Foucault e
l’archeologia della mente
In
una enciclopedia cinese, secondo una famosa pagina di Borges, sta scritto che
«gli animali si dividono in: a)
appartenenti all’Imperatore; b)
imbalsamati; c) addomesticati; d) maialini da latte; e) sirene; f)
favolosi; g) cani in libertà; h)
inclusi nella presente classificazione» e così via enumerando, fino all’ultima
categoria: «n) che da lontano sembrano mosche».
Nel suo libro su Le parole e le cose, del 1966, il filosofo francese
Michel Foucault dichiarava di essersi ispirato, per il proprio lavoro, a questo
testo di Borges, allo stupore e al senso di comico disorientamento che esso
aveva provocato in lui.
La sua opera era in effetti uno
studio «archeologico», come lui lo chiamava, di alcuni tratti fondamentali del
modo in cui la mentalità europea moderna si è rappresentata il mondo. La
funzione ispiratrice della pagina di Borges consiste nel richiamare al fatto
che i nostri principî di classificazione e di ordinamento del mondo ci
appaiono ovvi e naturali ma in realtà non lo sono: si possono ipotizzare
infiniti altri modi di organizzare gli oggetti della nostra esperienza, per
esempio quello paradossale che Borges immagina di aver trovato in una antica
enciclopedia cinese.
La meraviglia e la curiosità per la (relativa)
casualità di questi modi di classificazione delle cose domina e ispira tutta
l’opera di Foucault, dalla Storia della follia (un libro del 1961) fino all’Archeologia del sapere (1969), Sorvegliare e punire (1975) e a La volontà di sapere (1976), che è il primo volume
di una vasta storia della sessualità.
“… che da lontano sembrano mosche”
La curiosità «archeologica» di Foucault, quella che lo
spingeva a riconoscere come non ovvie le nostre categorie di pensiero e a
ricostruirne dunque la genesi e le motivazioni profonde, è sempre stata anche
una curiosità diretta a scoprire le forze che agiscono e si esprimono in certe
teorie generali sul mondo e l’esperienza: non si tratta solo di una
archeologia delle forme di sapere, insomma, ma di uno studio delle relazioni
tra sapere e potere. Era questo che Foucault cercava di chiarire già nella sua
prima opera di grande respiro, la Storia della follia, mettendo in luce come gli inizi di una definizione
clinica moderna della malattia mentale nei secoli XVII e XVIII corrispondessero
all’affermarsi di nuovi meccanismi di disciplina sociale e di più rigide
strutture di esclusione (i manicomi).
Ecco qui, pensa Foucault, un
esempio che mette in discussione una delle credenze più radicate nella nostra
cultura, almeno a partire dall’illuminismo: l’idea cioè che il progresso del
sapere porti con sé uno sviluppo della libertà. Nel caso della follia e dello
studio scientifico di essa si vede appunto l’opposto: la definizione della
malattia mentale rientra in un processo di irrigidimento delle barriere
sociali (tra pazzi e sani, e in generale tra normali e anormali) che si
inquadra nella generale razionalizzazione disciplinante su cui si fonda la
moderna società industriale.
L’altro grande esempio di un
processo analogo, di un sapere che si accompagna alla messa in opera di più rigidi
meccanismi di potere, è quello che Foucault studia nella storia della
sessualità. È vero che negli ultimi secoli i fatti relativi alla vita sessuale
e all’eros non sono più tabù, e sono diventati oggetti di discorso in certa
misura accettato; ma ciò non corrisponde a un processo di liberazione della
sessualità, anzi, secondo Foucault dipende dal fatto che la religiosità della
Controriforma ha avuto bisogno di dare un nome esplicito alle cose del sesso
per poterle controllare, e disciplinare meglio, per esempio attraverso la
pratica della confessione.
È un discorso che mette profondamente a disagio, e che
si riflette nelle diffidenze e nelle critiche che Foucault suscita,
specialmente in quella cultura di sinistra alla quale, tuttavia, egli si sente
affine e di cui condivide l’atteggiamento critico nei confronti dell’assetto
sociale esistente. Il fatto è che nella sua prospettiva il rapporto
sapere-potere non si lascia risolvere in nessuno dei modi classici in cui la
nostra cultura è abituata a risolverlo: non si può dire, con Foucault, né che
la vita sociale possa esser rinnovata mediante una direzione scientifica della
società (come ha sempre pensato un orientamento di tipo illuministico) né che,
d’altra parte, le teorie e le forme del sapere siano determinate dai rapporti
di potere (come pensa una concezione materialistica dell’ideologia).
Non potendosi indicare un bandolo della matassa, poiché
nessuno dei due ambiti, il sapere o il potere, si può considerare primo e
determinante, risulta impossibile trarre dalle teorie di Foucault
un’indicazione per l’azione; anzi, sembra che per lui la politica e l’impegno
di trasformazione del mondo perdano senso, di fronte a un lavoro teorico che
tende sempre più a configurarsi come una descrizione scientifica, obiettiva,
dei meccanismi attraverso i quali si costituiscono e si modificano gli
orizzonti della nostra esperienza.
Si ricorderà del resto che Foucault, proprio nel libro
su Le parole e le cose, si era fatto banditore della tesi, legata
allo strutturalismo di Lévi-Strauss, di Lacan, di Althusser, secondo la quale
l’uomo come soggetto autocosciente e libero ‒ e dunque capace di ordinare e
trasformare il mondo ‒ sarebbe un «pregiudizio culturale», una immagine
relativamente recente e probabilmente destinata a scomparire (si era parlato,
allora, di «morte dell’uomo»). In realtà, Foucault e gli strutturalisti
volevano solo, con quella tesi, criticare le visioni della storia dominanti
nella cultura europea degli ultimi secoli, per le quali tutti gli eventi del
passato hanno avuto un solo senso e fine, quello di produrre quel capolavoro di
libertà e di consapevolezza di sé che sarebbe appunto l’uomo europeo moderno,
cioè noi…
Anche nelle altre posizioni di
Foucault su sapere e potere, più che una sfiducia sulla possibilità di agire
davvero nella storia, si risente la sfiducia per le visioni troppo globali di
cui si è nutrita a lungo la nostra ideologia politica. Queste visioni teoriche
globali non servono davvero a trasformare nulla; meglio, invece, cercare di
descrivere piccole porzioni e aspetti determinati dei meccanismi in cui potere,
coscienza individuale e sociale, forme di sapere si intrecciano e vengono a costituire
le armature che limitano la nostra libertà. È quello che lui stesso si sforza
di fare con le analisi dei sistemi di esclusione e disciplinamento come il
carcere, il manicomio, l’etica sessuale. Se anche l’intellettuale si limita a
fornire «descrizioni» di questi meccanismi, non vuol dire che li accetti come
leggi naturali ed eterne; queste descrizioni serviranno alla gente ‒ divenuta
maggiorenne e non più bisognosa della guida di alcun «sovrano», sia esso il
filosofo o il politico ‒ per intraprendere concrete azioni di emancipazione.
“… l’uomo come soggetto autocosciente
e libero ‒ e dunque capace di ordinare e trasformare il mondo ‒ è un
«pregiudizio culturale»”
In questa lezione di sobrietà e di
concretezza, tuttavia, c’è forse ancora un punto in cui Foucault svela i propri
legami, più che con lo strutturalismo, con una certa moda di pensiero francese
di orientamento vitalistico: la sua visione dei sistemi di sapere-potere che
costituiscono gli orizzonti della nostra esperienza storica rimane
fondamentalmente negativa, come se essi avessero di fatto solo la funzione di
limitare una libertà concepita all’origine come l’incontrastato fluire di
energie vitali. Potrebbe invece darsi che razionalizzazione teorica e
instaurazione di forme di disciplina sociale siano proprio modi in cui la
libertà si esprime, uscendo dalla pura soggezione agli impulsi naturali e
attuandosi in una relazione di dialogo e di riconoscimento reciproco tra gli
individui e i gruppi. Questo aspetto «positivo» del meccanismo di sapere-potere
non ha un vero peso teorico in Foucault; e almeno su questo, può darsi che le
obiezioni dei suoi critici colpiscano giusto.
Gianni
Vattimo
[tratto da Le mezze verità,
Orthotes 2015]
Nessun commento:
Posta un commento