martedì 17 dicembre 2024

Don Paolo - 02

 

RICORDI D’INFANZIA

 

LA PRIMA OPERA DI MISERICORDIA DELLA MIA VITA:

CONSOLARE GLI AFFLITTI

Nel 1943 mio padre lavorava allo Scalo S. Lorenzo a Roma come addetto alla pulizia delle vetture dei treni delle Ferrovie dello Stato. Il 19 luglio gli americani bombardarono lo Scalo S. Lorenzo proprio dove lavorava mio padre. La notizia arrivò a Velletri. Mia madre corse subito alla stazione ferroviaria per avere notizie. Ma ebbe solo notizie del disastro e del blocco del traffico dei treni, di mio padre non riuscì a sapere nulla. Ricordo che mia madre tornò alla vigna piangendo disperatamente, il suo pianto continuava a lungo. Io avevo solo cinque anni e non potevo vedere mia madre così disperata. Tentai di consolarla dicendole nella mia ingenuità: mamma, non piagne più; se facemo un altro papà novo. Ricordo che smise di piangere, si volse verso di me per correggermi con uno schiaffo, ma poi si bloccò.

Non sapevo di aver compiuto per la prima volta un’opera di misericordia spirituale: consolare gli afflitti. Sul far della sera sentimmo un fischio proveniente dal viale; corremmo a vedere: era papà che tornava. Lascio immaginare la gioia di tutti. Si sedette e cominciò a raccontare l’avventura. Proprio quel giorno l’avevano mandato a lavorare non a San Lorenzo, ma alla stazione di Trastevere. Ma quel bombardamento aveva provocato il blocco dei trasporti. Per tornare a casa non aveva nessuno mezzo perciò si decise a venire a piedi. Quando sentiva il rombo di un aereo si gettava a terra dentro qualche buca, anche dentro le buche delle bombe esplose qualche ora prima. Raccontò che un piccolo tratto di strada lo fece a bordo di un camion tedesco: i soldati tedeschi vista la situazione gli fecero questa gentilezza, ma la maggior parte di strada la fece a piedi.

 

BOMBARDAMENTO DI VELLETRI

 

8 settembre 1943 primo bombardamento di Velletri. Venne colpita la parte sud della città. Una bomba ha colpito anche la Cattedrale, sfondando il tetto e arrecando ingenti danni all’organo e a tutta la struttura.

Non avevo ancora sei anni, quando ci fu lo sbarco degli Anglo-americani ad Anzio, ma quei tristi giorni sono rimasti impressi nella mia memoria. Ricordo l’urlo della sirena che annunciava l’arrivo dei bombardieri e subito si correva a rifugiarsi nella grotta che mio padre aveva scavato sotto la scarpata di confine della vigna.

In seguito mio padre pensò che anche la grotta non era sicura: se una bomba fosse caduta sull’ingresso avrebbe ostruito l’uscita e noi saremmo rimasti dentro, come era già successo in qualche parte. Pensò quindi di scavare una trincea. Appena sentivamo l’urlo della sirena che era posizionata sulla torretta del palazzo comunale, andavamo di corsa dentro la trincea. Sopra di noi mettevamo delle frasche per mimetizzare il nascondiglio.

Qualche notte prima dello sbarco di Anzio sentimmo bussare alla porta della capanna. Si alzò mamma, temendo che se avessero visto uomini li avrebbero portati via. Appena aperta la porta fu abbagliata dalla luce di due torce elettriche puntate da due lati sul suo volto e non poté vedere i soldati.  Subito le domandarono: - Dove essere tedeschi? Mamma senza farsi troppi scrupoli, indicò la sede del comando tedesco che si trovava nella villa di Piacitelli sulla via di Cori a circa 300 metri di distanza da noi. Ricevuta l’informazione, i due si allontanarono nel buio. In quel momento passò un aereo, mamma che li seguiva con lo sguardo vide che con le torce elettriche mandavano segnali verso l’aereo. Certamente mandavano segnali con l’alfabeto morse. Poi spensero le torce e mamma non poté vedere che direzione presero.

Una notte fummo svegliati dal tuono del cannone e immediatamente dall’esplosione di tre granate dirette sulla ferrovia per danneggiare i binari e interrompere le comunicazioni con Colleferro e Terracina. Riuscirono solo a tagliare i cavi della linea telefonica; una quarta granata si era conficcata nel terreno senza esplodere.

Il 22 gennaio 1944 intorno alle ore 9, la sirena diede l’allarme. Di corsa corremmo tutti a rifugiarci dentro la trincea. Scansai le frasche per vedere: un numero incalcolabile di aerei avanzava da sud verso Velletri in un rumore pesante. La nostra vigna in linea d’aria, dista da Velletri circa due chilometri. Ad un certo punto vidi che dagli aerei cadevano delle cose. Pensai che lanciavano dei “bigliettini”, come era avvenuto altre volte, invece, subito dopo udimmo delle esplosioni che facevano tremare la terra. Un fumo nero e denso si alzò sulle zone colpite. Altro che bigliettini: le bombe stavano distruggendo la città. Quel giorno ci furono ben 4 incursioni aeree che seminarono distruzione e morte. Tutto questo per opera dei nostri alleati anglo-americani, …i nostri liberatori! P. Italo Laracca nel libro di “Tra le rovine di Velletri” riporta l’elenco dei morti civili a Velletri a causa della guerra: se ne contano 706.

  

PAPà preso dai tedeschi

 

alla fine di marzo del 1944 (la data l’ho ricostruita leggendo il diario di P. Italo Laracca “Tragedia di Velletri”), ci fu lo sfollamento forzato dalla contrada “Le Corti” e da altre contrade perché il fronte della guerra avanzava. Nonna Plautilla con le figlie zie Elena, Elvira e Armida abitavano in quella zona “Rèna dell’Olmo”, via interpoderale di terra battuta. Zio Giovanni era militare, forse già prigioniero in Germania dove poi morì sotto bombardamento.  Papà venne chiamato per aiutare nonna e zie a fuggire per non essere inquadrate dai tedeschi, che avevano già iniziato a rastrellare la zona. Papà andò e aiutò la famiglia a portar via qualcosa, si caricò sulle spalle un boccione di vino (un contenitore a forma di bottiglia di circa 25 litri). Dopo qualche ora venne su da noi, tutta trafelata zia Elena dicendo che papà era stato inquadrato dai tedeschi insieme sua madre Plautilla e alle sorelle Armida ed Elvira. Lei l’avevano lasciata andare perché aveva un bambino piccolo da allattare. I tedeschi la lasciarono andare con l’ordine di prendere il bambino e di tornare. Ma una volta libera non tornò indietro.

Intanto cominciavamo a sentire le grida disperate della gente che abitava nelle vigne a sud di noi, perché i tedeschi le inquadravano per lo sfollamento.  Mamma era disperata: “dove vado da sola con quattro creature?” E intanto prendeva la cose più necessarie e le metteva dentro una canestra per scappare e non farci prendere dai tedeschi. Io piangevo disperato chiamando papà. Ad un certo punto avvertii un fischio che conoscevo e corsi verso il viale: era papà che era riuscito a fuggire. Mamma ci diede una coperta e disse a papà:” scappa subito perché i tedeschi prendono gli uomini”, Io volli andare con papà. Dopo qualche ora ci ritrovammo tutti presso la casa di amici in via Acqua Palomba, dove rimanemmo per alcuni giorni. Ritrovata un po’ di calma, papà ci racconto la sua avventura. Appena usciti dalla Rèna (così chiamano a Velletri la stradella di terra battuta) dell’Olmo per immettersi sulla strada comunale incontrarono la colonna degli sfollati sorvegliati da tedeschi armati, che ordinarono al gruppetto di mettersi in fila con gli altri. Papà fece finta di non capire, ma un tedesco gli puntò la pistola alle tempie e dovette ubbidire. Così con la madre e le sorelle insieme ad altre centinaia di persone camminavano senza sapere dove li avrebbero portati. Dopo qualche chilometro papà notò che il tedesco che stava davanti stava tentando di accendere la sigaretta con l’accendino ma non ci riusciva, l’altro tedesco era sulla curva della strada e guardava in direzione opposta, si guardò attorno e vide davanti a sé il viale della vigna di Mastrostefano Natale in un attimo imboccò il viale e vedendo le macchine tedesche sul piazzale si ricordò che lì c’era il comando tedesco. Fortunatamente nessuno lo vide, posò a terra il boccione di vino che ancora portava sulle spalle e attraverso la vigna raggiunse il fosso e camminando lungo il fosso riuscì a tornare a casa.

Dal racconto di mia cugina, Antonella Ciotti, figlia di zia Elvira, apprendo che la nonna Plautilla e le zie Armida ed Elvira furono portate a piedi fino a viale Roma, in Velletri, furono poi caricate su camion tedeschi e condotte a Roma per essere trasportate in treno in Germania. Giunti in provincia di Padova, prima che il treno passasse il confine, gli americani bombardarono la ferrovia e il treno dovette fermarsi. I tedeschi fuggirono e consegnarono gli sfollati ai fascisti. Furono alloggiati nei locali scolastici del comune di CARCERI, piccolo centro in provincia di Padova e andavano a lavorare nei campi per mantenersi. Rimasero lì per 18 mesi. Finita la guerra furono riportati a Velletri.

 

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