mercoledì 21 dicembre 2016

Frammento


…..Frammento…..

Tratto da “Occhi sulla graticola” di Tiziano Scarpa, capitolo 13, diario di Carolina Groppo.

 

Più che affidarmi un incarico ben pagato, il direttore di “KissManga” ha battezzato l’altra metà della mia indole. Questa Maria Grazia Graticola è il nome dell’altro lato della mia indole. Prima di questo battesimo, la mia indole – potrei chiamarla anima, ma indole mi piace di più – io credevo che la mia indole fosse una bolgia celeste, un firmamento abissale, la portavo sottoterra in me come una pepita. Precetti sapienzali mi intimavano di togliere via tutto quello che non c’entra niente con me per arrivare alla vera conoscenza di chi sono. E invece un giorno il direttore di “KissManga” mi ha rivestito con questa Maria Grazia Graticola, è riuscito a dare un nome alla catasta di falsità che si nascondevano dentro di me, tutta roba che fino a un giorno prima facevo di tutto per espellere fuori di me. Quest’altro lato della mia indole a cui Tullio Parmesan ha dato un nome e cognome è una specie di somma di personaggi di film, telefilm, cartoni animati, romanzi, racconti, commedie, videogiochi, fumetti, pubblicità, canzonette, libri di scuola, storie familiari, incontri con parenti, conoscenti, amici, amiche, persone, fiabe, zodiaci, mitologie, leggende, religioni: è il risultato dell’enorme addizione che sono tutti gli altri sommati uno dopo l’altro dentro di me. Certe volte penso alla mia indole e la vedo: metà è fatta di me e basta, è formata da materia immateriale, indefinibile, indicibile, l’altra metà è la somma di tutti gli altri, fatti di facce e parole, carta e nastro magnetico, celloloide e VHS, pellicola, pagine, copertine cartonate, cartoni animati, quinte, assi di palcoscenico, alfabeti, gesti ripetuti, battute ridette, scene madri e sceneggiati padri: a differenza della prima metà,  tutta questa seconda parte della mia indole è ben descrivibile, etichettabile, archiviabile. Si potrebbe schedarla parola per parola, pensiero per pensiero, sogno per sogno, rintracciare tutte le sorgenti e le fonti che hanno partecipato alla sua fondazione. Un repertorio, ecco cosa sono per metà. La mia indole poggia su un piede destro immateriale e un piede sinistro fatto di fogli di carta, nastri di celloloide, schermi di vetro bombato. Questi pezzi dell’altra metà di me sono cuciti fra loro alla buona, incollati col vinavil, tenuti su con il nastro adesivo: eppure quando cammino non so quale dei due piedi sia il più solido. La sanctasanctorum segreta della mia indole è  abisso di infernocielo, di questo sono sempre stata convinta, ma da quando il direttore di “KissManga” l’ha battezzata con il nome di Maria Grazia Graticola è diventata anche un doppiofondo d’avanspettacolo. Il cuore della mia indole ha un ventricolo destro di carnesangue e un ventricolo sinistro di cartapesta. Lo sguardo della mia indole ha un occhio destro di diamante torbido, di salgemma purissimo; ma c’è anche l’occhio sinistro incrostato dai punti di vista degli imbrattatele di tre millenni di storia dell’arte, grandangolato e zoomato dagli obiettivi faziosi dei registi di un secolo tondo di storia del cinema, e tutti questi punti di vista stanno uno dietro l’altro come lenti colorate, polarizzate dentro un cannocchiale, tutte in fila dentro la mia occhiaia sinistra. La mia indole digerisce con un intestino tenue di tabù atavici e un intestino crasso di tubi catodici. La mia indole gesticola con palmi di filastrocche mitologiche e polpastrelli di bassista pop. Dentro la mia indole incontaminata il mondo ha trapiantato una catasta di organi fantastici, storie inventate, morali di favole messe su in quattro e quattr’otto millenni, regole infondate, legislazioni inattendibili. La mia indole – la mia anima. La mia anima è un cyborg, un organismo pieno di storie immaginate da qualcun altro e trapiantate nella mia identità come delle protesi, degli organi sintetici: dalla barzelletta al poema, dalla telenovela allo spot. La mia anima è un cartone animato, un cartone animale – la mi anima è un anime, un cartone animato giapponese. In un certo senso lo sapevo già di aver questo fantoccio dentro di me, ma una volta pensavoche fra i due lati della mia indole ce ne fosse uno più autentico dell’altro: naturalmente ero convinta che il lato vero fosse quello immateriale, il lato fatto di sentimenti sinceri. Una sostanza indefinibile, il centro della mia indole, la noce d’uranio dell’essere sincera con me, il cuore dell’identità che produce se stessa e si esprime per quello che è. Ogni volta che mi appoggiavo alla gamba sinistra, quella di cartapesta, sentivo un rumore fasullo sul marciapiede: niente paura, mi dicevo, è solo il pedaggio da pagare al mondo, è tutto quello che non mi appartiene veramente e che mi ha colonizzata, intossicata, sofosticata: farina di altri sacchi, macinata da altri mulini. Non mi fidavo di tutte queste protesi di fantaego, installate nel corpo della mia indole. Ero sospettosa, non mi fidavo più di me quando ciò che facevo, decidevo, dicevo, sceglievo, assomigliava troppo a qualcos’altro che non fossi io pura e semplice; mi sentivo raggirata da tutti i riferimenti, le fonti, i rimandi, le simulazioni, le imitazioni di modi di vivere degli altri filtrati dentro di me: questa non sono io, mi dicevo, io sono io, identica a me stessa, Carolina, Carolina Groppo, anzi, sono Carolina e basta, devo grattare via il mio cognome, i cognomi sono malattie ereditarie, non fanno parte del nucleo vero, dell’identità sincera, devo cominciare a buttare nel cesso il cognome e continuare grattando via tutto lo sporco intorno al nucleo, intorno al centro di me, devo restare carolina e basta, dimenticarmi anche del mio nome, devo fare pulizia di tutte le incrostazioni, devo amputare questa gamba finta, scucchiaiare via dall’occhiaia posticcia questo sguardo da cinema, strappare dalla gabbia toracica il ventricolo di cartapesta, arrotolare e gettare lontano il tubo catodico crasso: il compito della mia esistenza consiste in questo enorme lavoro di disinfestazione, di disintossicazione. Da “conosci te stessa” a “sii spontanea”, tutto cospirava a farmi sprofondare in me, annegandomi dentro la cameretta disadorna della mia autenticità. Conoscermi consisterebbe in questo enorme lavoro di depurazione. Me stessa, dovrei arrivare a me stessa, ma cosa significa me stessa? Me identica a me? Me precisa a me? Me spaccata me? Me sputata me? Me tale e quale a me? Me affine a me? Me analoga a me? Me assimilabile a me? Me conforme a me? Me corrispondente a me? Me equiparabile a me? Me equipollente a me? Me equivalente a me? Me paragonabile a me? Me parificabile a me? Me pari a me? Me proprio me? Me ma proprio ma proprio me? Me e non meme’ perlini? Me memento mori? Me mesmerica? Me medesima meco mi vergogno? Me simile a me? Me di per me? Me in persona? Me incarnata? Me per mia natura? Me personificata? Me di cui si tratta? Me di cui sopra? Me medesima? Me predetta? Me succitata? Me summenzionata? Me sottointesa? Me descritta? Me scritta? Me analizzata? Me vivisezionata? Me intavolata? Me distesa? Me stesa? Me stessa???

Mestessa, mestessa, mestessa, c’è stato un periodo in cui mi chiudevo in camera e ripetevo la parola mestessa, come un mantra, fino a che non significava più niente – per la verità già dopo sei o sette ripetizioni avevo perso qualsiasi significato. Pensavo che fosse questa la parte più vera della mia indole, la parte indefinibile, indescrivibile, indicibile, imprendibile, inafferrabile, nascosta, tenebrosa, tremenda, mistica, sublime, sfuggente, trasparente, aerea, ariosa, leggera, compatta, tuttadunpezzo, irripetibile, piuunicacherara. Quando mi accoccolavo dentro di lei e sprofondavo in mestessa tutto mi sembrava doveroso, benfatto, coerente, liscio, semplice,vero, onesto. Cioè immobile, idilliaco, pacificato, mistificato, ammortizzato, mortificato, fatto coincedere a forza,  piallato, smussato, cartavetrato, semplificato. Oltre a constatare che sono quella che sono, non succedeva nient’altro. Invece un giorno magari arriva il direttore di un giornalino manga e mi appioppa uno pseudomino. All’ improvviso si è fatta avanti quest’altra parte di me, si è messa in azione, mi ha promesso perfino di darmi da mangiare e da vivere, ha radunato tutti i suoi pezzi sparpagliati di carolinità fasulla e si è data un nome e un cognome, Maria Grazia Graticola: e all’improvviso eccomi diventata anche qualcun’altra, altrochè mestessa: ioaltra, semmai. Mestessa è sola una fra i tanti personaggi che gli altri mi hanno trapiantato dentro. La più sopravvalutata delle protagonioste, il mito più potente. Devo smetterla di rivolgermi a lei – come se sprofondassi in pellegrinaggio dentro di me – per le questioni che mi toccano davvero.

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