qui, la tragedia di Colle Caldara, una località che si trova sulla via dei Laghi, poco più su di dove ora si trova Raffaele. Il fatto è accaduto dopo circa otto anni dal passaggio della guerra. Io ero già in Seminario e frequentavo Era il 30 marzo 1952, Domenica delle Palme verso le ore 10. Ricordo di aver udito lo schianto di una forte esplosione che fece vibrare i vetri delle nostre finestre. Subito dopo si seppe che erano morti dieci bambini per lo scoppio di una mina anticarro. Dalla ricostruzione dei fatti, si seppe che questi bambini aveva trovato una mina anticarro e si erano messi in cerchio intorno ad essa per aprirla percuotendola con un sasso. Forse pensavano di svuotarla della polvere e venderla come ferro vecchio per ricavare qualche soldino. L’esplosione è stata violentissima e ha dilaniato i corpi dei bambini mandandoli in frantumi. L’autista della corriera, che passava in quel momento nella via dei Laghi sottostante, racconta che ha visto pezzi di corpi umani volare in aria. Circa un mese dopo, noi seminaristi siamo andati a vedere il luogo della tragedia. C’erano ancora piccoli frammenti di carne umana attaccata ai tronchi dei castagni circostanti, e il calore del sole ne scioglieva il grasso.
A SCUOLA DALLE SUORE PALLOTTINE
Riprendo il discorso sulla scuola. Siamo nell’anno 1945. Come detto sopra ero stato iscritto alla scuola di Casale, ma i miei genitori erano preoccupati per i rischi che correvo, sapendo che c’erano alcuni ragazzi che giocavano con residuati bellici. Alla fine si lasciarono convincere dai loro datori di lavoro di mandarmi a scuola dalle suore Pallottine e si misero d’accordo che sarei stato accompagnato dalla loro figlia Giuliana che frequentava la classe 5a elementare.
All’inizio mi lasciai accompagnare, ma dopo una ventina di giorni, avendo imparata la strada, andai da solo. Percorrevo tre Km per andare e altrettanti per tornare la sera portando in una mano “la cartella” con il sussidiario e i quaderni, ma questa cartella non era di cartone come avevano gli altri bambini, ma d’acciaio. La forma assomigliava ad una cartella, ma era il contenitore delle cartucce della mitraglia americana. Certamente era resistente, ma anche molto pesante.
Nell’altra mano tenevo il portavivande per il pranzo. Era ben fatto: aveva tre contenitori, uno sull’altro inseriti ai lati a due staffe, fissate al manico. Non so in quale negozio o mercato mia madre era riuscita a trovarlo. Nessuno dei miei compagni ne aveva uno simile. Mi portavo il pranzo perché la scuola continuava anche nel pomeriggio e terminava alle ore 16. Terminata la scuola, riprendevo cartella e portavivande, ora più leggera, e senza nessun problema facevo i tre chilometri di strada per tornare a casa. Così per i cinque anni delle elementari, dal 1945 al 1950. Quando facevo la quarta elementare anche mio fratello Maurizio iniziò a frequentare la stessa scuola, allora si andava insieme.
A scuola dalle Suore Pallottine mi son trovato bene. Le maestre erano suore, molto esigenti secondo i criteri pedagogici dell’epoca, che non si limitavano soltanto a dare la cultura e la buona educazione, ma trasmettevano anche la formazione cristiana. In particolare desidero ricordare una suora, Suor Edvige Baldassarre, che ho avuto come maestra in terza elementare. Era di una bontà unica e lasciava trasparire la sua profonda spiritualità che esercitava su di me un fascino particolare. Suor Eugenia Potentini, esigente, ma buona di animo, mia insegnante in quarta e quinta elementare, che aveva già percepito in me una sensibilità speciale nel campo religioso. Ricordo che quando si faceva il compito in classe di matematica, materia in cui all’epoca ero molto bravo, mi ritirava il foglio e per non farmi suggerire agli altri, mi mandava nella vicina cappella a far compagnia a Gesù. Furono le mie prime esperienze di preghiera personale. Nelle altre materie me la cavavo bene, ma in italiano stentavo a raggiungere la sufficienza, come si può vedere dalla foto della pagella che riporto.
Intanto in me maturava sempre più l’idea di diventare sacerdote, tanto che i miei compagni se ne erano accorti e per offendermi (così pensavano loro) mi dicevano: “prete… prete.”.
Le suore mi fecero parlare con il Parroco di San Salvatore, D. Quinto Ciardi, che s’interessò per farmi entrare in seminario e pensò di indirizzarmi al seminario del Divino Amore, fondato da Don Umberto Terenzi, oggi Servo di Dio, suo compagno di seminario a Roma. La ragione principale era che al seminario diocesano si pagava una retta che i miei genitori non potevano sostenere, mentre al Divino Amore era gratis.
Finita la quinta elementare, dovetti sostenere l’esame di ammissione alla scuola media che superai senza difficoltà. All’epoca era necessario questo esame per essere ammessi alla scuola media e proseguire per gli studi superiori; gli altri, se volevano continuare, si iscrivevano all’avviamento professionale.
LA CITTÀ DEI RAGAZZI
La domenica andavo alla Messa delle nove a S. Clemente, all’epoca mia parrocchia di appartenenza, facendo la scorciatoia, seguendo il sentiero lungo la ferrovia che collegava Velletri alla stazione di Segni in località Colleferro.
Mi ero iscritto, insieme a mio fratello Maurizio, alla “Città dei Ragazzi” animata in modo eccellente da D. Pietro Barsi, sotto la direzione del Parroco Mons. Giuseppe Centra. Ogni domenica alle nove la chiesa di S. Clemente era gremita da centinaia di ragazzi che provenivano, per lo più dalla campagna, facendo a piedi cinque o sei chilometri senza la compagnia dei genitori. A quei tempi camminare a piedi da soli, anche per lunghe distanze non era un problema, ci si era abituati. Ricevetti la Cresima per le mani del Card. Clemente Micara domenica 6 aprile 1947 e feci la Prima Comunione sabato 19 aprile 1947. La mia prima foto fu scattata dal mio Padrino di Cresima Pietro Frattali.
In chiesa c’era sempre la possibilità di confessarsi e io ne approfittavo spesso. Dopo la messa veniva distribuita ai ragazzi una pagnottella con mortadella o salame. Erano gli aiuti della POA (Pontificia Opera Assistenza) del dopo guerra.
Avevamo una tesserina dove veniva messo un timbro di presenza e ci veniva assegnato un biglietto che imitava la carta monet moneta con valori numerati chiamati talenti da spendere per acquisti all’interno dell’associazione, ma qualche commerciante, stava al gioco e potevamo acquistare qualche caramella nel suo negozio pagandola in talenti. Dopo la messa, divisi per gruppi, seguivamo il catechismo. Praticamente tutta la mattinata della domenica la passavamo in parrocchia. Da notare che a quei tempi i genitori non venivano ad accompagnarci né a scuola, né in chiesa. Erano sufficienti le loro raccomandazioni soprattutto di non toccare le bombe (residuati bellici che ancora si potevano trovare).
In una di queste domeniche, dopo aver fatto la comunione alla balaustra, tornai al mio posto e mi misi a fare il mio ringraziamento. In questo raccoglimento avvertii nel mio intimo una voce che mi diceva che sarei diventato sacerdote. Mi ricordo che stavo verso la metà della fila destra dei banchi. L’evento è rimasto impresso in modo vivo nella memoria fino ad oggi. Il Signore si era fatto sentire in modo chiaro.
TU AL “DIVIN AMORE” NON CI ANDRAI!
Superato l’esame di ammissione, dietro indicazione di d. Quinto Ciardi, Parroco di San Salvatore, incominciai a fare i documenti per andare in seminario al Divin Amore. Andai a S. Clemente per fare il certificato di Cresima.
Trovai il parroco Don Giuseppe Centra che mi chiese:
A che ti serve questo certificato ? Monsignore, devo andare in seminario al Divin Amore. Perché non vieni qui al seminario diocesano? Qui si paga la retta e i miei sono poveri e non possono pagarla Tu al Divin Amore non ci andrai.
Fu la risposta decisa e categorica del parroco. D. Giuseppe con un gruppo di “pie donne” della Parrocchia fondarono una associazione (OVE) Opera Vocazioni Ecclesiastiche, che aveva lo scopo di pregare per le vocazioni e di raccogliere una quota da persone che avevano accettato la proposta di dare un’offerta mensile per pagare la retta ai seminaristi poveri. Una piccola parte della retta rimase a carico della famiglia. Anche D. Gino Orlandi che doveva andare in un istituto religioso, fu fermato da D. Giuseppe e indirizzato come me al seminario Diocesano di Velletri.
La Provvidenza ha fatto sì che fossi proprio io ad assistere spiritualmente D. Giuseppe nella sua malattia fino al momento della sua morte.
IN SEMINARIO
Mi accolse con molta gentilezza il rettore del Seminario Mons. Giuseppe Marafini, che nell’anno 1964 fu nominato Vescovo di Veroli e Frosinone.
Gli altri superiori erano: D. Giuseppe Marchetti, vice rettore, D. Anastasio Pica economo, D. Mario Sansoni e P. Vitale cappuccino, come padre spirituale. Nel 1953 vennero a fare da prefetti due sacerdoti novelli: D. Ottaviano Maurizi e d. Massimo Coluzzi.
Un altro sacerdote che mi ha edificato è stato Mons. Ettore Moresi, all’epoca vicario generale. Figura di sacerdote integerrimo. Era stimato e temuto da tutti i velletrani. All’epoca c’erano le rendite dei terreni della chiesa. In genere ai contadini spettavano 4/5 delle rendite, alla chiesa 1/5. A proposito di questo, un contadino mi disse:
“Moresi era preciso come la bilancia del farmacista”.
Nel periodo della guerra era parroco di S. Clemente. Con abnegazione e generosità è rimasto sul campo per assistere la povera gente.
Quando mi conobbe e gli parlai della mia famiglia s’illuminò nel volto e mi confidò che sua madre era Picca Annunziata, cugina di mio nonno paterno Salvatore. Quando era diventato molto vecchio e io ero ai primi anni di teologia, si rammaricava con me perché ormai la sua vita era al termine e non mi avrebbe visto sacerdote. Infatti morì nel 1960 all’età di 87 anni.
Devo dire che tutti i superiori erano abbastanza esigenti, secondo lo stile educativo dell’epoca, ma questa disciplina non mi creava problemi. Le punizioni consistevano nel “mettere in silenzio”. Chi aveva questa punizione, durante la ricreazione, doveva stare in un angolo e non poteva né parlare e né giocare. Eravamo divisi in tre camerate: i piccoli, i mezzani e i grandi. C’era la proibizione di parlare e fare amicizia tra gli appartenenti ad una camerata e l’altra, per evitare di fare “amicizie articolari”. All’epoca non riuscivo a capire il motivo di queste regole, ma a me non creava nessun difficoltà.
Ci consegnarono il libretto della regola e del “galateo”, che ci veniva spiegato punto per punto ogni settimana.
La vita della giornata veniva scandita dalla campanella: cerco di ricostruire, per quanto posso ricordare, l’orario della giornata.
Ore 6 Levata e pulizia personale
6.20 Si scendeva nel cortile interno per fare ginnastica. Corsa intorno al campo ed esercizi vari per sciogliere i muscoli.
Questo anche d’inverno quando il freddo si faceva sentire in tutta la sua portata.
6.40 In cappella per la meditazione
7.00 s. Messa
8 Colazione
8.30-12.30 Scuola con un intervallo per la ricreazione
13 Pranzo
I superiori avevano un tavolo distinto, ma mangiavano con noi. Nella prima parte del pranzo e della cena, a turno si leggeva un buon libro, poi il rettore o chi per lui, suonava il campanello e si poteva parlare.
Anche quando veniva il Card. Clemente Micara, mangiava con noi. .
Dopo il pranzo ricreazione nei tre cortili.
15 Un’ora di scuola
16 – 17 Si usciva per la passeggiata
17.10 Studio
19.30 Rosario in cappella
20 cena e a seguire ricreazione nelle camerate (Ping-pong e altri giochi da tavolo).
21 In cappella per l’esame di coscienza
21.15 Riposo nel più rigoroso silenzio.
Il giovedì non c’era scuola e spesso andavamo al campo sportivo comunale, gentilmente concesso, per fare una partita a pallone. Giocavo in difesa, ma non sono mai stato un grande giocatore.
LA PRIMA DELUSIONE
Ma ecco che arriva la prima delusione: mi accorsi che alcuni erano entrati in seminario solo per studiare. Nella mia ingenuità pensavo che chi entra in seminario è già quasi prete.
In prima media eravamo una ventina circa. Dal Seminario minore di Velletri, siamo arrivati al primo liceo classico in due: d. Gino ed io. Nel seminario maggiore di Anagni che accoglieva i seminaristi delle Diocesi del Lazio Sud in primo liceo eravamo 28, di quei 28 siamo arrivati ad essere sacerdoti 8, qualcuno, purtroppo, è già morto...
LA FORMAZIONE IN SEMINARIO
Nel Venerabile Seminario Vescovile di Velletri, questo era il titolo ufficiale del Seminario minore, mi sono trovato molto bene. Si studiava con impegno e ci si esercitava a crescere nella virtù con l’aiuto del P. Spirituale. In ogni trimestre, veniva esposto nella sala delle udienze un “albo di onore” che riportava i nomi dei migliori della classe per rendimento scolastico. Ho avuto la gioia di vedere il mio nome scritto in quell’albo più di qualche volta.
Il Seminario era un luogo protetto dove i vizi e le cattive abitudini venivano stroncati sul nascere e si poteva crescere nella virtù con maggiore facilità. Il Signore può chiamare ad ogni età, ma quando
le cattive abitudini hanno messo le radici, si fa più fatica per estirparle.
Capita qualche volta di vedere sui polsi di preti e di suore tatuaggi che sono una evidente stonatura con la missione che svolgono. Sono tracce di scelte precedenti che hanno lasciato il segno. Per la vita morale può avvenire qualcosa di simile.
Sia ben chiaro, non critico le vocazioni adulte, magari ce ne fossero, ma mi dispiace vedere che i seminari minori non siano più presi in considerazione e siano quasi scomparsi.
Quando ero in seminario non conoscevo neppure l’esistenza di certi vizi e di certe perversioni, di cui oggi si parla tanto e che riempiono le pagine dei giornali e sono oggetto di continui dibattiti televisivi. La formazione alla virtù va iniziata subito, fin dall’infanzia, dopo potrebbe essere troppo tardi.
Ogni anno, nei primi tre giorni della settimana santa si facevano per tutti gli esercizi spirituali. Si osservava il silenzio assoluto secondo il metodo ignaziano. Non c’era il momento della cosiddetta “condivisione”, oggi tanto di moda. In quei giorni si parlava solo con il Signore, con il predicatore e con il Padre Spirituale. Il predicatore veniva da fuori.
Indossavamo la veste talare con la cotta solo per il servizio liturgico, per stare in coro e per le processioni. Fino al 5° ginnasio indossavamo la divisa quando si usciva. Era un vestito blu, pantaloni e giacca, camicia bianca e cravatta blu, come cappello un basco blu.
La vestizione con la talare da portare in permanenza l’ho fatta con d. Gino, quando entrai nel Pontificio Collegio di Anagni. Ricordo bene la data: Era il 7 ottobre 1955, festa della Madonna del Rosario.
AL SEMINARIO MAGGIORE DI ANAGNI
Superato l’esame statale di riparazione del 5° ginnasio, venerdì 30 settembre 1955, sotto una pioggia battente prendo la corriera per andare ad Anagni accompagnato del Rettore, Mons. Marafini. Eugenio Gabrielli è venuto ad aspettarci al cancello del Collegio Leoniano e ci aiuta a portare i bagagli. Entrato nell’atrio, mi sento accolto da Gesù rappresentato da una grande statua. Mons. Marafini mi saluta e riparte prima del pranzo. Dopo pranzo arriva anche Gino Orlandi, accompagnato con la macchina dallo zio. Dopo cena, con fisarmonica, canti e discorsi si fa festa per l’accoglienza dei nuovi arrivati. Venerdì 7 ottobre, Orlandi ed io, gli unici che non avevano fatta la vestizione nel Seminario minore, nella Messa del mattino indossammo la veste talare, da portare per sempre. Al Leoniano sono rimasto per otto anni. Lì ho fatto il liceo classico, un anno di filosofia e quattro anni di teologia. Avendo riportato nei quattro anni di teologia la media dell’otto ho conseguito il titolo di Baccelliere in Teologia. Come già ho ricordato, al primo anno di liceo eravamo 28 ragazzi, ma lungo il corso degli anni vedevo che molti uscivano dal seminario per propria iniziativa o per consiglio dei superiori.
ESPERIENZE PASTORALI
Quando ero in seminario maggiore di Anagni, nel fine settimana non si andava a casa, come si fa oggi, per fare esperienza pastorale nelle parrocchie della propria diocesi, ma ogni domenica si andava nelle parrocchie di Anagni per animare la Messa dei ragazzi e per fare catechismo. Si tornava in collegio per il pranzo. La sera ci si raccoglieva in cappella per il canto dei vespri accompagnati dall’organo. Mi piaceva tanto il salmo 113, In exitu Israel de Aegypto, nella melodia del tonus peregrinus. Non so perché, ma quelle note mi penetravano dentro e impregnavano tutto il mio essere in una commozione che non saprei descrivere. Anche oggi, quando nella comunità di suore contemplative, dove vado a celebrare ogni settimana, intonano questa melodia nel canto delle lodi, provo la stessa commozione, sembra che gli anni non siano passati. Con i miei compagni spesso ci trovavamo a pensare al futuro, facevano progetti di apostolato, ci scoprivamo pieni di entusiasmo e di iniziative per quello che avremmo fatto da sacerdoti. Mi trovavo in piena sintonia con Cosimino Fronzuto della Diocesi di Gaeta. Da sacerdote ha svolto la sua missione in modo esemplare. Purtroppo è morto giovane divorato da un tumore. Andai a trovarlo in ospedale a Formia: anche se aveva dolori fortissimi, riusciva a sorridere con le persone che andavano a trovarlo. A Gaeta ha lasciato un ricordo indimenticabile di un santo sacerdote... Ringrazio Dio per avere avuto compagni di seminario che mi sono stati di incoraggiamento e di esempio per santità di vita. La vita in seminario continuava senza problemi, anche se non mancavano dibattiti per confronto di idee. Ricordo che discutevo con i miei compagni sull’opportunità della liturgia in latino. Mi Mi battevo molto nel difendere la necessità d’introdurre nella liturgia la lingua viva del popolo. Per questo i miei compagni mi prendevano per un “contestatore,” anche se questa parola è entrata nell’uso ordinario solo dopo il “sessantotto”. Anche per gli studi teologici si parlava in latino. Quando il professore c’interrogava dovevamo rispondere in latino, un latino scolastico semplice. Anche questo lo vedevo come un limite per l’integrazione con la cultura contemporanea.
DUE MORTI IMPROVVISE
Nel 1956 ho visto la morte da vicino: due miei compagni di seminario sono morti improvvisamente. Questi eventi mi hanno scosso dal profondo. Erano gli ultimi giorni che passavamo nella villa del seminario a Norma. Io avevo terminato il I liceo ad Anagni e passavo le vacanze facendo l’assistente (si diceva, il prefetto) dei ragazzi del Erano Erano gli ultimi giorni che passavamo nella villa del seminario a Norma. Io avevo terminato il I liceo ad Anagni e passavo le vacanze facendo l’assistente (si diceva, il prefetto) dei ragazzi del seminario minore. Si organizzò una gita alle sorgenti dell’acqua solfurea alle falde del monte di Sermoneta. Naturalmente si camminava a piedi. Nel pomeriggio riprendemmo la strada del ritorno affrontando la ripida salita da Ninfa a Norma percorrendo l’antica mulattiera (la via più beve, ma anche la più disagiata). Dopo aver percorso qualche chilometro improvvisamente un ragazzo, Luigi Cianfoni di Rocca Massima (LT) si sentì male. Con un altro ragazzo più robusto intrecciammo le mani per formare un sedile per far sedere Luigi e così salire la montagna. Ogni tanto ci davamo il cambio e così riuscimmo a portalo a casa. Fu chiamato il medico che immediatamente lo fece ricoverare all’ospedale di Latina. Dopo qualche giorno arrivò la notizia che Luigi era spirato santamente accompagnato dalla visione di Angeli. Era il 4 settembre 1956. Aveva 14 o 15 anni. Era mio intimo amico che stimavo molto per la sua vita di pietà, per il suo carattere docile e per il suo impegno negli studi. Sarebbe stato un ottimo sacerdote. Questo evento lasciò una traccia profonda nel mio animo.
Finite le vacanze, tornai ad Anagni, al Pontificio Collegio Leoniano e iniziai il II anno del liceo. Il 4 novembre si faceva festa per la ricorrenza di s. Carlo Borromeo, patrono dei seminari. Per l’occasione si organizzavano gare sportive tra le varie classi. Quell’anno eravamo 135 seminaristi. Nella gara di palla a volo giocava un ragazzo alto e forte, molto bravo in questo sport, Francesco Zeppieri, aveva circa 20 anni e frequentava il corso filosofico, era della diocesi di Veroli. Nell’intervallo tra il primo e secondo tempo salì in camera, ma non lo videro scendere per iniziare il secondo tempo. Qualcuno andò a chiamarlo e lo trovò steso a terra, morto. Tutti rimanemmo sotto shock per parecchi giorni.
Questo era il secondo caso in due mesi esatti. Lasciò in me un’impressione profonda che mi portò a pensare che anch’io sarei morto giovane.
LA FORMAZIONE SPIRITUALE
Ho ritrovato tra le cose che avevo dimenticato dentro scatoloni, alcuni quaderni di appunti spirituali, addirittura un quaderno dedicato ai miei colloqui con alcuni Padri spirituali: P. Riccardi e P. Tomè, gesuiti. In questi appunti, che riflettono il mio cammino spirituale proporzionato all’età, traspare il desiderio sincero di conoscere bene la vocazione alla quale il Signore mi chiamava e di prepararmi con impegno. Ho ritrovato dei grafici che realizzavo per visualizzare in concreto il cammino che facevo per superare i difetti e acquistare le virtù. Nessuno me lo aveva suggerito, ma è stata una mia idea che all’epoca mi aiutava. Oggi qualcuno potrà sorridere leggendo queste modalità, ma anche questo mi ha aiutato per la formazione spirituale. Si facevano anche esercitazioni oratorie per preparare le omelie. Ne ho ritrovata una sull’amore fraterno del 15 marzo 1957 (frequentavo il II liceo classico) con il giudizio di P. Giacomo Martina S.J. che mi piace riportare qui perché mi sembra che abbia colto bene alcuni punti del mio stile:
“IMPRIMATUR. Però si vede in questa predica tutto il carattere dell’autore, (lo stile è l’uomo!), carattere così simpatico e sincero, che a me piace tanto per la sua freschezza, spontaneità (tu non sapresti mai fingere, è una bellissima cosa), ma anche un po' immaturo, che procede più a slanci irregolari che con metodo costante, più per via di fantasia e di immaginazione che basandosi sulla ragione, più per sprazzi che per un insieme ben ordinato. Sei in formazione, ecco tutto: una crisalide che sta per trasformarsi in un insetto perfetto, e si dibatte nel bozzolo fra gli ultimi fili. Come si riflette tutto questo in questa predica? Non c’è un’idea centrale attorno alla quale tutto si svolga, che tutto domini, un’idea che resti ben fissa nella mente degli ascoltatori. Ci sono varie idee, belle, buoni esempi, manca un insieme organico. Verrà piano in questi anni. Alla fine la crisalide si trasformerà in farfalla e spiccherà il volo! “Nulla di più bello, nulla di meglio che sentirsi spuntare le ali per il volo!”
ARRIVA IL MOMENTO DELLA CRISI
Frequentavo il primo anno di Teologia. Nella mia diocesi di Velletri ci fu un grave scandalo: un sacerdote molto attivo, che riusciva ad attirare numerosi ragazzi e giovani e che io stimavo molto, anzi lo vedevo come un modello da imitare, improvvisamente aveva lasciato il sacerdozio ed era fuggito con una ragazza. A quei tempi questi casi erano rarissimi ed era un grosso scandalo che aveva ripercussioni molto gravi nella comunità dei fedeli. Io rimasi letteralmente scioccato, entrai in una profonda crisi. Andavo pensando: e se un domani succedesse anche a me una cosa del genere? Meglio fermarsi adesso che creare uno scandalo dopo. Questo pensiero si era fissato nella mia mente e non mi lasciava né notte né giorno, avevo perso la serenità. Stavo pensando seriamente di uscire dal seminario e andai a parlare con il Rettore, P. Adolfo Bachelet. Mi ascoltò con atteggiamento paterno e poi mi disse: sei libero di fare la tua scelta, ma io vedo in te i segni di una vocazione autentica. Se coltiverai la tua vita spirituale seriamente, con la preghiera e con la direzione di un Padre Spirituale, se eviterai di esporti a situazioni rischiose, la grazia di Dio ti aiuterà a superare eventuali tentazioni.
Per quanto riguarda lo scandalo di quel sacerdote, ricordati che fa più fracasso un albero che cade che una foresta che cresce. Queste parole mi diedero un sollievo particolare, le custodii nel mio cuore e decisi di andare avanti con l’aiuto di Dio. Ringrazio Dio che negli anni di formazione mi ha messo vicino superiori ben preparati ed esemplari per virtù. In quei tempi non mancava la disciplina, ma ringrazio Dio anche per questo, perché ha contribuito a rafforzarmi nell’affrontare le difficoltà.
CAMPEGGI con P. BACHELET
Nel periodo estivo P. Bachelet organizzava per noi seminaristi i campeggi in montagna. Anche questa era una scuola di vita. Ci si abituava a vivere senza troppe comodità e a lavorare in equipe. Il rettore ci divideva in quattro gruppi con a capo un capogruppo: un gruppo doveva cucinare per tutti, un altro doveva preparare un trattenimento serale intorno al falò, un altro gruppo pensava alla pulizia del campo e in fine il quarto gruppo doveva procurare la legna nel bosco per cucinare e per il falò serale. Le attività erano a rotazione giornaliera in modo che ognuno poteva esercitarsi in tutte le esperienze. C’erano poi le escursioni in montagna. Si partiva verso le tre di notte per camminare con il fresco. Si andava in fila indiana muniti di torce elettriche, con lo zaino in spalla per la colazione e il pranzo. Il rettore come capofila, aveva le carte topografiche militari (era figlio di un generale dell’esercito) che indicavano il sentiero da seguire e un altro responsabile chiudeva la fila. Era rigorosamente vietato distaccarsi dal gruppo anche perché era possibile incontrarsi con qualche orso, fortunatamente non è mai successo. La scalata sul monte Amaro (2.793), la cima più elevata del massiccio della Maiella, è stata l’impresa più faticosa, ero tentato di fermarmi e di rinunciare a salire sulla vetta, ma vedendo i miei compagni avanzare, anche se con fatica, ho preso coraggio e ho proseguito. Non dico la contentezza e la felicità che ho provato per essere arrivato alla meta. Il panorama era splendido, riuscivo a vedere il mare Adriatico a oriente e il mar Tirreno a occidente. Trovai anche qualche stella alpina che ho conservato gelosamente tra le mie cose.
LEZIONE DI GINNASTICA …. LEZIONE DI VITA
Ogni settimana c’era l’ora di ginnastica. Veniva a farci lezione un professore molto giovane poco più grande di noi. Qualcuno cominciò a fare confusione. Altri lo seguirono rendendo difficile lo svolgere della lezione. Il rettore, P. Bachelet, dalla finestra notò la situazione. Scese immediatamente, disse al professore di schierarci sull’attenti. Ci aspettavamo un rimprovero con una punizione solenne. Il rettore si rivolse al professore con queste parole: “Professore, sono io il responsabile dell’educazione di questi ragazzi, le chiedo scusa per il loro comportamento nei suoi riguardi: se le hanno mancato di rispetto, è colpa mia, perché significa che non ho saputo educarli come si deve.”
Salutò il professore e se ne andò via.
Rimanemmo come pietrificati. Ci saremmo messi sotto terra.
Per qualche minuto restammo immobili in silenzio.
Non ci fu mai rimprovero più efficace.
Basta questo episodio per far capire la personalità di P. Adolfo Bachelet.
Ringrazio Dio per avere avuto educatori di questa tempra!
Gino Picca è stato un mio carissimo amico fin dall’infanzia. È anche un mio lontano parente e ha un anno meno di me.
Abbiano frequentato la stessa scuola elementare presso le Suore Pallottine in Velletri. Io sono entrato nel seminario di Velletri in prima media lui dopo la terza media. Dopo il 5° ginnasio, mi ha raggiunto al Collegio Leoniano di Anagni. Sognavo di svolgere la missione sacerdotale insieme a lui nella Diocesi di Velletri, invece il Signore ha voluto diversamente. Nel 1961 mi confidò che si sentiva chiamato per andare missionario. Devo confessare che lì per lì sentii un po' di dispiacere per non poter lavorare insieme, ma mi ripresi subito e lo incoraggiai a seguire la chiamata del Signore. A quei tempi i missionari erano ammirati come eroi che lasciavano tutto e mettevano a rischio anche la vita per portare il Vangelo nelle regioni più lontane. Dovetti incoraggiare anche sua madre che piangendo mi chiedeva di dissuaderlo dal partire. Nella foto, P. Gino con la talare bianca e con il crocifisso, (così vestivano i missionari a quei tempi) circondato dai suoi compagni di corso del Collegio Leoniano di Anagni che è venuto a salutare prima di partire. Il 9 gennaio 1964 parte per la missione nell’isola di Formosa (Cina nazionalista). Terminati gli studi di teologia viene ordinato sacerdote il 28 giugno 1969 nella chiesa della S. Famiglia a Taipei. Nel 1970 viene nominato parroco a Hukou, successivamente a Chupei, a Hsinchu, a Kaohsiung. Nel 1991 parroco della chiesa della S. Famiglia e in seguito, nel 2000 direttore del Tien Educational Center a Taipei. Nel 2013 Parroco della Santa Famiglia a Taipei (2da volta) nel 2016 Parroco a Tainan, (Sud) Chiesa del Sacro Cuore. Ultimamente dal 25 settembre al 19 novembre 2023 è tornato in Italia per salutare parenti ed amici. Alla partenza l’abbiamo abbracciato nella speranza di poterci rivedere fra qualche anno. Purtroppo non sapevamo che quello era l’ultimo abbraccio. Colpito da un ictus il 20 febbraio 2024 a Taipei ha terminato la sua esistenza terrena per iniziare la vita eterna.
IL CAMMINO VERSO IL SACERDOZIO
Ai miei tempi, prima del Concilio Vaticano II, l’ordinazione sacerdotale era preceduta dagli ordini minori che venivano conferiti dopo la prima tonsura (o chierica, rasatura circolare dei capelli sulla nuca) con la quale si entrava nella categoria dei chierici, distinta dai laici e si veniva immessi in una determinata diocesi o in un ordine religioso. Oggi si entra a far parte dei Chierici con il conferimento del diaconato. Io ho ricevuto la prima tonsura il 7 agosto 1960, insieme a D. Gino Orlandi, nella cappella della villa del seminario a Norma.
Nella foto con mia sorella Lina nel giorno della mia prima tonsura.
Mia sorella Lina aveva scelto di non sposarsi per stare con me quando sarei diventato sacerdote. Purtroppo nel 1965 fu colpita da Leucemia mieloide cronica.
Fu ricoverata al Policlinico Umberto I di Roma e varie volte all’ospedale di Velletri, per essere sottoposta a trasfusioni di sangue. Agli inizi del 1973 fu ricoverata di nuovo all’ospedale di Velletri ma questa volta si aggravò seriamente e la convinsi a farsi ricoverare al policlinico Umberto I, ma anche lì non ci fu alcun miglioramento. Dietro sue insistenze, la riportai all’ospedale di Velletri e dopo una settimana di degenza, confortata dai sacramenti e dalle preghiere, morì serenamente. Era il 1 marzo 1973, aveva 39 anni. Prima di morire mi confidò che offriva la sua vita per la santificazione dei sacerdoti. Non mi ha potuto assistere materialmente, ma l’ho sentita sempre vicina. Ringrazio il Signore che non mi ha fatto mancare niente nella mia vita sacerdotale.
A - GLI ORDINI MINORI
Gli ordini minori venivano conferiti dal Vescovo ed erano i seguenti:
1. L’Ostiaiato: affida il compito della custodia delle porte della chiesa, di accogliere i fedeli, respingere gli indegni e suonare le campane.
2. Lettorato: ancora oggi autorizza il ministero di proclamare la Parola di Dio nella liturgia. Ho ricevuto gli ordini minori dell’Ostiariato e Lettorato, insieme a D. Gino Orlandi, il 23 dicembre 1961 nella cappella del Collegio Leoniano di Anagni. Celebrante Mons. Luigi Carli, vescovo di Segni. (v. foto; notare la chierica sulla nuca)
3. L’Esorcistato: dava la facoltà di fare particolari preghiere sui catecumeni, in previsione del loro battesimo. Ma l’esorcismo sui posseduti dal diavolo veniva assegnato dal vescovo, come sempre, ad un sacerdote debitamente preparato.
4. L’Accolitato: è il ministero che abilita al servizio dell'altare, soprattutto nella Messa.
Ho ricevuto gli ordini minori dell’Esorcistato e Accolitato, insieme a D. Gino Orlandi il 7 aprile 1962 nella cappella del Collegio Leoniano di Anagni
B - ORDINI MAGGIORI
Seguivano poi gli Ordini Maggiori, ed erano:
A. Suddiaconato: era considerato il primo tra gli Ordini Maggiori. Chi lo riceveva accettava l’obbligo del celibato, della preghiera liturgica del “Breviario” (Liturgia delle ore) e aveva un ruolo particolare nella celebrazione della Messa solenne. Nel corso della cerimonia il Vescovo ricordava questi obblighi e invitava chi li accettava a fare un passo avanti. A questo invito tutti noi ordinandi, abbiamo fatto con determinazione un passo avanti. Oggi, con la riforma dopo il Concilio Vaticano II, questo ordine è stato abolito. (Paolo VI MOTU PROPRIO MINISTERIA QUAEDAM del 15.8.1972)
B. Diaconato: ai miei tempi esisteva soltanto il Diaconato transeunte, cioè di passaggio, in vista di una futura ordinazione al Presbiterato.
Con la riforma è stato ripristinato il Diaconato Permanente per un servizio alla comunità cristiana senza essere ordinati presbiteri. I Diaconi sono ministri ordinari del Battesimo e della Comunione, possono essere delegati per assistere al Matrimonio, possono impartire la benedizione eucaristica e alcune benedizioni.
Ho ricevuto l‘ordine maggiore del Diaconato il 31 marzo 1963, insieme a D. Gino Orlandi, nella Cattedrale di S. Clemente in Velletri per le mani di Mons. Primo Gasbarri, vescovo ausiliare.
SACRAMENTO DELL’ORDINE SACERDOTALE
Con il sacramento dell’Ordine il Presbitero riceve la potestà
- di celebrare il Sacrificio della santa Messa rendendo presente Gesù stesso nella santissima Eucaristia; - di rimettere i peccati nel sacramento della Penitenza; - di confortare gli ammalati con il sacramento dell’Unzione degli Infermi; - di predicare il Vangelo e - di guidare le anime sulla via della salvezza.
“I presbiteri, pur non possedendo l'apice del sacerdozio e dipendendo dai vescovi nell'esercizio della loro potestà, sono tuttavia a loro congiunti nella dignità sacerdotale e in virtù del sacramento dell'ordine ad immagine di Cristo, sommo ed eterno sacerdote (cfr. Eb 5,1-10; 7,24; 9,11-28), sono consacrati per predicare il Vangelo, essere i pastori fedeli e celebrare il culto divino, quali veri sacerdoti del Nuovo Testamento.” (Lumen Gentium n. 28)
ORDINAZIONE SACERDOTALE
Sono stato ordinato Sacerdote nella Cattedrale di S. Clemente in Velletri insieme a D. Gino Orlandi nella mattina di sabato 29 giugno 1963 festa dei Santi Pietro e Paolo (allora di precetto) per le mani di S. Ecc. Mons. Primo Gasbarri, Vescovo Ausiliare. Ho celebrato la Prima S. Messa, la domenica seguente 30 giugno, sempre nella Cattedrale di S. Clemente.
INIZIO DEL MINISTERO SACERDOTALE
Il mio primo incarico, dopo l’ordinazione, è stato quello di Prefetto (assistente) e di insegnante di Scienze nel seminario minore di Velletri. Nei giorni festivi, a bordo della “Lambretta” carenata, che mi prestava D. Giuseppe Caselli, all’epoca vice rettore, mi recavo a dire messa nella campagna della parrocchia di S. Clemente. Prima tappa ore 9 nella scuola di Pratolungo, quando ancora non c’era la chiesa; ore 10,30 nella chiesetta di S. Paolo sulla via dei Cinque Archi, infine alle ore 12 nella chiesetta di contrada Landi, di fronte all’attuale carcere, non dove poi è sorta la nuova parrocchia. All’epoca vigeva la regola del digiuno assoluto dalla mezzanotte prima della comunione, non era permesso neppure bere l’acqua. A noi sacerdoti, quando dovevamo binare o trinare (celebrare 2 o 3 messe nello stesso giorno), era consentito di bere la poca acqua che serviva per la purificazione del calice. I fedeli che volevano comunicarsi venivano alle prime messe del mattino. Nelle messe della tarda mattinata si saltava spesso la distribuzione della S. Comunione perché i fedeli non resistevano a mantenersi digiuni. Tornavo in seminario all’ora di pranzo e riprendevo il mio ruolo di prefetto dei seminaristi. Quando c’era bisogno celebravo la messa in cattedrale e ascoltavo le confessioni. (A quei tempi il vescovo concedeva la facoltà di confessare gradualmente: prima veniva data la facoltà solo per i bambini, poi si passava anche agli uomini e infine alle donne).
CAPPELLANO ALL’OSPEDALE DI VELLETRI
I Padri “Servi dei poveri”, popolarmente detti “Bocconisti” (davano un boccone ai poveri), Erano ospitati nei locali della chiesetta del Crocifisso ed erano incaricati dell’assistenza spirituale dell’ospedale. Nel luglio del 1966 lasciarono Velletri e il servizio all’ospedale. Io fui inviato dal Vicario Generale, Mons. Raffaele Guarnacci a ricoprire questo incarico finché non si fosse provveduto diversamente. Accettai con serenità, ma anche con una certa apprensione, perché ancora non avevo assistito nessun moribondo. Conoscevo il rito per l’amministrazione dell’Estrema Unzione (così allora si chiamava), ma ancora non avevo assistito nessun moribondo. Avevo la camera adiacente alla Cappella. La prima sera andai in camera per riposare, ma passai tutta la notte in bianco, preso dal timore di non poter sentire se mi avessero chiamato. La seconda notte mi addormentai dopo la mezzanotte. La terza notte ero talmente stanco che mi addormentai subito. Verso mezzanotte sentii bussare alla porta: era la suora del servizio notturno che mi chiamava per andare ad assistere una moribonda alla camera n. 12 (a quei tempi c’erano le camerette a pagamento). Andai di corsa, le diedi l’estrema unzione e mi trattenni a pregare per lei. Poi mi fermai a far compagnia alla sorella che si trovava sola in quella situazione, ma anche perché avevo la curiosità di vedere, per la prima volta, il momento del trapasso di una persona. Ogni tanto passava il medico che m’invitava ad andare a riposare, ma io sono rimasto a pregare e a far compagnia alla sorella fino al momento della morte, che avvenne in modo sereno alle ore 5 del mattino. Questa la prima esperienza di assistenza ad un moribondo.
Entrai nel ruolo di cappellano con tutta l’anima. Quando sentivo la sirena dell’ambulanza che arrivava, correvo subito al Pronto soccorso per portare il soccorso spirituale. Visitavo gli ammalati, dicevo loro parole di conforto e di fede, che accettavano con serenità. Ma dovevo controllare il mio atteggiamento.
Un giorno ero stato a visitare il reparto maternità e avevo espresso la mia gioia per la nascita dei bambini e avevo il volto sorridente e raggiante. Scendendo le scale per andare nel reparto chirurgia dove c’era un moribondo mi accorsi di avere un volto troppo gioioso e dovetti cambiare espressione; mi ricordai di quello che dice S. Paolo nella lettera ai Romani (12,15): “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto.”
Un giorno mi chiamarono per avvicinare un giovane ammalato, esploso in una crisi violenta, lanciava bottiglie di vetro ai medici e infermieri che provavano ad avvicinarlo. Entrai nella corsia con molta prudenza, ma mi accorsi subito che la mia presenza non lo disturbava e mi avvicinai e lui mi aprì il suo animo: pensava di essere arrivato alla fine, si tolse la fede e me la diede perché la consegnassi alla moglie. Parlammo a lungo e si rasserenò. Con l’aiuto di Dio si riprese e guarì completamente.
Rimasi come Cappellano dell’ospedale di Velletri per un paio di mesi. Poi fu nominato Cappellano D. Silvestro Radicchi che vi rimase per molti anni. La mia fu un’esperienza breve, ma molto importante; mi fu molto utile per esercitarmi nell’apostolato con gli ammalati.
ARCIPRETE PARROCO
Di S. Michele Arcangelo in Rocca Massima (LT)
Il 3 settembre 1966 vengo nominato Parroco della Chiesa S. Michele Arcangelo nella cittadina di Rocca Massima, da S. E. Mons. Arrigo Pintonello, Amministratore Apostolico della Diocesi di Velletri, dopo la morte del Card. Clemente Micara. Ho accettato con piacere ma mi sono anche domandato: come mai senza essere stato prima vice parroco, a 28 anni vengo nominato Arciprete parroco di un intero paese di 1300 abitanti? La risposta l’ho saputa qualche mese dopo: nessuno dei preti interpellati prima di me aveva accettato. D. Angelo Lopes lasciava Rocca Massima, dove era stimato e benvoluto, per ricoprire la carica di Arciprete di San Salvatore in Velletri. D. Angelo mi presentò come suo successore, ma i parrocchiani facevano fatica a credergli: mi avevano scambiato per seminarista. Una vecchia signora mi disse davanti a tutti: come farai a fare il parroco, ti puzza ancora la bocca di latte!? Questa fu la prima accoglienza. Ma poi, piano, piano cambiarono opinione e quando andai via non mi volevano lasciar partire. La presa di possesso avvenne il 9 ottobre 1966 alle ore 12 nella chiesa di S. Michele Arcangelo alla presenza di molti fedeli, di Mons. Domenico Fagiolo delegato vescovile della diocesi e del cancelliere vescovile D. Anastasio Pica. Testimoni furono il Sindaco, dott. Dino Pallocca e il maresciallo comandate della Stazione dei Carabinieri Roberto Alaibak. Il 4 novembre celebrai la messa per i caduti della prima guerra mondiale. Per l’occasione la chiesa era gremita di fedeli. Terminata la cerimonia, quando la chiesa si era appena svuotata, una raffica di vento fortissima sfondò la vetrata del finestrone che è sulla facciata, lanciando i vetri fino oltre la metà della navata della chiesa. Se questo fosse avvenuto qualche minuto prima, avrebbe fatto una strage.
LA DEVI AMMAZZARE !
Correva l’anno 1967. Ero parroco a Rocca Massima, ero giovanissimo avevo 29 anni. Ogni settimana andavo nella scuola elementare in località Boschetto per fare le venti ore di religione. Una mattina arrivo a scuola e trovo le maestre sconvolte. Mi dicono che i bambini della famiglia di Giulio (nome di fantasia) non c’erano. Mi riferiscono che la mattina, prima dell’alba quando il padre, pastore, era andato alle pecore, la mamma già d’accordo con un camionista, aveva caricato sul camion le poche cose che arredavano la povera casa ed era fuggita con i cinque figli alla volta della Romagna dove stavano i suoi genitori. Lei pensava che il marito, dopo tante insistenze andate a vuoto, si sarebbe finalmente deciso a seguirla in Romagna dove avrebbe trovato un lavoro in fabbrica. Mi dicono che il marito, ritornando a casa e avendola trovata vuota era andato su tutte le furie ed era ritornato a pascolare le pecore sulla montagna.
Rinuncio a far lezione. Mi faccio dare indicazioni dalle persone che l’avevano visto in quale direzione era andato e a bordo della mia cinquecento mi avvio a cercarlo sulla montagna. C’era solo una mulattiera piena di sassi, ma la mia piccola cinquecento saltando da un sasso e l’altro andava avanti. Finalmente vedo il pastore, aveva una pagnotta di pane sotto il braccio e il fucile a tracolla. Devo confessare che ebbi un po’ di paura. Scesi dalla macchina e gli andai incontro. Anche lui venne verso di me: dagli occhi azzurri e profondi sgorgavano grosse lacrime. Mi abbracciò e piangendo mi disse: “Don Paolo, avevo una bella famiglia, ora sono rimasto solo senza niente”. Lo lasciai sfogare. Le sue lacrime avevano bagnato abbondantemente la mia veste talare. Lì, soli sulla montagna avevo scoperto che dietro l’aspetto burbero di un pastore si nascondeva un cuore sensibile che amava profondamente la sua famiglia. Lo rassicurai che non l’avrei lasciato solo e che avrei fatto del tutto per rintracciare e riunire la sua famiglia. Ci lasciammo commossi, avevo visto germogliare la speranza in un cuore ferito nell’intimo.
Nei giorni che seguirono mi mantenni in contatto con Giulio, ma venni a sapere che il fratello lo istigava ad uccidere: “la devi ammazzare, perché ti ha offeso troppo!”
Io continuai a incontrare Giulio e cercavo di dargli speranza e di non ascoltare il fratello. Un giorno mi telefonò dicendomi che aveva deciso di partire per andare dalla moglie. Cercai di rintracciare il parroco del paese dove si trovava la moglie, lo informai, per telefono, della situazione e lo avvertii della prossima venuta del marito gli raccomandai di stare vicino a questa famiglia. Da quel giorno intensificai la preghiera perché tutto si risolvesse nel migliore dei modi. Passò qualche giorno senza avere notizie. Ero in pensiero e temevo il peggio. Finalmente mi arrivò una telefonata, era Giulio: “don Paolo, vieni a cena da noi, ho riportato qua tutta la mia famiglia”. Continuai ad incontrarlo finché rimasi parroco di Rocca Massima. Qualche volta lo incontravo per Velletri, quando mi vedeva, quegli occhi azzurri gli brillavano di gioia. Anche il fratello era cambiato e si mostrava riconoscente.
ISTITUZIONE DELLA DIOCESI DI LATINA-TERRACINA, SEZZE E PRIVERNO
La Diocesi suburbicaria di Velletri comprendeva le seguenti città: Velletri (Lariano, all’epoca, era frazione del Comune di Velletri), Latina, Cisterna, Norma, Cori (Giulianello Frazione di Cori), Rocca Massima, e Campomorto (poi chiamato Campoverde), Frazione di Aprilia. Eccetto Velletri (RM), tutte le altre località erano in provincia di Latina. Sinceramente, tra noi sacerdoti non si parlava di una erigenda diocesi di Latina. Il giorno 12 settembre 1967 tutti i sacerdoti della Diocesi di Velletri eravamo riuniti presso la Curia vescovile di Velletri per il ritiro mensile sotto la direzione dell’Amministratore Apostolico, Mons. Arrigo Pintonello. Alle 12,30 terminò il ritiro e tutti tornammo alle nostre parrocchie. Appena entrato in canonica mia sorella Lina, mi disse subito che la radio aveva annunciato che era stata fatta la Diocesi di Latina. Rimasi sconcertato e incredulo. Pensai che mia sorella si fosse sbagliata nell’ascoltare la notizia. Aspettai il bollettino del Lazio delle 14,30. La notizia era vera: era stata istituita la Diocesi di Terracina–Latina, Sezze, Priverno ed era stato nominato Vescovo di questa Diocesi Mons. Arrigo Pintonello. Tutta la parte del territorio della Diocesi di Velletri che era in provincia di Latina, passava alla nuova Diocesi. Era diffusa l’idea che i confini di una diocesi dovevano rimanere all’interno di una stessa provincia. Alla Diocesi di Velletri, in provincia di Roma, rimase solo la città di Velletri. Ci rimasi male. Come mai Mons. Pintonello non aveva data la notizia quando tutti i preti erano ancora riuniti dopo le ore 12, quando terminava l’obbligo del segreto? Forse temeva una reazione negativa. Veniva lasciata ai preti la facoltà di scegliere la Diocesi dove rimanere. Io pensai di tornare a Velletri, anche perché mia sorella Lina, malata di leucemia mieloide, aveva sempre più spesso bisogno di ricoveri ospedalieri per fare trasfusioni di sangue. Andai a parlare col Vescovo Mons. Pintonello che risiedeva a Terracina, perché a Latina non c’era né Curia, né Episcopio. Il Vescovo respinse le mie dimissioni e mi convinse a rimanere a Rocca Massima perché non aveva altri preti da mandarvi. Rimasi in parrocchia per altri mesi, ma le condizioni di salute di mia sorella si aggravavano e il desiderio di tornare nella Diocesi di Velletri si rafforzarono sempre di più in me. Presentai di nuovo le mie dimissioni al Vescovo Mons. Pintonello e lasciai la Parrocchia di Rocca Massima il 31 luglio 1968 con grande dispiacere dei parrocchiani.
RITORNO A VELLETRI
In data 2 ottobre 1967 era stato nominato Amministratore Apostolico della Diocesi di Velletri Mons. Luigi Punzolo. Parlai con lui che mi accolse e mi nominò Vice Parroco di S. Maria in Trivio dove era Parroco Mons. Domenico Fagiolo e Vice Parroco D. Gaetano Zaralli. Mi sistemai nella casa paterna in Contrada Papazzano e tutto il giorno mi dedicavo alle opere di apostolato in Parrocchia (Messe, confessioni, catechismo, assistenza spirituale agli infermi, insegnamento della religione nell’Istituto Statale d’Arte, e nelle scuole elementari per le 20 ore integrative nelle scuole di campagna).
Durante i mesi estivi preparavo i bambini alla Prima Comunione e alla Cresima in campagna presso la casa di contadini che ci offrivano ospitalità in qualche stanza o sotto una pergola o all’ombra di qualche albero. Il corso durava un mese, ma si faceva tutti i giorni. All’epoca si faceva Comunione e Cresima insieme. Spesso raggiungevo per strada i bambini che venivano al catechismo aprivo la capote della “cinquecento” li facevo mettere in piedi per far entrare in macchina il maggior numero di bambini possibile. Nel 1970 Mons. Domenico Fagiolo, lasciò la Parrocchia di S. Maria in Trivio e gli successe Mons. Marcello Ilardi; io continuai ad essere Vice Parroco.
È GRAVE, MA NON GLIELO FACCIA CAPIRE
Capita a tutti i sacerdoti di sentire le raccomandazioni di parenti dei malati di non far capire che è grave, altrimenti si potrebbe spaventare. Fui chiamato da una famiglia per dare i Sacramenti ad un loro parente ammalato grave. Arrivato nella casa trovo molte persone riunite nella sala. Un parente mi avvicina e mi dice sottovoce:
-D. Paolo, guardi che è grave, ma non glielo faccia capire.
Mi accompagnano nella camera, faccio chiudere la porta per parlare con l’ammalato e confessarlo. L’ammalato ancora perfettamente lucido, mi dice a bassa voce: -D. Paolo, io so che sono grave, ma non dica niente ai miei parenti per non spaventarli. Questo mi è capitato anche una seconda volta. In tutti i miei sessant’anni di ministero non ho trovato mai un ammalato che mi ha respinto. Questo deve rassicurare i parenti per non trascurare di chiamare il sacerdote quando una persona cara è ammalata.
PRIMO PARROCO DI REGINA PACIS
La parrocchia di S. Maria in Trivio aveva in campagna due cappelle dove si celebrava la messa la domenica: in contrada Acqua Lucia “Madonna del Rosario” e in via del Cigliolo “Regina Pacis”. Nel 1971 si pensò di elevarle giuridicamente a Parrocchie anche per avere l’assegno della congrua per i due parroci che continuavano ad operare nella Parrocchia di S. Maria in Trivio. Io fui nominato parroco di Regina Pacis e per la Parrocchia Madonna del Rosario fu nominato parroco D. Michele Gallucci. La presa di possesso avvenne il 1 giugno 1971 alla presenza dell’Amministratore Apostolico, Mons. Luigi Punzolo.
Martedì 29 giugno u.s. nella Chiesa parrocchiale di S. Maria in Trivio in Velletri si è svolta la cerimonie della presa di possesso da parte di Don Paolo Picca, della nuova Parrocchia « Regina Pacis »; il rito si è svolto nella Chiesa centro della Vicaria Foranea per ragioni pratiche, in quanto l'esiguità dei locali e la posizione geografica della chiesa del Cigliolo, appunto la « Regina Pacis », hanno fatto ritener opportuno che tutta la cerimonia si svolgesse nella Parrocchia centrale di S. Maria. Oltre a S. Ecc. Mons. Luigi Punzolo, Vescovo di Velletri, erano presenti Mons. Domenico Fagiolo, Vicario Generale della Diocesi di Velletri, già parroco per ben 31 anni di S. Maria in Trivio; Mons. Marcello llardi, parroco di S. Maria e Vicario Foraneo delle parrocchie sorte nel territorio della sua parrocchia; il cancelliere della Curia Vescovile di Velletri Mons. Anastasio Pica ed altri numerosi sacerdoti. Testimoni della presa di possesso della nuova parrocchia sono stati l'avv. Mario Lungarini e il rag. Francesco Reali. Al termine della cerimonia Mons. Punzolo ha rivolto un particolare elogio al parroco di S. Maria Mons. Marcello Ilardi il quale ha incoraggiato e voluta la suddivisione del territorio della sua parrocchia per un lavoro pastorale più proficuo. Per ragioni pratiche il nuovo parroco avrà ancora il suo recapito nella Chiesa di S. Maria in Trivio sino a che la nuova Chiesa Parrocchiale non sarà costruita.
Riportiamo ora i decreti dell'erezione della nuova parrocchia e della costituzione della Vicaria Forense.
Prot. 24/71 DECRETO DI COSTITUZIONE Dl VICARIA FORANEA DEL TERRITORIO ORA COMPRESO NELLA PARROCCHIA DI S MARIA IN TRIVIO IN VELLETRI
Desiderosi di conservare unità di indirizzo per l'assistenza spirituale alla popolazione: di promuovere stretta collaborazione tra i parroci di una stessa zona nel piano di lavoro pastorale; a norma del canone 217 del Codice di Diritto Canonico, Decretiamo:
E' costituito il Vicariato Foraneo in Velletri, comprendente la Parrocchia di S. Maria in Trivio, la Parrocchia Regina Pacis, la Parrocchia Madonna del Rosario e le altre eventuali parrocchie che dovessero essere canonicamente erette, ricavate, come le due di cui sopra, dal territorio, presente appartenete alla Chiesa matrice di S. Maria in Trivio, il cui parroco ne sarà Vicario, con tutti i diritti e doveri inerenti a tale ufficio, in conformità dei canoni 445 e seguenti del Codice di Diritto Canonico. Dato a Velletri, dalla Nostra Sede Episcopale, il 1-3-71 Luigi Punzolo Arciv. Amm. Ap. di Velletri
Prot. n. 25/'71 DECRETO DI ESECUZIONE DELLA BOLLA DI POSSESSO DELLA PARROCCHIA REGINA PACIS
Allo scopo di mantenere la necessaria unità di azione pastorale i Parroci, che esercitano il loro ministero dentro un determinato territorio ecclesiastico, stabiliamo che:
1) II Parroco della nuova parrocchia Regina Pacis Rev. Don Paolo Picca, a Noi carissimo e di cui conosciamo le doti intellettuali e apostoliche, pur conservando l'autonomia propria del suo ufficio, nei problemi pastorali di indole generale e nelle iniziative di apostolato, che interessano l'intera Vicaria, agisca d'intesa con il Parroco di S. Maria in Trivio, Vicario Foraneo della zona, insieme con gli altri Parroci della propria Vicaria;
2) i confini della nuova Parrocchia sono quelli configurati nella cartina allegata. Confini: SUD: Via Ariana - EST: strada Arcioni e Comune di Lariano OVEST: Fosso Regina fine al Ponte Bianco - NORD: Comune di Rocca di Papa. Comprendente le contrade: Ci-gliolo, Peschio, Tevola, Comune, Ceppeta, Acqua Palomba, le zone appartenenti al Comune di Velletri della contrade Arcioni e Colonnella, lato sinistro di Via Lata guardando il Cimitero, partendo da Ponte Bianco.
Dato a Velletri, dalla Nostra Sede Episcopale, il giorno 1-3-'71 - Luigi Punzolo Arciv. Amm. Ap. di Velletri
APOSTOLATO NELLA NUOVA PARROCCHIA
Continuai a fare le 20 lezioni integrative di Religione nelle scuole elementari del Cigliolo-Peschio, di contrada Comune, di Acqua Palomba, di Tevola, di via Ariana e di via Arcioni. Proiettavo i “filmini” catechistici. I bambini e le maestre mi aspettavano con gioia; se qualche volta dovevo saltare l’incontro per impegni pastorali, si preoccupavano e pensavano che stessi male. Attraverso i bambini conobbi i loro genitori, così si rafforzava l’amicizia e la stima reciproca. Dietro richiesta, incominciai a celebrare la messa festiva anche nelle case private dove si riunivano gli abitanti della zona, erano case modeste di contadini, ma anche ville di personaggi importanti come lo scrittore Achille Campanile, la pianista di fama mondiale Marcella Crudeli, che aveva la villa ad Acqua Palomba; una volta ebbi l’ingenuità di chiederle di accompagnare i canti della messa con un piccolo armonium potatile. Con gentilezza mi rispose: mi dispiace, non so suonare l’organo, ma solo il pianoforte.
PRIMI LAVORI
La chiesetta, Regina Pacis, era stata costruita sul terreno di una vigna donata negli anni ’50 dalla Signorina Maria Amati, sorella del canonico Mons. Celestino Amati. Feci estirpare la vigna per ricavare un campo di gioco per i ragazzi. Pensavo di destinare questo luogo a un centro pastorale per le attività ricreative e formative e di costruire la chiesa parrocchiale nei pressi del cimitero alla confluenza della via Ariana e della via del Cigliolo nell’immediata periferia della città di Velletri. Per capire questo progetto, ricordo che all’epoca non c’era ancora il villaggio 167. Per fare comunità iniziai con l’attività ricreative dei ragazzi, ma non fu facile. Spesso esplodevano rivalità con coloro che venivano da altre contrade. Iniziai anche a fare feste parrocchiali con la partecipazione di molte persone.
RIDERE O PIANGERE?
Voglio riferire un episodio particolare per far capire il tipo di mentalità che trovavo in qualche famiglia. Facevo catechismo in preparazione alla prima Comunione e Cresima in una zona periferica in montagna. Stavo spiegando i 10 comandamenti. Iniziando dal primo andavo avanti. Quando arrivai al settimo dissi: settimo: “non rubare”. Immediatamente ci fu la reazione di un bambino: “e chi l’ha ditto?” risposi: sono i Comandamenti che ci ha dato Dio! Il bambino proseguì: sì,?!?! … i comandamenti!?! … come fratemo ha rubato una macchina … perché l’hanno preso i carbigneri, sennò che male ce stea?
CONSIGLIERE DI AMMINISTRAZIONE DELL’OSPEDALE CIVILE DI VELLETRI
Nel 1974 l’Ospedale di Velletri divenne Ospedale Generale Provinciale con decreto della Regione Lazio n. 9000/19 del 22 settembre 1971. (L’originale è conservato nell’Archivio della Curia Vescovile). riporto uno stralcio del decreto:…………..
“ Considerato che l’Ospedale civile di Velletri trae la sua origine dalla fusione operata con R.D. 26 ottobre 1936 di due Enti esistenti in Velletri: l’ospedale delle donne fondato il 14 settembre 1794 dalla Congregazione dei Parroci della Città e l’Ospedale degli uomini fondato nel 1447 dalla Confraternita del Gonfalone ed aggregato alla Congregazione di carità di Velletri in forza del R.D.31 agosto 1873; Ritenuto che i portatori degli originari interessi del predetto Ospedale son l’Ente Comunale di Assistenza del Comune di Velletri e la Diocesi entro la cui giurisdizione è compreso il territorio del Comune di Velletri …. ; l’Ente di Assistenza del Comune di Velletri e la Diocesi entro la cui giurisdizione è compreso il territorio del Comune di Velletri sono i portatori degli originari interessi dell’Ospedale Civile di Velletri. Spetta a ciascuno di tali Enti la nomina di un componente del Consiglio di Amministrazione “
L’Arcivescovo, Mons. Luigi Punzolo, Amministratore Apostolico di Velletri, notando
Amministratore Apostolico di Velletri, notando in me una particolare sensibilità per la Pastorale degli Infermi, mi presentò come consigliere. Il Consiglio di Amministrazione dell’Ospedale si insediò il 17 giugno 1974. Tutti gli altri consiglieri erano stati nominati dai partiti politici: democristiani, comunisti, socialisti, repubblicani, socialdemocratici. Mi accorsi che la logica era partitica che io non capivo e non potevo condividere. Fui isolato da tutti: non era pane per i miei denti. Mi affrettati a dare le dimissioni e in data 26 luglio 1976 lasciai l’incarico.
ARCIPRETE PARROCO DI SAN SALVATORE IN VELLETRI
In data 19 ottobre 1974 sono stato nominato Arciprete Parroco del SS. Salvatore in Velletri, in seguito alle dimissioni di Mons. Angelo Lopez nominato Canonico Parroco della Basilica Cattedrale di S. Clemente. La presa di possesso avvenne in data 24 novembre 1974, alla presenza di S. Ecc. Mons. Luigi Punzolo Amministratore Apostolivo della Diocesi Suburbicaria di Velletri. Testimoni furono il professor Antonio Venditti e il Sig. Luigi Romaggioli.
Per la seconda volta sono successore di d. Angelo Lopez, prima nella Parrocchia di S. Michele Arcangelo Rocca Massima ed ora a San Salvatore in Velletri. Ho lavorato continuando sulle impostazioni del predecessore per la pastorale ordinaria (visita mensile agli ammalati, catechesi, ecc.), ma, andando avanti negli anni ho inserito qualche nuova iniziativa: la via crucis per le strade della parrocchia, l’infiorata, catechesi biblica, ecc.
Dal settimanale “L’Artemisio” di sabato 24 ottobre 2009
Velletri, si va verso un'unica parrocchia per tutto il centro storico
Monsignor Picca, titolare di San Salvatore,
lo sarà anche di Santa Lucia e San Michele Arcangelo
Un solo sacerdote per Tre chiese.
di DARIO SERAPIGLIA
La crisi delle vocazioni si comincia ad avvertire anche nel tessuto delle parrocchie sparse sul territorio dei Castelli. A porla in evidenza, nella circostanza, in particolare, il mancato avvicendamento in due parrocchie veliterne dove i titolari, come vuole il Diritto canonico, hanno rassegnato le dimissioni per aver raggiunto il limite di età di 75 anni. Cosi che, nel dettaglio, le parrocchie di San Salvatore, Santa Lucia e San Michele Arcangelo, a Velletri - circa cinquemila abitanti, da qualche giorno ormai hanno un unico titolare. Ad essere responsabile secondo sia i1 Diritto canonico sia il Diritto civile italiano è ora monsignor Paolo Picca, che da diversi anni era titolare solo della parrocchia di San Salvatore. La decisione è stata presa dal vescovo della Diocesi Suburbicaria Velletri-Segni, monsignor Vincenzo Apicella, nell'intenzione di seguire, almeno in parte, le indicazioni lasciate dal suo predecessore, monsignor Andrea Maria Erba, che già qualche anno fa ipotizzava un'unica titolarità per le tre parrocchie, motivandola con lo scopo «di creare le condizioni per una pastorale più organica e adeguata alle nuove esigenze del centro storico». Un primo passo verso la creazione di un'unica parrocchia. Secondo quanto stabilito dal vescovo, monsignor Picca, oltre a mantenere l'incarico di parroco di San Salvatore, sarà parroco anche di Santa Lucia e San Michele Arcangelo con tutte le facoltà necessarie per l'amministrazione dei sacramenti, per la predicazione della parola di Dio e per lo svolgimento di tutte le attività parrocchiali San Salvatore, Santa Lucia di San Michele Arcangelo mentre si fa obbligo a tutti i fedeli delle suddette parrocchie di riconoscerlo e rispettarlo come Pastore. Sarà sua cura coordinare le celebrazioni dei sacramenti, organizzare gli itinerari dell'iniziazione cristiana per i fanciulli e i ragazzi e la preparazione al matrimonio, promuovere l'attività caritativa, tendere all'integrazione dei consigli pastorali, custodire i registri parrocchiali. E nel complesso delle attività parrocchiali monsignor Picca potrà essere coadiuvato dai precedenti parroci. A lasciare l'incarico di anni dopo alcuni decenni di titolarità sono stati monsignor Eugenio Gabrielli e don Gaetano Zaralli che continueranno comunque ad amministrare il ministero sacerdotale presso le rispettive chiese, Santa Lucia e San Michele Arcangelo, e l'aspetto economico delle due parrocchie. Il vescovo ha rivolto loro un vivo ringraziamento.
UNITÀ PASTORALI
Dopo qualche anno, si cominciò a vociferare, tra il clero, che era arrivato il momento per fare un’unica unità pastorale per le parrocchie del centro nord di Velletri. Io non condividevo questo progetto e scrissi una lettera al Vescovo Mons. Vincenzo Apicella.
Ecco le mie riflessioni:
1) Togliere i singoli parroci dalle parrocchie del centro storico che sono attive pastoralmente e che hanno un'antichità e un radicamento ultramillenario per affidarle ad un unico parroco, significa avviare il processo di estinzione che porterà entro pochi anni alla chiusura delle chiese. Queste chiese non avendo più la presenza stabile di un parroco responsabile e un supporto economico diretto, sarebbero svuotate di ogni attività pastorale e gradualmente cadrebbero nell'abbandono e nel degrado, come già è successo (vedi chiesa della Coroncina) o, peggio ancora, come sta avvenendo in Belgio e in Olanda, vendendo le chiese per destinarle ad altro uso.
2) Questa chiusura corrisponderebbe ad una dichiarazione di fallimento della Chiesa locale e mostrerebbe una volontà di rinunciare ad un maggiore impegno pastorale, per rassegnarsi ad accettare una prospettiva al ribasso della presenza della Chiesa nella società.
3) Se si pensa di mettere un solo parroco per più parrocchie coadiuvato da viceparroci, perché non affidare direttamente a costoro le singole parrocchie? Sono convinto che per il bene dei fedeli ogni parrocchia deve avere il suo parroco. È da considerare anche che il sacerdote che si sente responsabile in prima persona come parroco s'impegna di più e non può scaricare sugli altri la responsabilità delle proprie inadempienze.
4) È auspicabile che si studi un programma per rivedere i confini delle parrocchie di Velletri per assegnare una parte di territorio extra urbano anche alle parrocchie del centro storico, come è già avvenuto nel 1954 con la Parrocchia di S. Martino alla quale fu assegnata parte della campagna di S. Clemente. Si ridurrebbe così il carico pastorale di quelle più grandi, che spesso fanno fatica a raggiungere tutti. Ne deriverebbe un sicuro miglioramento dell'assistenza religiosa dei fedeli, in quanto, in campo pastorale, il gigantismo dimensionale, comporta più problemi che vantaggi, con seri rischi di burocratizzazione della vita pastorale e di scadimento dell'intensità di partecipazione.
6) Si sostiene che questi provvedimenti sono necessari per la mancanza di vocazioni, ma la logica dice che bisogna intervenire lì dove si è aperta la falla, cioè studiare il problema e intervenire perché si trovi un rimedio.
La mancanza di vocazioni non è attribuibile al caso o alla mala sorte, ma alla mancanza di fede della comunità cristiana e di noi sacerdoti che non abbiamo il coraggio di dare una testimonianza forte e gioiosa della nostra scelta.
Se alcune Congregazioni religiose di recente istituzione hanno molte vocazioni, provenienti anche dall'Italia, è possibile anche per noi diocesani avere migliori risultati.
Questo è quanto scrivevo nel 2014. Oggi la situazione è cambiata … in peggio ! Le persone stanno abbandonando la fede e noi preti ci stiamo rassegnando. Anzi, cerchiamo di recuperare i fedeli cedendo alla mondanità e “santificando” certi vizi che hanno provocato la distruzione di Sodoma e Gomorra.
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