Il guizzo di un’idea, che cerco di
ingabbiare – aspetta non fuggire, lasciami qualche brandello – via di corsa
sulla tastiera – notepad e picchiettio confuso e veloce per fermare i
frammenti, scritti male, senza una corretta ortografia. Serviranno da schema
per qualcosa che non si può incasellare:
racconto dul nonno / la caccia / rurare / contadino contrada via / poca conoscenza i suoi occhi /
mio nonno costruì la sua casa con i sassi / la relatrice
di sinistra, giornalista / mostra la grammitica, la non grammatica di pisolini
/ passione / mostra pasolino come un babino / la banalita del male / l'articolo
per repubblica / trno in ufficio / il var il roe / che palle / telefonata
Mi piace che rurale sia diventato rurare. E’
divertente che Pasolini sia diventato pisolini/pasolino, ha conservato la sua natura di babino, scusate volevo di bambino.
VAR & ROE (luciopicca)
Value at Risk &
Return on Equity
Non tutto è valutabile, menomale che
esistono i rischi.
Il ritorno non è mai equo – corre sopra, sotto le righe –
Prova a prenderlo?
Mi alzo, la
sveglia: drin, drin, drin.
Non fa proprio
così.
È un suono
elettronico, è una radio sveglia nera a led rossi, bello il colore rosso!
Mi ronzano frammenti
di idee, parole, stati d’animo.
Come’è il mio
animo?
Il nonno, mio nonno
lo chiamavano Adolfo. Il suo vero nome era Dante.
Era del 1905, nato
nel mese di gennaio, nella vigna, voglio
dire in campagna, sui colli albani, nei Castelli Romani. Era un bacciante
agricolo, possedeva un ettaro di terra e la vigna.
Coltivava, tra le
altre cose, le viti, amava il vino.
Varie qualità di
uva – moscato, bellone, malvasia – In un angolo della vigna aveva quattro viti
di greco, per lui il greco era un frutto, era una qualità d’uva oltre ad essere
una lingua.
Sapeva appena leggere
e non scriveva mai, qualche firma.
Lavorava come
bracciante e poi si ritirava nel suo vigneto, lo accarezzava con la zappa, con
la vanga. Grattava il vialetto che divideva la vigna, gli toglieva le erbacce,
diceva – bello il rasaletto , così lo
chiamava nel suo dialetto.
Devo comprare del
solfato di rame, contro i parassiti della vigna.
Per lui i parassiti
si tenevano a bada con il solfato di rame.
Era il suo mondo, fatto di terra, uva, piante, attrezzi agricoli e stagioni. La
sua vita era scandagliata dalle stagioni, il lavoro aveva il ritmo agricolo.
Iniziava all’alba e finiva al tramonto. Coltivava, faceva crescere. Il sudore
sulla maglia, mentre vangava. Non usava il “motore”, non gli piacevano i
trattori, mi diceva – fanno rumore –
l’uva si spaventa, non mi concede il suo nettere migliore , lo trattiene perché
ha paura, la vigna non vuole rumore, vuole sussurri, carezze, qualche graffio
leggero, fatto solamente dal suo contadino, non da altri. La terra è madre, è
donna, ci vuole dedizione, abnegazione. Meglio la mia vanga, la mia zappa, il
mio sguardo – guarda c’è questo acino che soffre, non è integro hai dei
puntini, non è come gli altri ha delle difficoltà. Guardalo è diverso, è in
difficoltà. Ebbene, lo aiuteremo, è in
grado di trattenere più zucchero.
Trasformerà per noi
il sole in bevanda afrodisiaca.
Non è vero, è una
falsità. Lui diceva – Dobbiamo toglierlo!
Mi piace pensarla
diversamente.
Del trattore era
vero, non amava il rumore. Voleva sentire i suoi animali, il cane, il gatto, i
suoi conigli, le galline.
Mi diceva vieni che
facciamo un gioco.
Costruiva lui i
giocattoli, con il legno, le bacchette degli ombrelli vecchi. Con un ramo,
dritto, di sambuco mi costruiva la cerbottana, ero contento. Nella mia casa non
esistevano questi giocattoli, i miei amici non aveveno giocattoli simili , nei
negozi non li vendevano. Erano solo per me, costruiti su misura per me da mio nonno.
Grazie nonno!
Amava la caccia.
L’unico rumore che
accettava era il –bum, del fucile.
Preparava lui stesso
le munizioni, le cartuccie.
Faceva del male,
uccideva degli uccellini. Il dolore era presente, annientava delle vite. Era inserito
nel suo contesto di contadino. Viveva non solo sulla ma anche nella terra.
Seguiva il suo ritmo, era predato e
predava.
Il signor Bacchini
Tortore dava lavoro a mio nonno, lo sfruttava lo predava.
Cosa dire, ero un
bambino di cinque anni, seguivo la sua mole. Mi faceva usare una piccola zappa
– vai togli quell’erbaccia – mi
diceva.
Ricordo i suoi
occhi, celesti, profondi, erano finestre immense aperte su un mondo che non
conoscevo, erano salti, piegamenti. Nonno mi sono fatto la pipì adosso, la
mamma mi sgrida adesso. Non preoccuparti , vieni andiamo nel tinello a cambiare
i calzoncini.
Perché mi alzo il
mattino con questi pensieri, questa voglia di scriverli, perché?
Qual è il motivo?
Mi telefona
Ombretta, un’amica di famiglia.
Ciao, come stai?
Stavi dormendo?
No, sto scrivendo.
-Arriva Cristina,
sua figlia di cinque anni e dice – mamma
le ciliegie sono mature!
Salto carpiato, la
telefonata mi ha spezzato il pensiero.
Ricade, malconcio
sulle mie dita, si, perchè i pensieri prendono corpo sulle mie dita.
Tic, tic, tic, tic.. non c’è il tac.
E’ un ticchettio,
della tastiera: I pensieri sono digitazione
continua su quadrettini di plastica, all’interno di un rettangolo grigio.
Che bello!
Sul mio monitor
appaiono le lettere e le parole, con qualche errore ortografico, digito troppo
veloce e tralascio le lettere o le aggiungo, creo delle nuove parole, un’altra
ortografia. Mi verebbe la voglia di non correggerle, lasciarle lì, come
l’acino malato.
Ho perso il filo,
la telefonata ha spezzato l’incanto.
Mi riapprorpio
delle dita, dei muscoli delle mani e via ridecollo sopra , dentro, nel mio
pensiero: sempre imprendibile: - il mio pensiero cammina un passo avanti a me –
Vieni qui! Per favore.
La relatrice di
sinistra, la giornalista.
Non ricordo il suo
nome, mi sfugge. Mi ero iscritto ad un corso sulla grammatica filmica di Pier
Paolo Pasolini. Una ragazza, simpatica, viva, vivace, decantava i films del
bolognese: La ricotta, Accattone, Il
vangelo secondo Matteo, Il decameron, Teorema, ecc, ecc...
Salò o le 120 giornate di Sodoma, mi rimase impresso. Fu un graffio sulla mia pelle.
La banilità del
male – questo era l’argomento -.
Assuefazione, parla proprio
dell’assuefazione. L’uomo si abitua, si abitua a tutto.
Non vede l’enorme
capacità che ha di distruggere, non dico decostruire ma distruggere.
Distruggiamo la capacità
d’amare, non siamo più in grado, ci ubriachiamo di bisogni, di successi. Le
nostre identità diventano potere che si scontra con altro potere, non multicultura.
Ci vorrebbero sinergie di identità.
Pasolini era sgrammaticato. I suoi films, volutamente,
non rispettavano le regole filmiche – era un iconoclasta dell’immagine.
Pasolini percepì
la solitudine, che oggi viviamo.
Non lo seguo fino
in fondo, preferisco Italo Calvino.
Torno alla mie
dita, ai miei ricordi, ai pensieri. La relatrice parlava, spiegava, mostrava
spezzoni di films. I suoi occhi parlavano, erano
finestre immense aperte sul mondo.
C’era passione
vera, mischiava il suo sangue alle parole, i suoi muscoli mostravano
direttamente Pasolini, il video era un
accessorio. Gli spezzoni dei film si potevano vedere nelle pieghe del suo viso,
nell’inclinazione dello sguardo, sotto la sua pelle.
Ti trasportava, ti
coinvolgeva nel suo viaggio, andavi in apnea.
Uhh! Che
immersione!
La relatrice, coltivava Pasolini, come mio nonno la
vigna.
Il giorno dopo vado
in ufficio, sul mio desk dei report sul VAR (Value at Risk), delle analisi sul
ROE (Return of Equity).
Il mio capo che
dice: - Lucio devi praparare qualche slide
per il meeting con le banche sudafricane. Vai e raccontagli due cazzate, poi
gli offri un aperitivo e ti congedi.
Che palle!
Vado a prendermi un
caffè e inizio a lavorare.
luciopicca
Nessun commento:
Posta un commento