GIACOMO LEOPARDI
ZIBALDONE
Pensieri di varia filosofia e di
bella letteratura (1817-1832)
[165] Il sentimento della nullità di tutte
le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la
tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una
cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così
tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente,
benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola
bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti,
perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in
questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla
vita. E non ha limiti 1. nè per durata, 2. nè per estensione. Quindi non ci può
essere nessun piacere che uguagli 1. nè la sua durata, perchè nessun piacere è
eterno, 2. nè la sua estensione, perchè nessun piacere è immenso, ma la natura
delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia
circoscritto. Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perchè,
come ho detto non finisce se non coll’esistenza, e quindi l’uomo non
esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione
perch’è sostanziale in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come
desiderio del piacere. Ora una tal
natura porta con se materialmente l’infinità, perchè ogni piacere è
circoscritto, ma non il piacere la cui estensione è indeterminata, e l’anima
amando sostanzialmente il piacere,
abbraccia tutta l’estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla
neppur concepire, perchè non si può formare idea chiara di una cosa ch’ella
desidera illimitata. Veniamo alle conseguenze. Se tu desideri un cavallo, ti
pare di desiderarlo come cavallo, e come un
tal piacere, ma in fatti lo desideri come piacere astratto e illimitato.
Quando giungi a possedere il cavallo, [166]
trovi un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto nell’anima,
perchè quel desiderio che tu avevi effettivamente, non resta pago. Se anche
fosse possibile che restasse pago per estensione, non potrebbe per durata,
perchè la natura delle cose porta ancora che niente sia eterno. E posto che
quella material cagione che ti ha dato un tal
piacere una volta, ti resti sempre (p.e. tu hai desiderato la ricchezza, l’hai ottenuta,
e per sempre), resterebbe materialmente, ma non più come cagione neppure di un
tal piacere, perchè questa è un’altra proprietà delle cose, che tutto si
logori, e tutte le impressioni appoco a poco svaniscano, e che l’assuefazione,
come toglie il dolore, così spenga il piacere. Aggiungete che quando anche un
piacere provato una volta ti durasse tutta la vita, non perciò l’animo sarebbe
pago, perchè il suo desiderio è anche infinito per estensione, così che quel
tal piacere quando uguagliasse la durata di questo desiderio, non potendo
uguagliarne l’estensione, il desiderio resterebbe sempre, o di piaceri sempre
nuovi, come accade in fatti, o di un piacere che riempiesse tutta l’anima.
Quindi potrete facilmente concepire come il piacere sia cosa vanissima sempre,
del che ci facciamo tanta maraviglia, come se ciò venisse da una sua natura
particolare, quando il dolore la noia ec. non hanno questa qualità. Il fatto è
che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un
suo desiderio infinito, desidera veramente il
piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e
non astratto, e che comprenda tutta l’estensione del piacere, ne segue che il
suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è
piacere, perchè non si tratta di una piccola ma di una somma [167] inferiorità al desiderio e
oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di
dispiacere, come proviamo, perchè l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello
che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un
desiderio illimitato.
Veniamo
alla inclinazione dell’uomo all’infinito. Indipendentemente dal desiderio del
piacere, esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le
cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la
tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa
faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E
stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei
piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3.
e in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si
trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni
ec. Perciò non è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggior del bene, 2.
che la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione e
nelle illusioni. Quindi bisogna considerare la gran misericordia e il gran
magistero della natura, che da una parte non potendo spogliar l’uomo e nessun
essere vivente, dell’amor del piacere che è una conseguenza immediata e quasi
tutt’uno coll’amor proprio e della propria conservazione necessario alla sussistenza
delle cose, dall’altra parte non potendo fornirli di piaceri reali infiniti, ha
voluto supplire 1. colle illusioni, e di queste è stata loro liberalissima, e
bisogna considerarle come cose arbitrarie in natura, la quale poteva ben
farcene senza, 2. coll’immensa varietà [168]
acciocchè l’uomo stanco o disingannato di un piacere ricorresse all’altro,
o anche disingannato di tutti i piaceri fosse distratto e confuso dalla gran
varietà delle cose, ed anche non potesse così facilmente stancarsi di un piacere,
non avendo troppo tempo di fermarcisi, e di lasciarlo logorare, e dall’altro
canto non avesse troppo campo di riflettere sulla incapacità di tutti i piaceri
a soddisfarlo. Quindi deducete le solite conseguenze della superiorità degli
antichi sopra i moderni in ordine alla felicità. 1. L’immaginazione come ho
detto è il primo fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà
nell’uomo, tanto più l’uomo sarà felice. Lo vediamo nei fanciulli. Ma questa
non può regnare senza l’ignoranza, almeno una certa ignoranza come quella degli
antichi. La cognizione del vero cioè dei limiti e definizioni delle cose,
circoscrive l’immaginazione. E osservate che la facoltà immaginativa essendo
spesse volte più grande negl’istruiti che negl’ignoranti, non lo è in atto come
in potenza, e perciò operando molto più negl’ignoranti, li fa più felici di
quelli che da natura avrebbero sortito una fonte più copiosa di piaceri. E
notate in secondo luogo che la natura ha voluto che l’immaginazione non fosse
considerata dall’uomo come tale, cioè non ha voluto che l’uomo la considerasse
come facoltà ingannatrice, ma la confondesse colla facoltà conoscitrice, e
perciò avesse i sogni dell’immaginazione per cose reali e quindi fosse animato
dall’immaginario come dal vero (anzi più, perchè l’immaginario ha forze più
naturali, e la natura è sempre superiore alla ragione). Ma ora le persone
istruite, quando anche sieno fecondissime d’illusioni le hanno per tali, e le
seguono più per volontà che per persuasione, al contrario degli antichi [169] degl’ignoranti de’ fanciulli e
dell’ordine della natura. 2. Tutti i piaceri, come tutti i dolori ec. essendo
tanto grandi quanto si reputano, ne segue che in proporzione della grandezza e
copia delle illusioni va la grandezza e copia de’ piaceri, i quali sebbene
neanche gli antichi li trovassero infiniti, tuttavia li trovavano grandissimi,
e capaci se non di riempierli, almeno di trattenerli a bada. La natura non
volea che sapessimo, e l’uomo primitivo non sa che nessun piacere lo può
soddisfare. Quindi e trovando ciascun piacere molto più grande che noi non
facciamo, e dandogli coll’immaginazione un’estensione quasi illimitata, e
passando di desiderio in desiderio, colla speranza di piaceri maggiori e di
un’intera soddisfazione, conseguivano il fine voluto dalla natura, che è di
vivere se non paghi intieramente di quella tal vita, almeno contenti della vita
in genere. Oltre la detta varietà che li distraeva infinitamente, e li faceva
passare rapidamente da una cosa all’altra senz’aver tempo di conoscerla a
fondo, nè di logorare il piacere coll’assuefazione. 3. La speranza è infinita
come il desiderio del piacere, ed ha di più la forza se non di soddisfar
l’uomo, almeno di riempierlo di consolazione, e di mantenerlo in piena vita. La
speranza propria dell’uomo, degli antichi, fanciulli, ignoranti, è quasi
annullata per il moderno sapiente. V. il pensiero che incomincia Racconta, p.162.
Del
resto il desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione
(non solamente nell’uomo ma in ogni vivente), la pena dell’uomo nel provare un
piacere è di veder subito i limiti della sua estensione, i quali l’uomo non
molto profondo gli scorge solamente da presso. Quindi è manifesto 1. perchè
tutti [170] i beni paiano bellissimi
e sommi da lontano, e l’ignoto sia più bello del noto; effetto della
immaginazione determinato dalla inclinazione della natura al piacere, effetto
delle illusioni voluto dalla natura. 2. perchè l’anima preferisca in poesia e
da per tutto, il bello aereo, le idee infinite. Stante la considerazione qui
sopra detta, l’anima deve naturalmente preferire agli altri quel piacere
ch’ella non può abbracciare. Di questo bello aereo, di queste idee abbondavano
gli antichi, abbondano i loro poeti, massime il più antico cioè Omero,
abbondano i fanciulli veramente Omerici in questo, (v. il pensiero Circa l’immaginazione, p.57. e l’altro
p.100.) gl’ignoranti ec. in somma la natura. La cognizione e il sapere ne fa
strage, e a noi riesce difficilissimo il provarne. La malinconia, il
sentimentale moderno ec. perciò appunto sono così dolci, perchè immergono
l’anima in un abbisso di pensieri indeterminati de’ quali non sa vedere il
fondo nè i contorni. E questa pure è la cagione perchè nell’amore ec. come ho
detto p.142. Perchè in quel tempo l’anima si spazia in un vago e indefinito. Il
tipo di questo bello e di queste idee non esiste nel reale, ma solo nella
immaginazione, e le illusioni sole ce le possono rappresentare, nè la ragione
ha verun potere di farlo. Ma la natura nostra n’era fecondissima, e voleva che
componessero la nostra vita. 3. perchè l’anima nostra odi tutto quello che
confina le sue sensazioni. L’anima cercando il piacere in tutto, dove non lo
trova, già non può esser soddisfatta. Dove lo trova, abborre i confini per le
sopraddette ragioni. Quindi vedendo la bella natura, ama che l’occhio si spazi
quanto è possibile. La qual cosa il Montesquieu (Essai sur le goût, De la
curiosité. p.374.375.) attribuisce alla curiosità. Male. La curiosità non è
altro che una determinazione [171] dell’anima
a desiderare quel tal piacere, secondo quello che dirò poi. Perciò ella potrà
esser la cagione immediata di questo effetto, (vale a dire che se l’anima non
provasse piacere nella vista della campagna ec. non desidererebbe l’estensione
di questa vista), ma non la primaria, nè questo effetto è speciale e proprio
solamente delle cose che appartengono alla curiosità, ma di tutte le cose
piacevoli, e perciò si può ben dire che la curiosità è cagione immediata del
piacere che si prova vedendo una campagna, ma non di quel desiderio che questo
piacere sia senza limiti. Eccetto in quanto ciascun desiderio di ciascun
piacere può essere illimitato e perpetuo nell’anima, come il desiderio generale
del piacere. Del rimanente alle volte l’anima desidererà ed effettivamente
desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni
romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perchè
allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra
al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella
siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si
figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perchè
il reale escluderebbe l’immaginario. Quindi il piacere ch’io provava sempre da
fanciullo, e anche ora nel vedere il cielo ec. attraverso una finestra, una
porta, una casa passatoia, come chiamano. Al contrario la vastità e
moltiplicità delle sensazioni diletta moltissimo l’anima. Ne deducono ch’ella è
nata per il grande ec. Non è questa la ragione. Ma proviene da ciò, che la
moltiplicità delle sensazioni, confonde l’anima, [172] gl’impedisce di vedere i confini di ciascheduna, toglie
l’esaurimento subitaneo del piacere, la fa errare d’un piacere in un altro
senza poterne approfondare nessuno, e quindi si rassomiglia in certo modo a un
piacere infinito. Parimente la vastità quando anche non sia moltiplice, occupa
nell’anima un più grande spazio, ed è più difficilmente esauribile. La
maraviglia similmente, rende l’anima attonita, l’occupa tutta e la rende
incapace in quel momento di desiderare. Oltre che la novità (inerente alla
maraviglia) è sempre grata all’anima, la cui maggior pena è la stanchezza dei
piaceri particolari.
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