ZOE - Italo Calvino
L'uomo
che viaggia e non conosce ancora la città che lo aspetta lungo la strada, si
domanda come sarà la reggia, la caserma, il mulino, il teatro, il bazar. In ogni
città dell'impero ogni edificio è differente e disposto in un diverso ordine: ma
appena il forestiero arriva alla città sconosciuta e getta lo sguardo in mezzo a
quella pigna di pagode e abbaini e fienili, seguendo il ghirigoro di canali orti
immondezzai, subito distingue quali sono i palazzi dei principi, quali i templi
dei grandi sacerdoti, la locanda, la prigione, la suburra. Così - dice qualcuno
- si conferma l'ipotesi che ogni uomo porta nella mente una città fatta soltanto
di differenze, una città senza figure e senza forma, e le città particolari la
riempiono.
Non
così a Zoe. In ogni luogo di questa città si potrebbe volta a volta dormire,
fabbricare arnesi, cucinare, accumulare monete d'oro, svestirsi, regnare,
vendere, interrogare oracoli. Qualsiasi tetto a piramide potrebbe coprire tanto
il lazzaretto dei lebbrosi quanto le terme delle odalische. Il viaggiatore gira
gira e non ha che dubbi: non riuscendo a distinguere i punti della città, anche
i punti che egli tiene distinti nella mente gli si mescolano. Ne inferisce
questo: se l'esistenza in tutti i suoi momenti è tutta se stessa, la città di
Zoe è il luogo dell'esistenza indivisibile. Ma perché allora la città? Quale
linea separa il dentro dal fuori, il rombo delle ruote dall'ululo dei
lupi?
Italo
Calvino,
Le città invisibili
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