mercoledì 11 dicembre 2024

Foucault e l’archeologia della mente

 

Foucault e l’archeologia della mente

di Gianni Vattimo

 

In una enciclopedia cinese, secondo una famosa pagi­na di Borges, sta scritto che «gli animali si dividono in: a) appartenenti all’Imperatore; b) imbalsamati; c) addomesticati; d) maialini da latte; e) sirene; f) favolosi; g) cani in libertà; h) inclusi nella presente clas­sificazione» e così via enumerando, fino all’ultima cate­goria: «n) che da lontano sembrano mosche». Nel suo libro su Le parole e le cose, del 1966, il filosofo francese Michel Foucault dichiarava di essersi ispirato, per il proprio lavoro, a questo testo di Borges, allo stupore e al senso di comico disorientamento che esso aveva provocato in lui.

La sua opera era in effetti uno studio «archeologico», come lui lo chiamava, di alcuni tratti fondamentali del modo in cui la mentalità europea moderna si è rap­presentata il mondo. La funzione ispiratrice della pagi­na di Borges consiste nel richiamare al fatto che i no­stri principî di classificazione e di ordinamento del mondo ci appaiono ovvi e naturali ma in realtà non lo sono: si possono ipotizzare infiniti altri modi di orga­nizzare gli oggetti della nostra esperienza, per esempio quello paradossale che Borges immagina di aver trovato in una antica enciclopedia cinese.

La meraviglia e la curiosità per la (relativa) casualità di questi modi di classificazione delle cose domina e ispira tutta l’opera di Foucault, dalla Storia della follia (un libro del 1961) fino all’Archeologia del sapere (1969), Sorvegliare e punire (1975) e a La volontà di sapere (1976), che è il primo volume di una vasta storia della sessualità.

“… che da lontano sembrano mosche”

La curiosità «archeologica» di Foucault, quella che lo spingeva a riconoscere come non ovvie le nostre ca­tegorie di pensiero e a ricostruirne dunque la genesi e le motivazioni profonde, è sempre stata anche una cu­riosità diretta a scoprire le forze che agiscono e si esprimono in certe teorie generali sul mondo e l’espe­rienza: non si tratta solo di una archeologia delle forme di sapere, insomma, ma di uno studio delle relazioni tra sapere e potere. Era questo che Foucault cercava di chiarire già nella sua prima opera di grande respiro, la Storia della follia, mettendo in luce come gli inizi di una definizione clinica moderna della malattia mentale nei secoli XVII e XVIII corrispondessero all’affermarsi di nuovi meccanismi di disciplina sociale e di più rigide strutture di esclusione (i manicomi).

Ecco qui, pensa Foucault, un esempio che mette in discussione una delle credenze più radicate nella nostra cultura, almeno a partire dall’illuminismo: l’idea cioè che il progresso del sapere porti con sé uno sviluppo della libertà. Nel caso della follia e dello studio scienti­fico di essa si vede appunto l’opposto: la definizione della malattia mentale rientra in un processo di irrigidi­mento delle barriere sociali (tra pazzi e sani, e in gene­rale tra normali e anormali) che si inquadra nella gene­rale razionalizzazione disciplinante su cui si fonda la moderna società industriale.

L’altro grande esempio di un processo analogo, di un sapere che si accompagna alla messa in opera di più ri­gidi meccanismi di potere, è quello che Foucault studia nella storia della sessualità. È vero che negli ultimi se­coli i fatti relativi alla vita sessuale e all’eros non sono più tabù, e sono diventati oggetti di discorso in certa misura accettato; ma ciò non corrisponde a un processo di liberazione della sessualità, anzi, secondo Foucault dipende dal fatto che la religiosità della Controriforma ha avuto bisogno di dare un nome esplicito alle cose del sesso per poterle controllare, e disciplinare meglio, per esempio attraverso la pratica della confessione.

È un discorso che mette profondamente a disagio, e che si riflette nelle diffidenze e nelle critiche che Foucault suscita, specialmente in quella cultura di sinistra alla quale, tuttavia, egli si sente affine e di cui condivide l’atteggiamento critico nei confronti dell’as­setto sociale esistente. Il fatto è che nella sua prospetti­va il rapporto sapere-potere non si lascia risolvere in nessuno dei modi classici in cui la nostra cultura è abituata a risolverlo: non si può dire, con Foucault, né che la vita sociale possa esser rinnovata mediante una direzione scientifica della società (come ha sempre pensato un orientamento di tipo illuministico) né che, d’altra parte, le teorie e le forme del sapere siano determi­nate dai rapporti di potere (come pensa una concezione materialistica dell’ideologia).

 

Non potendosi indicare un bandolo della matassa, poiché nessuno dei due ambiti, il sapere o il potere, si può considerare primo e determinante, risulta impos­sibile trarre dalle teorie di Foucault un’indicazione per l’azione; anzi, sembra che per lui la politica e l’impegno di trasformazione del mondo per­dano senso, di fronte a un lavoro teorico che tende sempre più a configurarsi come una descrizione scienti­fica, obiettiva, dei meccanismi attraverso i quali si co­stituiscono e si modificano gli orizzonti della nostra esperienza.

Si ricorderà del resto che Foucault, proprio nel libro su Le parole e le cose, si era fatto banditore della tesi, legata allo strutturalismo di Lévi-Strauss, di Lacan, di Althusser, secondo la quale l’uomo come soggetto au­tocosciente e libero ‒ e dunque capace di ordinare e trasformare il mondo ‒ sarebbe un «pregiudizio cul­turale», una immagine relativamente recente e proba­bilmente destinata a scomparire (si era parlato, allora, di «morte dell’uomo»). In realtà, Foucault e gli strut­turalisti volevano solo, con quella tesi, criticare le visioni della storia dominanti nella cultura europea degli ultimi secoli, per le quali tutti gli eventi del passato hanno avuto un solo senso e fine, quello di produrre quel capolavoro di libertà e di consapevolezza di sé che sarebbe appunto l’uomo europeo moderno, cioè noi…

Anche nelle altre posizioni di Foucault su sapere e potere, più che una sfiducia sulla possibilità di agire davvero nella storia, si risente la sfiducia per le visioni troppo globali di cui si è nutrita a lungo la nostra ideo­logia politica. Queste visioni teoriche globali non ser­vono davvero a trasformare nulla; meglio, invece, cer­care di descrivere piccole porzioni e aspetti determinati dei meccanismi in cui potere, coscienza individuale e sociale, forme di sapere si intrecciano e vengono a co­stituire le armature che limitano la nostra libertà. È quello che lui stesso si sforza di fare con le analisi dei sistemi di esclusione e disciplinamento come il carcere, il manicomio, l’etica sessuale. Se anche l’intellettuale si limita a fornire «descrizioni» di questi meccanismi, non vuol dire che li accetti come leggi naturali ed eter­ne; queste descrizioni serviranno alla gente ‒ divenu­ta maggiorenne e non più bisognosa della guida di al­cun «sovrano», sia esso il filosofo o il politico ‒ per intraprendere concrete azioni di emancipazione.

“… l’uomo come soggetto au­tocosciente e libero ‒ e dunque capace di ordinare e trasformare il mondo ‒ è un «pregiudizio culturale»”

In questa lezione di sobrietà e di concretezza, tuttavia, c’è forse ancora un punto in cui Foucault svela i propri legami, più che con lo strutturalismo, con una certa moda di pensiero francese di orientamento vitalistico: la sua visione dei sistemi di sapere-potere che costituiscono gli orizzonti della nostra esperienza storica rimane fondamentalmente negativa, come se essi avessero di fatto solo la funzione di limitare una libertà concepita all’origine come l’incontrastato fluire di energie vitali. Potrebbe invece darsi che razionalizzazione teorica e instaurazione di forme di disciplina sociale siano proprio modi in cui la libertà si esprime, uscendo dalla pura soggezione agli impulsi naturali e attuandosi in una relazione di dialogo e di riconoscimento reciproco tra gli individui e i gruppi. Questo aspetto «positivo» del meccanismo di sapere-potere non ha un vero peso teorico in Foucault; e almeno su questo, può darsi che le obiezioni dei suoi critici colpiscano giusto.

Gianni Vattimo
[tratto da Le mezze verità, Orthotes 2015]

 

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