mercoledì 28 dicembre 2016

VAR & ROE


Il guizzo di un’idea, che cerco di ingabbiare – aspetta non fuggire, lasciami qualche brandello – via di corsa sulla tastiera – notepad e picchiettio confuso e veloce per fermare i frammenti, scritti male, senza una corretta ortografia. Serviranno da schema per qualcosa che non si può incasellare:

 

racconto dul nonno / la caccia / rurare / contadino  contrada via / poca conoscenza i suoi occhi /

mio nonno costruì la sua casa con i sassi / la relatrice di sinistra, giornalista / mostra la grammitica, la non grammatica di pisolini / passione / mostra pasolino come un babino / la banalita del male / l'articolo per repubblica / trno in ufficio / il var il roe / che palle / telefonata

 

Mi piace che rurale sia diventato rurare. E’ divertente che Pasolini sia diventato pisolini/pasolino, ha conservato la sua natura di babino, scusate volevo di bambino.

 

 

 

 

VAR & ROE (luciopicca)

Value at Risk & Return on Equity

 

Non tutto è valutabile, menomale che esistono i rischi.
Il ritorno non è mai equo – corre sopra, sotto le righe – Prova a prenderlo?

 

 

 

Mi alzo, la sveglia: drin, drin, drin.

Non fa proprio così.

È un suono elettronico, è una radio sveglia nera a led rossi, bello il colore rosso!

 

Mi ronzano frammenti di idee, parole, stati d’animo.

Come’è il mio animo?

 

Il nonno, mio nonno lo chiamavano Adolfo. Il suo vero nome era Dante.

Era del 1905, nato nel mese di  gennaio, nella vigna, voglio dire in campagna, sui colli albani, nei Castelli Romani. Era un bacciante agricolo, possedeva un ettaro di terra e la vigna.

Coltivava, tra le altre cose, le viti, amava il vino.

 

Varie qualità di uva – moscato, bellone, malvasia – In un angolo della vigna aveva quattro viti di greco, per lui il greco era un frutto, era una qualità d’uva oltre ad essere una lingua.

Sapeva appena leggere e non scriveva mai, qualche firma.

 

Lavorava come bracciante e poi si ritirava nel suo vigneto, lo accarezzava con la zappa, con la vanga. Grattava il vialetto che divideva la vigna, gli toglieva le erbacce, diceva – bello il rasaletto , così lo chiamava nel suo dialetto.

Devo comprare del solfato di rame, contro i parassiti della vigna.

 

Per lui i parassiti si tenevano  a bada con il solfato di rame. Era il suo mondo, fatto di terra, uva, piante, attrezzi agricoli e stagioni. La sua vita era scandagliata dalle stagioni, il lavoro aveva il ritmo agricolo. Iniziava all’alba e finiva al tramonto. Coltivava, faceva crescere. Il sudore sulla  maglia, mentre vangava. Non  usava il “motore”, non gli piacevano i trattori, mi diceva – fanno rumore – l’uva si spaventa, non mi concede il suo nettere migliore , lo trattiene perché ha paura, la vigna non vuole rumore, vuole sussurri, carezze, qualche graffio leggero, fatto solamente dal suo contadino, non da altri. La terra è madre, è donna, ci vuole dedizione, abnegazione. Meglio la mia vanga, la mia zappa, il mio sguardo – guarda c’è questo acino che soffre, non è integro hai dei puntini, non è come gli altri ha delle difficoltà. Guardalo è diverso, è in difficoltà. Ebbene, lo aiuteremo, è in  grado di trattenere più zucchero.

Trasformerà per noi il sole in bevanda afrodisiaca.  

 

Non è vero, è una falsità. Lui diceva – Dobbiamo toglierlo!

Mi piace pensarla diversamente.

 

Del trattore era vero, non amava il rumore. Voleva sentire i suoi animali, il cane, il gatto, i suoi conigli, le galline.

Mi diceva vieni che facciamo un gioco.

 

Costruiva lui i giocattoli, con il legno, le bacchette degli ombrelli vecchi. Con un ramo, dritto, di sambuco mi costruiva la cerbottana, ero contento. Nella mia casa non esistevano questi giocattoli, i miei amici non aveveno giocattoli simili , nei negozi non li vendevano. Erano solo per me, costruiti su misura per me da mio nonno.

 

Grazie nonno!

 

Amava la caccia.

L’unico rumore che accettava era il –bum, del fucile.

Preparava lui stesso le munizioni, le cartuccie.

Faceva del male, uccideva degli uccellini. Il dolore era  presente, annientava delle vite. Era inserito nel suo contesto di contadino. Viveva non solo sulla ma anche nella terra. Seguiva il suo ritmo, era predato e predava.

 

Il signor Bacchini Tortore dava lavoro a mio nonno, lo sfruttava lo predava.

 

Cosa dire, ero un bambino di cinque anni, seguivo la sua mole. Mi faceva usare una piccola zappa – vai togli quell’erbaccia – mi diceva.

Ricordo i suoi occhi, celesti, profondi, erano finestre immense aperte su un mondo che non conoscevo, erano salti, piegamenti. Nonno mi sono fatto la pipì adosso, la mamma mi sgrida adesso. Non preoccuparti , vieni andiamo nel tinello a cambiare i calzoncini.

 

Perché mi alzo il mattino con questi pensieri, questa voglia di scriverli, perché?

Qual è il motivo?

 

Mi telefona Ombretta, un’amica di famiglia.

Ciao, come stai?

Stavi dormendo?

No, sto scrivendo.

-Arriva Cristina, sua figlia di cinque anni e dice – mamma le ciliegie sono mature!

 

Salto carpiato, la telefonata mi ha spezzato il pensiero.

Ricade, malconcio sulle mie dita, si, perchè i pensieri prendono corpo sulle mie dita.

Tic, tic, tic, tic.. non c’è  il tac.

E’ un ticchettio, della tastiera: I pensieri sono digitazione continua su quadrettini di plastica, all’interno di un rettangolo grigio.

Che bello!

Sul mio monitor appaiono le lettere e le parole, con qualche errore ortografico, digito troppo veloce e tralascio le lettere o le aggiungo, creo delle nuove parole, un’altra ortografia. Mi verebbe la voglia di non correggerle, lasciarle lì, come l’acino malato.

 

Ho perso il filo, la telefonata ha spezzato l’incanto.

 

Mi riapprorpio delle dita, dei muscoli delle mani e via ridecollo sopra , dentro, nel mio pensiero: sempre imprendibile: - il mio pensiero cammina un passo avanti a me – Vieni qui! Per favore.

 

 

La relatrice di sinistra, la giornalista.

 

Non ricordo il suo nome, mi sfugge. Mi ero iscritto ad un corso sulla grammatica filmica di Pier Paolo Pasolini. Una ragazza, simpatica, viva, vivace, decantava i films del bolognese: La ricotta, Accattone, Il vangelo secondo Matteo, Il decameron, Teorema, ecc, ecc...

 

Salò o le 120 giornate di Sodoma, mi rimase impresso. Fu un graffio sulla mia pelle.  

La banilità del male – questo era l’argomento -.

 

Assuefazione, parla proprio dell’assuefazione. L’uomo si abitua, si abitua a tutto.

Non vede l’enorme capacità che ha di distruggere, non dico decostruire ma distruggere.

 

Distruggiamo la capacità d’amare, non siamo più in grado, ci ubriachiamo di bisogni, di successi. Le nostre identità diventano potere che si scontra con altro potere, non multicultura.

Ci vorrebbero sinergie di identità.

 

Pasolini era sgrammaticato. I suoi films, volutamente, non rispettavano le regole filmiche – era un iconoclasta dell’immagine.

 

Pasolini percepì la solitudine, che oggi viviamo.

 

Non lo seguo fino in fondo, preferisco Italo Calvino.

 

Torno alla mie dita, ai miei ricordi, ai pensieri. La relatrice parlava, spiegava, mostrava spezzoni di films. I suoi occhi parlavano, erano finestre immense aperte sul mondo.

C’era passione vera, mischiava il suo sangue alle parole, i suoi muscoli mostravano direttamente  Pasolini, il video era un accessorio. Gli spezzoni dei film si potevano vedere nelle pieghe del suo viso, nell’inclinazione dello sguardo, sotto la sua pelle.

Ti trasportava, ti coinvolgeva nel suo viaggio, andavi in apnea.

Uhh! Che immersione!

 

La relatrice, coltivava Pasolini, come mio nonno la vigna.

 

Il giorno dopo vado in ufficio, sul mio desk dei report sul VAR (Value at Risk), delle analisi sul ROE (Return of Equity).

Il mio capo che dice: - Lucio devi praparare qualche slide per il meeting con le banche sudafricane. Vai e raccontagli due cazzate, poi gli offri un aperitivo e ti congedi.

 

Che palle!

Vado a prendermi un caffè e inizio a lavorare.

 

luciopicca

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