…..Frammento…..
Tratto da “Occhi
sulla graticola” di Tiziano Scarpa, capitolo 13, diario di
Carolina Groppo.
Più che affidarmi un incarico ben pagato,
il direttore di “KissManga” ha battezzato l’altra metà della mia indole.
Questa Maria Grazia Graticola è il nome dell’altro lato della mia indole.
Prima di questo battesimo, la mia indole – potrei chiamarla anima, ma indole mi
piace di più – io credevo che la mia indole fosse una bolgia celeste, un
firmamento abissale, la portavo sottoterra in me come una pepita. Precetti
sapienzali mi intimavano di togliere via tutto quello che non c’entra niente
con me per arrivare alla vera conoscenza di chi sono. E invece un giorno il
direttore di “KissManga” mi ha rivestito con questa Maria Grazia Graticola, è
riuscito a dare un nome alla catasta di falsità che si nascondevano dentro di
me, tutta roba che fino a un giorno prima facevo di tutto per espellere fuori
di me. Quest’altro lato della mia indole a cui Tullio Parmesan ha dato un nome
e cognome è una specie di somma di personaggi di film, telefilm, cartoni
animati, romanzi, racconti, commedie, videogiochi, fumetti, pubblicità,
canzonette, libri di scuola, storie familiari, incontri con parenti,
conoscenti, amici, amiche, persone, fiabe, zodiaci, mitologie, leggende,
religioni: è il risultato dell’enorme addizione che sono tutti gli altri sommati uno dopo
l’altro dentro di me. Certe volte penso alla mia indole e la vedo: metà è
fatta di me e basta, è formata da materia immateriale, indefinibile,
indicibile, l’altra metà è la somma di tutti gli altri, fatti di facce e
parole, carta e nastro magnetico, celloloide e VHS, pellicola, pagine,
copertine cartonate, cartoni animati, quinte, assi di palcoscenico, alfabeti,
gesti ripetuti, battute ridette, scene madri e sceneggiati padri: a differenza
della prima metà, tutta questa seconda
parte della mia indole è ben descrivibile, etichettabile, archiviabile. Si
potrebbe schedarla parola per parola, pensiero per pensiero, sogno per sogno,
rintracciare tutte le sorgenti e le fonti che hanno partecipato alla sua
fondazione. Un repertorio, ecco cosa sono per metà. La mia indole poggia su un
piede destro immateriale e un piede sinistro fatto di fogli di carta, nastri di
celloloide, schermi di vetro bombato. Questi pezzi dell’altra
metà di me sono cuciti fra loro alla buona, incollati col
vinavil, tenuti su con il nastro adesivo: eppure quando cammino non so quale
dei due piedi sia il più solido. La sanctasanctorum segreta della mia indole
è abisso di infernocielo, di questo
sono sempre stata convinta, ma da quando il direttore di “KissManga” l’ha
battezzata con il nome di Maria Grazia Graticola è diventata anche un
doppiofondo d’avanspettacolo. Il cuore della mia indole ha un ventricolo destro
di carnesangue e un ventricolo sinistro di cartapesta. Lo sguardo della mia
indole ha un occhio destro di diamante torbido, di salgemma purissimo; ma c’è
anche l’occhio sinistro incrostato dai punti di vista degli imbrattatele di tre
millenni di storia dell’arte, grandangolato e zoomato dagli obiettivi faziosi
dei registi di un secolo tondo di storia del cinema, e tutti questi punti di
vista stanno uno dietro l’altro come lenti colorate, polarizzate dentro un
cannocchiale, tutte in fila dentro la mia occhiaia sinistra. La mia indole
digerisce con un intestino tenue di tabù atavici e un intestino crasso di tubi
catodici. La mia indole gesticola con palmi di filastrocche mitologiche e
polpastrelli di bassista pop. Dentro la mia indole incontaminata il mondo ha
trapiantato una catasta di organi fantastici, storie inventate, morali di
favole messe su in quattro e quattr’otto millenni, regole infondate,
legislazioni inattendibili. La mia indole – la mia anima. La mia anima è un
cyborg, un organismo pieno di storie immaginate da qualcun altro e trapiantate
nella mia identità come delle protesi, degli organi sintetici: dalla
barzelletta al poema, dalla telenovela allo spot. La mia anima è un cartone
animato, un cartone animale – la mi anima è un anime, un cartone animato
giapponese. In un certo senso lo sapevo già di aver questo fantoccio dentro di
me, ma una volta pensavoche fra i due lati della mia indole ce ne fosse uno
più autentico dell’altro: naturalmente ero convinta che il lato vero fosse
quello immateriale, il lato fatto di sentimenti sinceri. Una sostanza
indefinibile, il centro della mia indole, la noce d’uranio dell’essere sincera
con me, il cuore dell’identità che produce se stessa e si esprime per quello
che è. Ogni volta che mi appoggiavo alla gamba sinistra, quella di cartapesta,
sentivo un rumore fasullo sul marciapiede: niente paura, mi dicevo, è solo il
pedaggio da pagare al mondo, è tutto quello che non mi appartiene veramente e
che mi ha colonizzata, intossicata, sofosticata: farina di altri sacchi, macinata
da altri mulini. Non mi fidavo di tutte queste protesi di fantaego, installate
nel corpo della mia indole. Ero sospettosa, non mi fidavo più di me quando
ciò che facevo, decidevo, dicevo, sceglievo, assomigliava troppo a
qualcos’altro che non fossi io pura e semplice; mi sentivo raggirata da tutti i
riferimenti, le fonti, i rimandi, le simulazioni, le imitazioni di modi di
vivere degli altri filtrati dentro di me: questa non sono io, mi dicevo, io
sono io, identica a me stessa, Carolina, Carolina Groppo, anzi, sono Carolina e
basta, devo grattare via il mio cognome, i cognomi sono malattie ereditarie,
non fanno parte del nucleo vero, dell’identità sincera, devo cominciare a
buttare nel cesso il cognome e continuare grattando via tutto lo sporco intorno
al nucleo, intorno al centro di me, devo restare carolina e basta, dimenticarmi
anche del mio nome, devo fare pulizia di tutte le incrostazioni, devo amputare
questa gamba finta, scucchiaiare via dall’occhiaia posticcia questo sguardo da
cinema, strappare dalla gabbia toracica il ventricolo di cartapesta, arrotolare
e gettare lontano il tubo catodico crasso: il compito della mia esistenza
consiste in questo enorme lavoro di disinfestazione, di disintossicazione. Da
“conosci te stessa” a “sii spontanea”, tutto cospirava a farmi sprofondare in
me, annegandomi dentro la cameretta disadorna della mia autenticità.
Conoscermi consisterebbe in questo enorme lavoro di depurazione. Me stessa,
dovrei arrivare a me stessa, ma cosa significa me
stessa? Me identica a me? Me precisa a me? Me spaccata me?
Me sputata me? Me tale e quale a me? Me affine a me? Me analoga a me? Me
assimilabile a me? Me conforme a me? Me corrispondente a me? Me equiparabile a
me? Me equipollente a me? Me equivalente a me? Me paragonabile a me? Me
parificabile a me? Me pari a me? Me proprio me? Me ma proprio ma proprio me? Me
e non meme’ perlini? Me memento mori? Me mesmerica? Me medesima meco mi
vergogno? Me simile a me? Me di per me? Me in persona? Me incarnata? Me per mia
natura? Me personificata? Me di cui si tratta? Me di cui sopra? Me medesima? Me
predetta? Me succitata? Me summenzionata? Me sottointesa? Me descritta? Me
scritta? Me analizzata? Me vivisezionata? Me intavolata? Me distesa? Me stesa?
Me stessa???
Mestessa, mestessa, mestessa, c’è stato
un periodo in cui mi chiudevo in camera e ripetevo la parola mestessa, come un
mantra, fino a che non significava più niente – per la verità già dopo sei o
sette ripetizioni avevo perso qualsiasi significato. Pensavo che fosse questa
la parte più vera della mia indole, la parte indefinibile, indescrivibile,
indicibile, imprendibile, inafferrabile, nascosta, tenebrosa, tremenda,
mistica, sublime, sfuggente, trasparente, aerea, ariosa, leggera, compatta,
tuttadunpezzo, irripetibile, piuunicacherara. Quando mi accoccolavo dentro di
lei e sprofondavo in mestessa tutto mi sembrava doveroso, benfatto, coerente,
liscio, semplice,vero, onesto. Cioè immobile, idilliaco, pacificato,
mistificato, ammortizzato, mortificato, fatto coincedere a forza, piallato, smussato, cartavetrato,
semplificato. Oltre a constatare che sono quella che sono, non succedeva
nient’altro. Invece un giorno magari arriva il direttore di un giornalino manga
e mi appioppa uno pseudomino. All’ improvviso si è fatta avanti quest’altra
parte di me, si è messa in azione, mi ha promesso perfino di darmi da mangiare
e da vivere, ha radunato tutti i suoi pezzi sparpagliati di carolinità fasulla
e si è data un nome e un cognome, Maria Grazia Graticola: e all’improvviso
eccomi diventata anche qualcun’altra, altrochè mestessa: ioaltra, semmai.
Mestessa è sola una fra i tanti personaggi che gli altri mi hanno trapiantato
dentro. La più sopravvalutata delle protagonioste, il mito più potente. Devo
smetterla di rivolgermi a lei – come se sprofondassi in pellegrinaggio dentro
di me – per le questioni che mi toccano davvero.
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