Enrico Mattei
(...mutazione antropologica della classe dirigente)
La mia Patria si chiama Multinazionale
discorso di Eugenio Cefis
presidente della Montedison
all'Accademia Militare di Modena
Modena, 23 febbraio 1972
Il
documento che pubblichiamo qui di seguito, il discorso che un imprenditore
italiano ha fatto nel febbraio scorso, è di grande interesse per almeno tre
ragioni E cioè: per chi ha fatto il discorso, per cosa è stato detto, per chi
ascoltava.
Cominciamo
proprio da questi ultimi, gli spettatori,
tutti quanti o allievi dell'Accademia Militare di Modena, o insegnanti
della medesima, o dirigenti della stessa. Pubblico eccezionale, quindi. Un bel
pezzo, un pezzo importante, di quella macchina militare che anche in Italia sta
prendendo velocità ben collegata com'è con il potere economico e con quello
politico.
Passiamo
poi alla figura dell'oratore, anche questa eccezionale: Eugenio Cefis, il
presidente della Montedison, uno degli uomini, cioè, oggi più potenti del
nostro paese.
E, infine,
cosa è stato detto. Cefis ha chiacchierato soprattutto delle multinazionali, di
quelle società cioè che operano in più stati, e che quindi sono moli grandi. Il
discorso del presidente della Montedison può essere diviso tranquillamente in
tre parti: nella prima spiega, o meglio magnifica, il concetto di multinazionale,
e si rammarica che ne esistano ancora così poche nella seconda parte, invece,
esamina rapporti fra queste e il potere politico, e sono le pagine dove
troviamo le affermazioni più inquietanti; nella terza parte, infine, si congeda
dai suoi ascoltatori lasciando loro qualche cauto consiglio, però
facilmente decifrabile dietro
l'apparente ovvietà, ricco di possibili conseguenze (o speranze) non proprio
democratiche.
Tutta la
serata, per essere brevi, ha visto l'illustrazione ai futuri quadri militari di
come sarà, o Cefis spera che sia, il capitalismo dei prossimi anni, e di cosa
possono fare a questo punto (di concreto, di operativo) gli allievi di
un'accademia dove si ritiene ancora fondamentale saper andare a cavallo, ma
dove si insegnano già la tecnologia elettronica, e forse anche il linguaggio
dei calcolatori.
Il
consiglio di Cefis ai militari, tra le righe, è stato molto chiaro: cercatevi
un vostro specifico ruolo tecnocratico-dominante all'ombra delle grandi aziende
che noi faremo. Il lavoro non vi mancherà. Anche perché, vedete, i politici
funzionano sempre meno bene...
Documento
importante, quindi, che riportiamo nella sua versione integrale.
Signori, perché un ex allievo di questa Accademia torna dopo più di
trent'anni tra queste mura a parlarVi di un tema così estraneo all'arte
militare come le imprese multinazionali?
Perché un ex ufficiale che le vicende della guerra
del dopoguerra hanno portato su strade molto lontane dalla vita militate sente
il bisogno di aprire un dialogo con i soldati di domani?
E' molto semplice.
Io sono convinto che Voi sarete chiamati nei
prossimi anni a svolgere un ruolo importantissimo e vorrei esserVi utile
offrendo la mia esperienza come elemento di meditazione.
Io ho lasciato Modena a quando si pensava ancora
che la guerra potesse essere vinta dalle baionette; alle spalle avevamo ancora
una agricoltura di sussistenza l'agricoltura della falce e un'industria chiusa
negli schemi ristretti dell'autarchia voluta dal fascismo.
La guerra ci ha buttato allo sbaraglio contro chi
ormai aveva capito che le battaglie si vincevano con i carri armati, contro chi
aveva alle spalle 1'agricoltura del trattore e un'economia aperta alle grandi
dimensioni internazionali.
Trent'anni fa l'ufficiale aveva ancora una
funzione di tipo ottocentesco, era soprattutto uno strumento della macchina
della guerra, impegnato a sacrificarsi fin in fondo per la difesa del
territorio della Patria.
Poi qualcosa è cambiato nel mondo; è cambiato dal
1945, da quando le esplosioni atomiche hanno dimostrato che la guerra poteva
uccidere non soltanto degli esseri umani ma l'intera umanità.
Ma nello stesso tempo i cultori dell'arte militare
hanno scoperto da molteplici esperienze (e ne citiamo soltanto tre: resistenza
europea, Algeria e Vietnam), che anche gli ordigni bellici più spaventosi non
potevano prevalere senza l'appoggio della popolazione: in un certo senso ci
siamo trovati di fronte alla rivincita della baionetta, quando dietro a quella
esiste una forza morale, esiste il senso della storia. Io penso che oggi a
l'Ufficiale si imponga una duplice responsabilità.
Da un lato, Egli deve essere cittadino del mondo,
perché ha un compito di dimensione mondiale per la difesa della pace;
dall'altro deve comprendete sempre meglio i meccanismi politici e soprattutto
economici che più della potenza militare influenzano il nostro futuro.
Gli stessi elementi che indicano la forza di un
Paese sono cambiati: non contano più tanto e solo le disponibilità di risorse e
di materie prime, quanto le capacità organizzative e la velocità di
aggiornamento al processo tecnologico.
E più che mai è importante il senso del dovere; ma
intendo quel senso del dovere che può nascere soltanto in un Paese libero, con
quella libertà che in Italia è garantita dalla Costituzione repubblicana che
Voi siete impegnati a difendere.
In un'epoca in cui si pensa che la terra sia una
nave spaziale che fa parte di un convoglio assieme agli altri pianeti e che in
un futuro non tanto lontano, per rifornirsi di materie prime ci si potrà
rivolgere alle altre navi di questo convoglio, cioè gli altri pianeti, il
pensare a una guerra di conquista, ad una guerra per sottrarre risorse ad un'altra
nazione è tanto assurdo quanto criminale.
Faticosamente e tra mille contraddizioni, gli
uomini del nostro pianeta, a oriente come ad occidente, sono alla ricerca degli
strumenti migliori per garantire il progresso, il benessere e la dignità di
tutta la popolazione, e quando Voi pensate al quadro mondiale il cui si
inserirà la Vostra presenza, dovete ricordare sempre che anche Voi siete al
servizio di questo gigantesco sforzo, ragione stessa della pace.
Ecco quindi perché io vengo a parlarVi delle
imprese multinazionali; queste imprese sono uno dei maggior protagonisti della
storia recente del mondo occidentale e possiamo prevedere che, nel bene e nel
male il nostro futuro sarà in larga misura determinato dalla iniziative di
questi grandi organismi economici. Per questo Voi dovete conoscerle.
Il tema delle multinazionali è molto vasto, non
vorrei annoiarVi e quindi cercherò di limitarmi agli aspetti più generali
rispondendo soprattutto ad alcune domande:
—che cosa sono le multinazionali?
—che conseguenze provocano nell' economia
mondiale?
—come si svilupperà il rapporto tra queste società
che operano su basi internazionali e gli stati sovrani che tendono sempre più a
voler controllare i fatti economici che si svolgono all'interno del loro
territorio?
Iniziamo il discorso dalla definizione di
multinazionali.
E' tutt'altro che facile.
Gli stessi teorici non sono d'accordo: c'è chi
definisce come multinazionali tutte quelle società che hanno struttura
produttiva in diverse nazioni, cioè che sono presenti con propri stabilimenti,
e non soltanto con un'organizzazione commerciale, in molti Paesi del mondo in
questo caso già oggi le multinazionali sarebbero per lo meno alcune centinaia.
C'è invece chi dice che la multinazionalità è un
punto, di arrivo e che si potrà parlare di imprese multinazionali soltanto
quando in un futuro più o meno lontani le scelte più importanti di un gruppo
industriale non saranno effettuate soltanto in un paese, ma vi sarà un
effettivo decentramento delle decisioni e, come conseguenza, ci saranno uguali
prospettive di carriera fino ai massimi livelli per i dirigenti di tutte le
nazionalità.
Se accettiamo questa definizione, dobbiamo dire
che di multinazionali non ne esiste nessuna, perché quando il gruppo dirigente
di un'impresa è formato tutto o quasi tutto da elementi della stessa
nazionalità, dai quali dipendono in pratica le maggiori decisioni, si verifica
sempre una tendenza comprensibile a scegliere i propri stretti collaboratori e
quindi anche gli eventuali successori tra persone che hanno la stessa base di
cultura e di Iinguaggio.
Questo fenomeno, del resto, non è limitato alle
organizzazioni economiche, come dimostra il caso della Chiesa cattolica che,
pur avendo carattere universale, ha sempre espresso da molti secoli Pontefici
della stessa nazionalità.
Se, pertanto, accettiamo quest'ultima definizione
delle multinazionali, dovremo dire che si tratta di un tipo di impresa che
ancora non esiste e che al massimo oggi si può parlare di società binazionali
come la Royal Dutch-Shell che è anglo-olandese o la Pirelli-Dunlop che è
italo-inglese.
Per semplicità di discorso mi si permetta comunque
di rinunciare alla precisione del teorico, e di parlare di multinazionali per
definire tutte quelle aziende che oggi articolano sostanzialmente la loro
attività in molti Paesi e interessano con le loro iniziative la economia di
vasti aree geografiche sia dal punto di vista degli scambi di risorse e
tecnologie, sia da quello degli investimenti dei riflessi sui livelli di
occupazione.
La tendenza delle imprese a guardare al di là dei
confini nazionali è assai remota e può essere fatta risalire alle compagnie
commerciali del '600, come la famosa Compagnia delle Indie, che pur facendo
capo ad un Paese europeo possedevano e sfruttavano concessioni negli altri
continenti con bandiera propria ed anche con facoltà di disporre di proprie
forze armate.
Ma le prime vere società multinazionali rivolte non allo sfruttamento coloniale ma alla
intensificazione degli scambi tra i Paesi più progrediti, si svilupparono,
nel secolo scorso con le iniziative della Shell e della Royal Dutch e in
seguito negli Stati Uniti, quando questi ultimi incominciarono ad affermarsi
come potenza economica sulla scena mondiale.
Come conseguenza, numerose società americane si
insediarono in Europa e in Canada con un centinaio di unità produttive.
Ne ricordiamo alcune: la Colt, la Singer, la
I.T.T., la General Electric, la Westinghouse, la Kodak e la Parke Davis.
In tutti questi casi, si trattava di società con
produzioni già relativamente sofisticate e di notevole contenuto tecnologico,
che giustificavano la costruzione di proprie unità produttive in altri Paesi
con il fatto che le proprie esportazioni in tali aree, pur già notevoli,
rischiavano di non riuscire nel tempo a fronteggiare adeguatamente la minaccia
di concorrenti locali.
Successivamente, nei primi anni di questo secolo,
con l'avvento del motore a scoppio, presero a svilupparsi sempre più le società
petrolifere, principalmente di origine americana, che avevano il problema di
aumentare costantemente le proprie fonti di approvvigionamento.
La filosofia delle società petrolifere portava
direttamente alla multinazionalità.
Infatti il petrolio greggio, se si fa eccezione
per 1e cospicue risorse nord-americane, doveva essere ricercato in Paesi
lontani ed arretrati.
Le possibilità di approvvigionamento mantenevano
quindi un carattere aleatorio, sia perché i luoghi di origine potevano essere
coinvolti in guerre coloniali, sia perché le rotte di trasporto potevano essere
minacciate da fatti bellici.
Tutto ciò induceva le compagnie a teorizzare la
massima flessibilità, cioè la possibilità di attingere i propri rifornimenti da
diversi Paesi e anche di indirizzare i flussi del greggio verso aree di consumo
sempre più diversificate.
Lo sviluppo delle società petrolifere, appunto per
questi motivi, è stato enorme: la Standard Oil New Jersey, cioè la Esso, opera
oggi in 100 Paesi, la Gulf in 50, la Royal Dutch-Shell è presente con circa 300
unità produttive e commerciali in tutto il mondo.
La potenza economica di queste società le induceva
spesso a svolgere un ruolo di primo piano nella vita politica locale, un ruolo
che poteva essere preponderante nei deboli e arretrati Paesi produttori ma,
come ci insegna la storia del nostro Paese nell'immediato dopoguerra, poteva
essere di tutto rilievo anche nei Paesi consumatori, soprattutto quando vi era
alle spalle un consistente appoggio politico, come quello delle potenze
vittoriose nell'ultimo conflitto mondiale.
Ed è proprio dopo l'ultimo conflitto mondiale che
le imprese multinazionali si sono sviluppate, estendendosi a molti altri
settori industriali, soprattutto quelli tecnologicamente più avanzati, per i
quali le multinazionali sono una effettiva esigenza: lo sviluppo del transistor
o del computer non poteva concepirsi che in condizioni di multinazionalità.
Quando gli storici futuri esamineranno l'arco di
questi venticinque anni, è probabile che tra le caratteristiche principali di
questo periodo, che ha trasformato casì radicalmente l'economia ed anche il
volto politico del nostro pianeta, essi citeranno al primo posto il gigantesco
incremento del volume del commercio mondiale.
Nel 1950 il volume dell'interscambio mondiale (ad
eccezione dei paesi dell'est europeo) raggiunse i 153 miliardi di dollari.
Vent'anni più tardi, nel 1970, il volume
dell'interscambio ha toccato, per la stessa area, i 573 miliardi di dollari (a
valore costante).
In vent'anni, quindi, il volume dell'interscambio
si quasi quadruplicato.
E' inutile
che mi dilunghi sulle ragioni di questo sviluppo. Ne citerò solo alcune:
—l'eliminazione delle restrizioni quantitative
agli scambi;
—la riduzione delle protezioni tariffarie;
—la maggior liquidità dei mezzi di pagamento
internazionali, cioè la maggiore facilità di effettuare pagamenti da un Paese
all'altro;
—lo sviluppo sempre più accelerato del progresso
tecnologico;
—la formazione di comunità economiche su scala
continentale, come la Comunità europea;
—una rete di trasporti sempre più estesa ed
efficiente;
—l'estensione del benessere, e quindi di un
maggiore potere d'acquisto, ad uno strato sempre più ampio della popolazione
mondiale.
In questo arco di tempo, quindi, le imprese si
sono abituate a guardare alle grandi aree continentali come ad un unico
mercato.
Anche nelle decisioni di investimento, le imprese
hanno attribuito un'importanza secondaria ai confini nazionali, scegliendo per
i nuovi impianti la località che poteva apparire più proficua,
indipendentemente dal fatto che questa si trovasse nell'uno o nell'altro Stato.
Qualche dato può illustrare la dimensione
raggiunta oggi dal fenomeno industriale multinazionale.
Il totale della produzione di beni e servizi
realizzato da consociate di multinazionali, esclusa quindi la produzione di
società minori, è oggi di circa 120 mila miliardi di lire.
Tale cifra è superiore al prodotto nazionale lordo
di ogni Paese, ad eccezione di quelli degli Stati Uniti e dell'Unione
Sovietica. Circa 2/3 di questa cifra riguarda le consociate di società madri
aventi sede negli Stati Uniti, il restante terzo fa capo principalmente a
consociate di imprese europee, principalmente inglesi, olandesi, svizzere e
tedesche.
Le principali società multinazionali americane
hanno oggi oltre 3.000 unità produttive all'estero; il fatturato di tali unità
è circa doppio rispetto a quello delle esportazione degli Stati Uniti. Ancora
qualche dato.
Oggi il tasso di incremento del fatturato delle
consociate di società multinazionali è circa del 10% l'anno, mentre il prodotto
nazionale lordo, cioè l'indice più significativo per misurare lo sviluppo
economico di una nazione, aumenta mediamente del 5%.
Tale tasso di incremento è del 40% superiore a
quello delle esportazioni.
In altre parole, il ritmo di crescita delle
multinazionali è molto superiore a quello degli indicatori dello sviluppo di
tutte le economie industriali.
Sulla base di questi dati, alcuni studiosi
prevedono che la quota della produzione mondiale controllata dalle
multinazionali è destinata ad aumentare ulteriormente. Considerando anche le
economie di scala di cui godono queste imprese, cioè la possibilità di realizzare
economie attraverso il coordinamento delle loro attività, gli stessi studiosi
prevedono che nel 2000, cioè tra meno di trent'anni, oltre due terzi della
produzione industriale mondiale sarà in mano alle 200/300 maggiori società
multinazionali.
A questo punto ci si può domandare quali ragioni
spingono una società ad inserirsi con proprie unità produttive sui mercati
stranieri e quali vantaggi ne ricava.
In un'epoca di mercati sempre più aperti potrebbe
sembrare più agevole e vantaggioso sviluppare le proprie attività attraverso un
aumento delle esportazioni.
Eppure, come abbiamo detto, il fatturato delle
filiali delle società multinazionali di origine americana all'estero è oggi
circa doppio di quello ricavato dalle esportazioni.
In modo molto schematico possiamo indicare queste
ragioni per l'espansione multinazionale:
—aspirazione
a raggiungere dimensioni ottimali.
Superato un determinato livello, che naturalmente
è diverso da un settore produttivo all'altro, non sono più possibili economie di scala sulla produzione, cioè
costruendo impianti sempre più grandi; è invece possibile aumentare le economie di scala di impresa, che si
realizzano con un coordinamento dei finanziamenti, delle attività di ricerca e
sviluppo, dei sistemi avanzati di gestione.
L'investimento diretto in paesi stranieri consente
realizzare queste economie attraverso:
—una maggiore distribuzione delle spese di ricerca
—un miglior utilizzo delle conoscenze
tecnologiche,
delle capacità manageriali, delle tecniche di
gestione e di marketing sempre più sofisticate e costose.
—necessità
di superare le barriere commerciali con l'insediamento di unità produttive nei
mercati in cui si vuole penetrare.
Vi sono ancora moltissime aree economiche in cui
le esportazioni sono pressoché impossibili a causa di tariffe doganali
proibitive o di limiti quantitativi, cioè di contingenti di importazione.
Se, quindi, si vogliono sfruttare le possibilità,
talvolta rilevanti, offerte da tali mercati appare necessario o almeno
consigliabile procedere ad un'attività produttiva sul posto.
—possibilità
di fronteggiare meglio situazioni congiunturali avverse. Anziché
concentrare tutte le attività produttive in un solo mercato appare talvolta più
vantaggioso ripartire il proprio impegno su più mercati; si potrà così
bilanciare con il successo su uno di essi i
mediocri risultati ottenuti in un altro.
—necessità
li fronteggiare in modo adeguato la concorrenza.
In molti casi è opportuno controbattere i
produttori stranieri effettuando direttamente investimenti sul loro mercato.
Inoltre, se esistono mercati terzi che presentano
condizioni favorevoli, è opportuno precedere le iniziative dei concorrenti
effettuando propri investimenti.
Abbiamo visto che la decisione di un'impresa di
trasformarsi in multinazionale, effettuando ingenti investimenti all'estero
dipende soprattutto dalle esigenze della produzione e da quelle dei mercati di
sbocco.
La produzione e i mercati hanno caratteristiche
diverse in ciascun settore industriale; è facile comprendere quindi che la caratteristica
di multinazionalità è maggiormente presente in certi settori e meno in altri
dove il ciclo produttivo può svolgersi in condizioni economicamente valide
anche su aree limitate.
In generale si può dire che le multinazionali sono
presenti:
—nei settori che coinvolgono lo sfruttamento di
risorse ingenti di materie prime provenienti da Paesi in via di sviluppo; qui
però siamo di fronte a un tipo particolare di multinazionale di derivazione
coloniale.
—nei settori tecnologicamente più avanzati.
Circa 1'85% degli investimenti esteri delle
società manifatturiere statunitensi è concentrato nei settori automobilistico,
chimico, meccanico, elettrico ed elettronico.
Vi sono però settori che hanno importanza di primo
piano per l'economia mondiale come l'acciaio o l'industria aeronautica in cui
la multinazionalità non ha potuto svilupparsi soprattutto perché il potere
politico li ha ritenuti di tale importanza, per ragioni di solito collegate
alle esigenze della difesa, da porli sotto uno stretto controllo nazionale.
Abbiamo visto come i Paesi d'origine delle società
multinazionali siano stati soprattutto gli Stati Uniti e, in misura minore, la
Gran Bretagna.
La penetrazione delle multinazionali di questi
Paesi ha un carattere dominante anche in certe nazioni che possono essere
considerate economicamente sviluppate, come il Canada dove 75 delle 100
maggiori società sono controllate dagli Stati Uniti o dalla Gran Bretagna o
l'Australia dove la produzione industriale è per 40% sotto il controllo di
società americane.
In Europa la presenza di una struttura industriale
più consistente ed anche la maggior sensibilità politica dei Governi ha frenato
il processo di sviluppo delle multinazionali senza però impedire che esso
raggiungesse dimensioni imponenti.
Infatti nel 1969 gli investimenti americani in
consociate europee, nella sola industria manifatturiera hanno superato i 700
miliardi di lire.
E' bene sottolineare però che certi discorsi
sull'invasione industriale americana in Europa devono essere rivi alla luce dei
più recenti avvenimenti.
E' vero che soprattutto attraverso le
multinazionali la presenza degli Stati Uniti nella economia europea assai
consistente, ma è anche vero che si sta sviluppando pure un processo in senso
inverso.
E' sempre più frequente il caso di grandi società
di origine europea che impiantano stabilimenti anche negli Stati Uniti.
Questa è la diretta conseguenza del sorgere anche
Europa di società multinazionali che per la logica stessa del loro sviluppo non
possono rinunciare ad un mercato così ricco come il mercato nord americano;
ricco ed anche interessante, perché in certi settori molto avanzati, come ad
esempio il settore farmaceutico, una presenza industriale, anche limitata, in
tutti i Paesi più progrediti ha la stessa funzione degli esploratori nell'arte
militare: segnalare i movimenti degli avversari, essere al corrente sui
prodotti più avanzati che, sperimentati dapprima sul mercato interno, saranno
poi immessi sul mercato mondiale.
La multinazionale, quindi, è un fenomeno anche
europeo.
Non possiamo nasconderci però che la situazione
politica dell'Europa rende piuttosto difficile un processo di concentrazione
industriale in senso multinazionale.
Fino a quando il nostro continente sarà
frammentato in diversi stati, fino a
quando la multinazionalità potrà essere identificata con uno o due Paesi
d'origine, cioè con i Paesi delle società madri, le iniziative delle affiliate
della multinazionale dovranno sempre combattere un certo clima di diffidenza e
di sospetto dovuto al fatto che i loro centri decisionali più importa sfuggono
al controllo del potere pubblico locale.
Prima però di entrare nel vivo di questo discorso
cioè dell'esame del complesso sistema dei rapporti tra multinazionali e stati
nazionali, è opportuno esaminare brevemente come avviene il processo
decisionale all'interno delle società multinazionali, cioè in sostanza chi
detiene il potere di decisione in queste società che per le loro iniziative
hanno dimensioni mondiali.
Nella categoria delle imprese multinazionali
possiate collocare società dalle caratteristiche più diverse: dalle imprese
fortemente centralizzate che per diversi motivi concedono poco spazio
all'iniziativa delle consociate, ad imprese largamente decentrate, che si basi
sulla massima autonomia all'interno del Gruppo.
Di massima si può dire che l'autonomia delle
consociate è maggiore:
—quando i Paesi in cui esse operano sono
caratterizzati da un tenore di vita relativamente elevato;
—quando esse presentano buoni risultati
gestionali, un'efficace realizzazione delle strategie di sviluppo proposte
dalla casa madre, un valido sfruttamento dì possibilità offerte dal mercato
locale.
E' comunque in atto una tendenza verso l'adozione
strategie globali delle multinazionali integrate su scala mondiale e ciò
soprattutto per ragioni finanziarie, di programmazione e di controllo.
Si tratta di un fenomeno inevitabile, collegato
alla logica di comunicazioni sempre più rapide e agevoli, formazione di un
mercato finanziario ormai su basi mondiali, al fatto stesso che molte società
multinazionali legano a loro consociate appositamente costituite a servizi per
tutto il Gruppo, come possono essere i trasporti, la ricerca, l'ingegneria.
In questo modo una società facente parte di una
multinazionale ed operante su un determinato territorio nazionale viene a far
capo non a una sola casa madre ma a diverse società collegate che ne
controllano le diverse funzioni.
Talvolta poi i più grandi gruppi multinazionali
prevedono società di controllo a due livelli; dapprima su scala continentale e
poi in un'unica società mondiale che a sua volta controlla le società
continentali; ed è inevitabile che una struttura di questo genere, per quanto imposta dalle esigenze dei tempi,
tolga un ulteriore margine di autonomia alle consociate nazionali. Finora
abbiamo parlato delle imprese multinazionali. Vediamo ora l'altro protagonista
dell'economia mondiale, l'interlocutore con cui tutte le imprese multinazionali
devono dialogare nelle loro iniziative: lo Stato nazionale.
Se esaminiamo il problema storicamente, vediamo
subito che i rapporti tra multinazionali e potere politico si sono posti in
modo diverso a seconda del grado di sviluppo del Paese in cui la multinazionale
opera.
Nella prima fase dello sviluppo dei Paesi del
terzo mondo, le multinazionali hanno esercitato un ruolo importantissimo.
Questi Paesi, infatti, hanno assolutamente bisogno per la loro crescita del
patrimonio di capitali, di tecnologie e di esperienze ti cui dispongono le
imprese multinazionali.
D'altra parte soltanto queste imprese possono
accollarsi i rischi relativi all'instabilità politica che solitamente
accompagnano la fase di decollo.
In questo primo stadio, in cui la classe politica
locale è ancora molto debole e spesso sottoposta a tutela di fatto da parte
delle potenze ex coloniali, le imprese multinazionali possono dettare le regole
del gioco.
Al limite può accadere talvolta che qualche
Governo proceda alla nazionalizzazione di singole unità produttive appartenenti
alle multinazionali. Ma è difficile che un tale Governo riesca a reggere alla
pressione politica che le multinazionali possono esercitare.
D'altra parte anche una nazionalizzazione in un
Paese privo di una classe dirigente e di tecnici adeguati rischia di risolversi
in una pura perdita di profitto e di prestigio.
Ben presto, infatti, i protagonisti della
nazionalizzazione scoprono che non basta possedere le materie prime e magari
gli impianti industriali quando mancano mezzi di trasporto e di distribuzione
nelle aree di elevato consumo.
Questo è il classico meccanismo sul quale, fino a
qualche anno fa, si sono rette le cosiddette sette sorelle che non temevano il
rischio di nazionalizzazione della industria petrolifera in quanto sapevano che
i Paesi via di sviluppo non erano in grado di commercializzare da soli il petrolio
greggio e i prodotti raffinati. D'altro canto, è molto difficile che un Paese
ancora povero e arretrato possa permettersi di adottare iniziative politiche
che scoraggino gli investimenti esteri. Le royalties che vengono versate al
Paese ospitante, valuta derivata dalle esportazioni, i salari con cui
manodopera locale è retribuita, sono fatti economici di tale rilevanza da porre
in secondo piano i problemi dell'autonomia e del prestigio politico.
In una fase
successiva, quella del decollo
economico, la classe politica locale si rafforza e prende in esame
soluzioni che possono servire a limitare il potere delle multinazionali.
In questa fase, la nazionalizzazione delle
affiliate locali delle società multinazionali può anche dare risultati
positivi, quando esiste nel Paese la possibilità di gestire, in proprio, con
propri tecnici, le attività produttive.
Nello stesso tempo, la classe dirigente locale si
pone problema di come far giungere direttamente i propri prodotti nelle aree di
elevato consumo.
Si cercano accordi ad altre condizioni, con altre
società internazionali, magari in concorrenza con quelle impegnate sul proprio
territorio, oppure si formano associazioni di Paesi produttori che bloccano le
forme di concorrenza dannosa sui prezzi di vendita delle mate prime.
Anche qui il settore petrolifero è caratteristico.
Certi Paesi hanno preferito ricorrere direttamente
alla nazionalizzazione degli impianti di estrazione e talvolta delle
raffinerie.
Ma le forme più comuni di intervento dei Paesi
produttori sulla politica petrolifera si attuano oggi attraverso:
—gli accordi con le compagnie di Stato dei Paesi
consumatori;
—le iniziative dell'OPEC, I'organizzazione dei
Paesi esportatori di petrolio, che permettono ai produttori di presentarsi con
un fronte comune rispetto alle compagnie multinazionali.
Qualunque sia la forma di difesa adottata dal
potere politico, per la multinazionale il risultato è doppiamente allarmante:
da un lato sono messe in forse le fonti di approvvigionamento di tutto il
sistema; dall'altro si assiste ad un'erosione dei margini di profitto. E la
risposta delle multinazionali si sviluppa in due forme diverse di
differenziazione delle proprie attività produttive:
—diversificando le proprie fonti di
approvvigionamento per compensare le perdite subite in un Paese per eventuali
nazionalizzazioni attraverso l'aumento della produzione in altri Paesi;
—attraverso l'intervento in altri settori,
tecnologicamente più avanzati, dove è assai difficile fare a men del patrimonio
di esperienza che soltanto un'organizzazione multinazionale può offrire.
Per continuare l'esempio tratto dall'industria
petrolifera, la conseguenza di questa strategia è una sempre più massiccia
presenza delle imprese multinazionali provenienti dal settore petrolifero
nell'industria chimica e petrolchimica, che richiede conoscenze assai più
progredite e più difficili da acquisire che non la semplice attività di
estrazione e raffinazione del petrolio.
In questa seconda fase, anche quando gli Stati
adottano una politica di massimo incoraggiamento agli investimenti esteri, il
Governo locale cercherà comunque di spogliare la presenza delle multinazionali
da qualsiasi addentellato politico.
Cosi, ad esempio, in alcuni Paesi americani, i
Governi locali hanno chiesto alle affiliate delle multinazionali di rinunciare
a far valere la possibilità d'intervento diplomatico e politico del Paese
d'origine impegnandosi in cambio di questa rinuncia, a comportarsi con le affiliate
delle multinazionali con gli stessi criteri giuridici ed economici che valgono
nei confronti delle società locali.
Esiste, infine, una terza fase che caratterizza i
Paesi ormai industrializzati.
La classe politica locale ha ormai conseguito la
sua indipendenza economica, e scopre che per mantenere il ritmo delle nazioni
più ricche non può fare a meno delle imprese multinazionali e del loro apporto
di capitali e tecnologia.
Il problema dei rapporti tra Stati industriali
moderni e imprese multinazionali è appunto quello su cui è opportuno
approfondire maggiormente il nostro discorso anche perché ci riguarda più da
vicino.
In questa fase lo Stato non deve soltanto seguire
con attenzione le iniziative delle affiliate delle imprese multinazionali di
origine estera ma deve anche considerare le conseguenze delle iniziative delle
sue società multi nazionali cioè di quelle che hanno all'interno del proprio
territorio la casa madre.
Spesso, infatti, queste iniziative possono essere
oggetto di preoccupazione da parte delle autorità politiche, o perché sono
suscettibili di creare aree di tensione nei rapporti con altri Paesi, o anche
perché aggravano gli squilibri economici all'interno del Paese stesso.
Ad esempio, quando un Paese ha difficoltà
contingenti nella bilancia dei pagamenti, cioè nei conti con l'estero,
preferirebbe di gran lunga che le imprese svolgessero un'azione all'interno del
Paese realizzando nuovi impianti ed esportandone i prodotti anzichè esportare i
capitali il cui rendimento è sempre a più lungo termine.
Se il Paese ha ancora aree arretrate o permane una
rilevante disoccupazione, il potere politico si preoccuperà che le risorse
esportate siano sottratte allo sviluppo interno.
Bisogna naturalmente che questa giusta esigenza
non si trasformi in un'ottica miope, perché abbiamo visto che spesso gli
impianti che possono essere realizzati all'estero, magari attraverso joint
ventures, cioè iniziative congiunte con imprese di altri Paesi, non sarebbero
ugualmente realizzabili all'interno.
Impedire queste iniziative comporterebbe quindi
una perdita secca nelle possibilità di esportazione di tecnologie ed anche
eventualmente di forniture per gli impianti in progettazione all'estero.
Ma l'attuale dimensione degli Stati è compatibile
con una politica efficace nei confronti delle imprese multinazionali?
Tutti i Governi si trovano oggi a dover vivere un
dilemma la cui soluzione è molto difficile.
Da un lato, ci si evolve sempre più verso
l'identificazione della politica con la politica economica.
In altre parole, i fatti economici, dai livelli di
occupazione alla produzione di reddito, dagli investimenti ai flussi di beni e
servizi, sono sempre più importanti nel determinare il clima sociale e quello
politico in cui il Governo deve agire. Esiste quindi la tendenza dello Stato a
controllare sempre più i fatti economici.
Questo avviene:
—attraverso l'intervento diretto, sotto forma di
aziende pubbliche;
—attraverso strumenti monetari, cioè regolando la
quantità di moneta e credito a disposizione degli operatori economici;
—attraverso strumenti fiscali e tariffari, cioè
con agevolazioni e sgravi fiscali che facilitino o rendano più difficile il
conseguimento di determinati obiettivi, oltre che naturalmente con gli
strumenti classici di azione verso l'esterno: barriere doganali, controlli
finanziari e sui cambi.
L'impiego di questi strumenti è normalmente
inquadrato in una politica di programmazione più o meno rigida che definisce
quali devono essere gli obiettivi che lo Stato persegue in politica economica.
L'altro corno del dilemma è dato dal fatto che il
territorio nazionale è sempre più insufficiente per un'economia che tende ormai
a muoversi in dimensioni mondiali.
Infatti:
—Se i controlli statali creano vincoli eccessivi
agli investimenti e alle operazioni in un Paese, la società multinazionale può
comunque rispondere potenziando le sue attività in altre aree geografiche e
disinvestendo dal Paese in cui si sente troppo contrastata.
—Gli strumenti fiscali sono di difficile impiego.
Una società che opera in un solo Paese può sempre
essere tassata dal Governo sulla base dei suoi guadagni effettivi, ammesso che
i bilanci possano essere controllati; ma all'all'affiliata di una società
multinazionale è abbastanza facile dimostrare al fisco di essere sempre in
perdita e, al tempo stesso, essere un buon affare per a casa madre.
Basta infatti che acquisti le materie prime da
un'altra società del Gruppo a un prezzo sufficientemente elevato perché produca
un reddito per il Gruppo nel sul complesso.
—Le barriere doganali e tariffarie e in generale
il controllo sui movimenti di beni e di denaro rispetto all'estero sono di
applicazione sempre più difficile perché provocano una serie di ritorsioni da
parte di altri Paesi.
—Anche l'impiego delle imprese di Stato ha i suoi
limiti.
L'impresa di Stato risponde direttamente al potere
politico, è strettamente vincolata da esigenze sociali interne ed ha senza
dubbio grosse difficoltà a porsi su un piano concorrenziale rispetto alle
imprese multinazionali molto più libere nei loro movimenti tra un Paese
l'altro.
Insomma gli Stati nazionali nei loro rapporti con
le imprese multinazionali sembrano spesso come i giocatori di una squadra di
calcio costretti da un assurdo regolamento a giocare soltanto nella propria
area di rigore lasciando ai loro avversari la libertà di muoversi a piacimento
per tutto il campo.
Del resto, un fenomeno analogo lo sperimenterete
anche Voi quando dovrete cimentarVi con i problemi della di fesa di uno Stato
nazionale.
Oggi, l'arte militare, Voi lo sapete benissimo, è
strettamente collegata alla disponibilità di risorse finanziarie e di
esperienze tecniche che un Paese può difficilmente realizzare da solo senza
essere inserito in un quadro stabile di alleanze militari.
Anche dal punto di vista militare l'unica risposta
possibile è quella di un allargamento della dimensione del potere politico a
livello almeno continentale.
La difesa del proprio Paese si identifica sempre
menò con la difesa del territorio ed è probabile che arriveremo anche ad una
modifica del concetto stesso di Patria, che probabilmente i Vostri figli
vivranno e sentiranno in modo diverso da Voi.
Del resto non ci sarebbe da stupirsi perché, come
Voi sapete, il concetto di Patria è un concetto che si è trasformato nel tempo
tanto che, anche all'epoca del Risorgimento, ben pochi erano i cittadini che
sapevano di essere italiani e non si consideravano invece semplici abitanti del
Regno delle due Sicilie o del Granducato di Toscana.
Abbiamo visto che il potere politico stenta a far
fronte ai problemi posti dalle dimensioni internazionali dei processi
economici. Ma deve essere chiaro, quando si pensa a questo problema, che esso
non può essere affrontato in termini statici.
Non si può chiedere alle imprese multinazionali di
fermarsi ad aspettare che gli Stati elaborino una risposta adeguata sul piano
politico ai problemi che esse pongono.
Così come — e l'esperienza italiana ce lo insegna
— non si può chiedere al potere sindacale, che è l'altra grande forza economica
che esiste negli Stati democratici moderni, di bloccare le rivendicazioni dei
lavoratori in attesa che lo Stato elabori le risposte adeguate.
Le forze economiche hanno una loro logica di
sviluppo che deve essere indirizzata dal potere politico verso migliori
risultati sul piano sociale; ma per raggiunge: questo obiettivo gli Stati
devono elaborare risposte sempre aggiornate, direi quasi inventare strumenti di
politica economica sempre nuovi.
Si tratta insomma di una continua sfida da1 cui
esito dipenderà il futuro della società occidentale.
Se le forze operanti a livello nazionale non
riusciranno a tenere il passo dello sviluppo economico e dei suoi problemi,
assisteremo a un progressivo svuotamento del potere politico nazionale.
I maggiori centri decisionali non saranno più
tanto nel Governo o nel Parlamento, quanto nelle direzioni delle grandi imprese
e nei sindacati, anch'essi avviati ad un
coordinamento internazionale.
Gli organi centrali statuali tenderanno sempre più
a svolgere un compito di mediazione:
—tra l'una e l'altra impresa;
—tra le imprese e i sindacati;
—tra le imprese e gli organi di autogoverno locale,
regioni e comuni, che manterranno una particolare vitalità perché in essi si
esprime più intensamente la spinta dei cittadini delle democrazie moderne verso
una più ampia partecipazione alla gestione della cosa pubblica. Che il sistema
istituzionale si stia profondamente trasformando sotto la spinta dell'economia
e soprattutto della tecnologia, lo potete constatare Voi stessi se soltanto
riflettete un momento sulla spinta crescente che appunto la tecnologia imprime
alla "professionalità" nel Vostro campo.
Gli eserciti nazionali basati sulla coscrizione
obbligatoria potrebbero essere destinati a cedere nuovamente il passo ad
apparati militari professionali analogamente a quanto avveniva alcuni secoli
fa; apparati militari non dissimili nella loro carica di tecnicità da una
moderna organizzazione produttiva.
E' chiaro però che questo tipo di
professionalizzazione delle forze militari porterebbe con sè l'enorme problema
del controllo politico su un esercito fatto esclusivamente di tecnici; così
come del resto già oggi si pone il problema del controllo politico su una
classe manageriale il cui potere è in costante crescita.
Se questo è il tipo di società verso cui ci stiamo
avviando, è facile prevedere che in essa il sentimento di appartenenza del
cittadino allo Stato è destinato ad affievolirsi e, paradossalmente, potrebbe
essere sostituito da un senso di identificazione con l'impresa multinazionale
in cui si lavora.
Io non dico che questa prospettiva di svuotamento
degli Stati nazionali e di annullamento di quell'insieme di valori ideologici,
storici e tradizionali che essi hanno rappresentato sia la prospettiva migliore
e auspicabile.
Dico solo che siamo di fronte a una tendenza di
fatto della società moderna che potrà essere conciliata con quegli stessi
antichi valori soltanto se il potere politico nazionale sarà in grado di
rispondere alla sfida dell'economia rinnovando profondamente il proprio ruolo.
Che cosa può fare concretamente il potere politico
per esplicare le sue funzioni di difesa degli interessi della comunità sociale
senza per questo condannare il Paese a un tasso di sviluppo rallentato che si
risolve in un danno per tutti?
La prima risposta, la più ovvia, è quella di
favorire forme di integrazione politica su scala continentale.
E' chiaro che se l'Italia è un mercato troppo
ristretto per una grande impresa, l'Europa è invece il maggior mercato del
mondo.
Se esistesse un interlocutore a livello europeo in
grado di esercitare un controllo politico sulle multinazionali, con poteri ben
al di là di quelli della Comunità Economica Europea, le iniziative delle
multinazionali potrebbero più facilmente contribuire a risolvere gli squilibri
economici anziché aggravarli.
Questa ipotesi però si potrà realizzare soltanto
quando i singoli Stati nazionali rinunceranno, almeno in parte, alla loro
sovranità.
E' chiaro quindi che si tratta di una prospettiva
non a breve termine. Vediamo invece che cosa si può fare oggi in un'Europa
ancora suddivisa in numerosi Stati di dimensioni limitate.
Innanzitutto gli Stati devono farsi promotori di
una regolamentazione delle iniziative industriali nel diritto internazionale.
Come sapete il diritto internazionale nasce dagli
accordi tra gli Stati sovrani.
Questa è l'unica vera strada per cercare di
risolvere problemi che non possono essere affrontati in modo unilaterale né
dallo Stato ospitante, né dallo Stato di origine della multinazionale e neppure
dall'impresa stessa. Quest'ultima può sembrare avvantaggiata dalla pluralità
degli ordinamenti e dallo stato di incertezza e di mancanza di controlli
politici.
In realtà soffre anche tutti gli inconvenienti di
una situazione di confusione, che certo non favorisce gli investimenti, e deve
inoltre costantemente temere le reazioni ostili che possono insorgere da parte
di gruppi di pressione economica e politica locali.
Mi sembra comunque utopistica la soluzione di chi
vuol instaurare un'autorità internazionale, magari nell'ambito dell'ONU, per il
controllo sulle imprese internazionali. E' più facile e più proficuo creare una
disciplina comune, eventualmente a livello di aree continentali, armonizzando
le norme giuridiche, fiscali ed amministrati vigenti nei vari Paesi,
attraverso, come dicevo prima, una tenace, diuturna attività di contrattazione.
L'età in cui viviamo è del resto, chiaramente
sotto il segno del negoziato e della pattuizione: perfino la programmazione da
"imperativa" che era, si è fatta "contrattuale", e ogni
giorno — si può dire — il diritto-imperio cede il passo al diritto-contratto.
Anche la creazione della cosiddetta Società
europea, cioè di un nuovo diritto societario che permetta alle il imprese di
operare a pari condizioni in tutti i Paesi del Comunità Economica Europea
rappresenterebbe un passo importante in questa direzione.
Ma il protagonista principale del dialogo del
potere politico con le imprese multinazionali sarà ancora per molto tempo
l'organo della programmazione nazionale. Ed io credo che chi è responsabile
della programmazione di un Paese debba valutare l'operato delle multinazionali
facendo un calcolo che va al di là di qualsiasi convenienza xenofoba, ma anche
di qualsiasi convenienza il mediata.
Troppo spesso i responsabili della politica economica,
quando esaminano i progetti delle imprese multinazionali dei loro Paesi, si
limitano a considerarne la convenienza in termini di royalties, di imposte, di
quote importazione, di reinvestimento dei profitti.
Essi non valutano sufficientemente quelle conseguenze
che non si ripercuotono immediatamente sul bilancio dello Stato, ma
sull'economia in generale, e cioè il tipo di tecnologia introdotta, il livello
di autonomia de impresa, la presenza o meno di attività di ricerca, i rapporti
che si instaurano con il personale, la possibilità dei dipendenti del Paese di
arrivare ad alti livelli decisionali.
Se gli organi della programmazione nazionale
voglio compiere una verifica di questo genere sui programmi delle grandi
imprese, I'unica soluzione possibile è continua contrattazione dei programmi
aziendali.
Le imprese oggi operano con programmi a 5-10 o a
dirittura 20 anni; è giusto quindi che questi programmi siano continuamente
verificati con quelli degli Stati per identificare tempestivamente le possibili
aree di attrito ed elaborare soluzioni prima di arrivate a conflitti
insanabili.
Ha scritto uno dei maggiori esperti delle multinazionali,
Christopher Tugendhat: “ la posizione delle imprese è sotto certi aspetti
analoga a quella della Chiesa Cattolica in passato.
Spesso Re e Imperatori temevano che la loro
posizione di potere fosse indebolita dalla organizzazione internazionale della
Chiesa, dalla sua influenza sulle politiche nazionali e dalle sue immense
ricchezze.
Di solito queste tensioni si sono risolte in due
modi. Alcuni Paesi hanno rotto con Roma
e hanno creato Chiese indipendenti, altri hanno negoziato concordati col Papa,
definendo le rispettive sfere di influenza creando una cornice giuridica che
permettesse loro lavorare insieme in armonia. Oggi nessun Paese industriale
avanzato può creare Chiese indipendenti, cioè isolarsi totalmente dalle imprese
multinazionali e internazionali, perché questo significa rinunciare a tutti i
vantaggi che tali imprese possono offrire.
L'impresa multinazionale è una realtà politica ed
economica del mondo moderno. Se gli Stati vogliono poter godere del massimo dei
benefici che le imprese posso fornire, e ridurre al minimo i costi, devono
promuovere intese che permettano di lavorare assieme".
Signori, vi chiedo scusa se vi ho rubato tanto
tempo ma un argomento di questa mole e di questa importanza non poteva essere
sintetizzato in poche parole.
Da quanto vi ho detto, io spero che vi sia rimasta
soprattutto una sensazione: che il mondo sta cambiando rapidamente, e che il
ruolo che ciascuno di noi sarà chiamato a svolgere in futuro potrebbe essere
molto diverso da quanto ci aspettiamo.
Perciò, rivolgendomi a voi, ufficiali di domani,
vorrei concludere con una esortazione: non disdegnate le scienze politiche, non
trascurate lo studio dei fenomeni sociali, approfonditeli con attenzione e
meditate sulle loro linee evolutive. In poche parole, occupatevi di politica .
Non certo come militari, come casta, ma come cittadini, per dare un senso al
vostro impegno di fedeltà alla Costituzione Repubblicana.
Studiate i problemi del mondo che Vi circonda;
riflettete sull'importanza del Vostro ruolo in un'epoca non può più permettersi
la guerra.
La difesa della Patria, del pezzo di terra su cui
si è nati e cresciuti, non si realizza oggi solo attraverso la lotta armata per
difenderne i confini, ma anche con una chiara coscienza di quei valori di
libertà, di democrazia e di giustizia sociale su cui è costruita la nostra
Repubblica.
Siate i difensori di questi valori, e in Voi si
perpetuerà la migliore tradizione dell'Esercito Italiano.
la foto che hai pubblicato all'inizio della pagina non è di Eugenio Cefis ma di Enrico Mattei
RispondiEliminagrazie, correggo.
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