DESERTO ROSSO – Michelangelo Antonioni
Appunti
...Non riesco a guardare a lungo il mare. Mai, mai, mai!
Se no tutto quello che succede a terra non mi interessa più.
...Cosa devo guardare?
Razionalità e convergenza
Cos’è uno stabilizzatore?
1+1=1 !
Cosa si porta con SE!
Il freddo, la solitudine.
Deserto
Rosso
Primo film a
colori di Antonioni, che per la fotografia si avvalse della collaborazione del grande
direttore Carlo Di Palma, "Deserto rosso" rappresenta un film
cruciale per il regista. Antonioni analizza il difficile rapporto tra ambiente
sociale e individuo. Il personaggio cardine della storia è Giuliana, moglie
insoddisfatta non solo del proprio rapporto coniugale ma anche della propria
sfera sociale e affettiva. Sullo sfondo della città di Ravenna, della quale
risaltano soprattutto i tratti d’una modernità spinta e
dell’industrializzazione invasiva, Giuliana vive una vita sempre più
estraniata. Già nella sequenza iniziale, i fatti che la circondano (lo sciopero
nella raffineria) non la toccano minimamente e la donna cade pian piano in una
progressiva depressione-regressione. Reduce da un grave incidente
automobilistico che l’ha lasciata sconvolta, Giuliana non riesce a ritrovare i
rapporti affettivi con il marito, un dirigente industriale, e con il
figlioletto. Il marito non è che l’antitesi del suo disadattamento
all’ambiente, integrato com’è nella propria dimensione sociale. Giuliana
inizialmente pensa di uscire dal suo stato di insoddisfazione rifugiandosi
nella relazione con Corrado, un collega e amico del marito. Ma l’uomo
rappresenta un ulteriore elemento di estraneità, egli stesso è completamente
incapace di adattarsi all’ambiente che lo circonda. La malattia della donna
progredisce, Giuliana non ha altro pensiero che la fuga verso una spiaggia
completamente deserta. Ma l’ambiente esterno la schiaccia sempre di più fino a
costringerla ad abbandonarsi completamente alla depressione, arrendendosi
Nono film di Antonioni, e il suo primo a colori, in funzione soggettiva
(fotografia di Carlo Di Palma) come espressione di una realtà dissociata e con
ambizione di trasformarlo esso stesso in racconto come "mito della
sostanziale e angosciosa bellezza autonoma delle cose". Come nei 3
precedenti film con Monica Vitti, la donna è l'antenna più sensibile di una
nevrosi comune nel contesto della società dei consumi e della natura inquinata.
Leone d'oro alla Mostra di Venezia
Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
La vicenda di Deserto rosso, l'ultimo
film di Michelangelo Antonioni ha il merito d'una semplicità lineare. Una
donna, moglie d'un industriale di Ravenna, in seguito ad un incidente
automobilistico, s'è ammalata di nervi. Dire che è nevrotica è dir poco; siamo
quasi al limite della follia. La signora soffre soprattutto d'un sentimento
continuo di paura. Tutto le incute spavento: la fabbrica del marito, la salute
del figlio, la propria solitudine, i rapporti con la gente, la natura e le
cose. Capita a Ravenna un giovane industriale alla ricerca di tecnici per
impiantare una fabbrica in Argentina. Costui, che pare soffrire anche lui della
stessa angoscia, fa un po' di corte alla donna la quale, in un momento di crisi
(ha temuto che il figlio si fosse ammalato di paralisi infantile) gli cede.
Ecco tutto.
A ben guardare è l'adulterio tradizionale
(diciamo così) di tipo borghese. L'adulterio cioè consumato per inquietudine
bovaristica. Questo non è nuovo in Antonioni il quale viene dalla borghesia e
ne interpreta la crisi. Nuovo semmai è il ricorso esplicito alla nevrosi cioè
ad una condizione morbosa che interessa più la medicina che la cultura, con la
correzione però di proiettarne i sintomi su uno sfondo, appunto, culturale.
Così Deserto rosso è la descrizione d'una nevrosi che, come avviene sovente
oggi, s'innesta direttamente nella situazione storica dell'alienazione di
origine capitalistica e industriale. Semplice malattia ai tempi di Charcot, la
nevrosi, nel film di Antonioni, diventa facilmente condizione umana. Gli è che
mentre la nevrosi è rimasta quella che era, la storia o quello che di solito si
chiama storia, s'è mossa e l'ha investita d'un significato che un tempo non
aveva.
Il paragone con certi film di Bergman
potrebbe tuttavia illuminarci sopra il carattere specifico dell'operazione di
Antonioni. Si vedrebbe allora che Antonioni è più moderno di Bergman nel senso
di rappresentare e far parte d'una società nella quale il processo dissolutivo
è più avanzato che in quello del regista svedese. Anche Bergman descrive una
nevrosi: ma pur non cadendo in una caratterizzazione clinica di tipo
positivistico e conservando le implicazioni culturali, mette una distanza
oggettiva di specie naturalistica tra lui e il personaggio. In Deserto rosso,
invece, Antonioni s'identifica con la protagonista. In realtà non è il
personaggio di Antonioni ad avere paura bensì, sia pure con le attenuazioni e i
filtri propri dell'arte, Antonioni stesso. Diremo con questo che Antonioni è
nevrotico? Non lo diremo certamente, diremo piuttosto che non c'è in lui né la
volontà né l'aspirazione a mettersi fuori della nevrosi, cioè a dare un nome
alla crisi storica che purtuttavia egli indica chiaramente come la vera causa
della malattia. Con ostinazione Antonioni si tiene dentro i limiti del suo
personaggio: vuol farci credere che non ne sa un punto più della sua adultera
borghese. In questo modo riesce è vero a sfuggire alla tentazione ideologica:
ma rischia però di cadere nell'astrazione d'un continuo stupore di specie
onirica.
Nel film di Antonioni ci sono due realtà,
quella degli uomini e quella delle cose. Nelle cose è trasferita l'angoscia
degli uomini i quali, forse per questo, risultano, rispetto alle cose,
svuotati, casuali, descritti in aneddoti di scarsa incisività.
Nessun volto umano in Deserto rosso è
così mistico e reale come i pezzi di muro, i tubi, le cartacce e gli altri
innumerevoli oggetti sui quali l'obbiettivo di Antonioni indugia con una
attenzione meditabonda, luicida, delirante. Gli è che Antonioni vede il mondo
attraverso gli occhi della protagonista; e questa mentre ha rapporti nutriti
con le cose, non ne ha nessuno con gli uomini. Antonioni non vuole sporcarsi le
mani con la psicologia, questa fangosa facoltà soltanto umana; e così si dedica
con passione alle cose. Senza dubbio Deserto rosso è il film italiano nel quale
il colore è stato adoperato sinora con maggiore eleganza, capacità plastica,
maestria: senza dubbio Antonioni non aveva mai fatto dire alle cose, ci si
consenta il bisticcio, tante cose. Ma come nelle rappresentazioni della pittura
informale e della decorazione musulmana, si direbbe talvolta che in Deserto
rosso la figura umana sia di troppo. Tant’ è che le parti più belle sono
quelle, come per esempio la sequenza della favola, in cui l'azione, già tenue,
s'interrompe del tutto. Monica Vitti è, con bravura e intensità, la
protagonista e bisogna riconoscere che la sua nevrosi è credibile e al tempo
stesso non compromette la sincerità e violenza del breve rapporto d'amore.
Accanto a lei Richard Harris, l’amante, una parte difficile, riesce ad essere
molto efficace.
Alberto Moravia
L’Espresso
1 novembre 1964
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